All’ultimo giro del Campionato del Mondo di ciclocross di Hoogerheide, cittadina olandese a pochi chilometri da Anversa, Van der Poel è al comando della gara. Insieme a lui, incollato come una cozza allo scoglio, c’è come al solito il belga Wout Van Aert. La loro è una storia di rivalità ma anche di solitudine, di quella solitudine che si vive in due: zweisamkeit, dicono in Germania. Stare da soli in due, ma anche bastare a se stessi come coppia. Van Aert e Van der Poel bastano a se stessi ma anche a noi, tanto che quando corrono insieme - uno contro l’altro - tendiamo a dimenticarci della gara alle loro spalle, quella stessa gara che stanno correndo anche loro due. Perché la gara in sé diventa un dettaglio, un ennesimo capitolo di una storia che va ben al di là di quella singola sfida.
Alle loro spalle c’è il vuoto e dopo il vuoto ci sono Eli Iserbyt e Lars van der Haar, ancora un belga e un olandese. Ogni tanto uno dei due davanti si volta a controllare che davvero alle sue spalle non ci sia nessuno e ogni volta non c’è mai nessuno, a parte quella marea di gente appollaiata dappertutto per vedere la corsa - certo - ma soprattutto per vedere l’ultimo atto del loro duello. Nel corso dell’inverno Van Aert e Van der Poel se le sono date di santa ragione, come forse non era mai successo negli ultimi anni che erano stati contrassegnati da un netto dominio dell’olandese. Quest’anno, invece - complici i problemi alla schiena di Van der Poel che ancora non si è del tutto ripreso dalla brutta caduta in mountain bike alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021 -, i valori sembravano essersi ribaltati. Van Aert era stato in grado di battere il rivale come non gli era mai riuscito in carriera e nonostante la sconfitta in volata a Benidorm dello scorso 22 gennaio sembrava davvero avere in mano la possibilità di tornare finalmente a vincere un Campionato del Mondo dopo cinque lunghi anni di attesa e di sconfitte.
Mathieu van der Poel aveva sgretolato il gruppo già al primo dei dieci giri, un attacco deciso al quale solo Van Aert era riuscito a rispondere. A quel punto i due se ne sono andati da soli, in una serie di attacchi e reazioni, parate e risposte come due fiorettisti troppo bravi per colpirsi a vicenda. L’olandese prova ad attaccare nei tratti più tecnici, al passaggio sulle tavole di legno (due tavole messe in verticale che gli atleti devono saltare con la bicicletta una dopo l’altra) o sulla salita verso metà percorso. Van Aert prova a mettere la ruota davanti nei tratti in cui può andare di progressione, sprigionando tutta la sua forza bruta.
Al terzo giro Van Aert ha un’incertezza nel saltare le tavole - appare quasi goffo nel suo tentativo - e Van der Poel prova ad allungare, spietato. Ma appena la strada si fa più scorrevole, il belga torna sotto inesorabilmente e chiude il buco in cima alla scalinata da affrontare a piedi, con la bici in spalla. La corsa a piedi, non a caso, è sempre stato il suo punto di forza, la chiave di alcuni dei suoi successi più dolci. Come ai Mondiali di Valkenburg nel 2018 quando la pioggia rese il tracciato talmente fangoso da costringere i ciclisti ad affrontare numerosi tratti a piedi.
Ma Van Aert quando attacca lo fa con forza e al quinto giro sembra quasi che il suo avversario sia sul punto di cedere. Il belga prova ad accelerare in salita. Quando la strada si fa più impervia, ecco di nuovo Van der Poel che torna sotto ad annullare un altro attacco e a riprovare a partire in contropiede sfruttando le tavole da saltare. Ma poi c’è di nuovo la strada libera e ancora le scale dove Van Aert rientra.
Si va avanti così fino all’ultimo giro. Una gara che a raccontarla sembra noiosa, scontata. Ma non a viverla, lì, in quei momenti in cui tutto l’equilibrio sembra aggrapparsi a un filo sottile che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro. Col senno di poi sappiamo che quel filo non si è rotto: ha tenuto per un’ora, stoico, nonostante tutto. E ci sembra scontato che sia così, che la storia sia andata per quei nove giri esattamente come sarebbe dovuta andare: non c’erano altre soluzioni.
A metà del decimo giro Van der Poel lascia che sia il belga a stare davanti. Vuole che sia Van Aert a impostare quell’ultima parte, con il suo ritmo e senza punti di riferimento. La scelta è tattica, certo, ma soprattutto psicologica: mettere il rivale davanti all’incertezza, insinuare il dubbio sulle sue scelte. Attaccare o no, andare forte o rallentare, giocare in surplace o tirare dritto. Forse Van der Poel gioca anche sulla sicurezza che Van Aert ha accumulato in questi ultimi mesi di vittorie, anche schiaccianti. Gioca scaricando addosso al belga il peso della responsabilità di dimostrare qualcosa di più, per riscattare anni di sconfitte con un’unica grande vittoria ai Mondiali. Gioca sulla sensazione che in fondo, finalmente, potrebbe davvero essere l’anno buono per Van Aert che quindi non può permettersi di sbagliare, di rischiare di perdere facendo la scelta peggiore fra quelle possibili.
Van Aert accetta la sfida, in fondo gli va anche bene così. Stare davanti, dettare il ritmo e avere la possibilità di controllare lo svolgersi di quelle ultime sezioni del percorso. Può tenere la ruota davanti quando salteranno sulle tavole di legno, dove infatti Van der Poel lo ripassa di slancio, quasi involontariamente, prima di tirare i freni per rimettersi a ruota.
A quel punto le scelte di Van Aert sono limitate. Può sembrare paradossale vista la forza mostrata da Van Aert nelle volate di gruppo su strada, ma in un duello diretto in volata ristretta contro Mathieu van der Poel è sempre andato in grande difficoltà. L’episodio più famoso al Giro delle Fiandre 2020: Van Aert si piazza a ruota di Van der Poel, lasciando che sia lui a impostare la volata. Van der Poel rallenta e poi parte secco, Van Aert risale, sembra riuscire ad affiancarlo ma l’olandese rilancia ancora come se lanciasse un’altra volata, la seconda nel giro di poche centinaia di metri. Rilancia, tiene, vince.
Anche allora quella sfida catartica arrivava al termine di una stagione che aveva visto Wout Van Aert sovvertire le gerarchie fra i due, imponendosi nelle gare precedenti su più terreni e con maggiore costanza rispetto all’olandese. Van der Poel invece sembrava sempre incapace di ritrovare la giusta brillantezza, il colpo di pedale giusto e quell’esplosività mostruosa che contraddistingue le sue azioni. In quel Fiandre invece avevano corso alla pari fino in fondo, da soli in due fino alla volata.
Quella volta Van Aert aveva lasciato davanti Van der Poel, aveva aspettato che fosse lui a lanciare lo sprint per cercare di prendergli la ruota e saltarlo secco negli ultimi metri - come si fa di solito in questi casi. Eppure qualcosa non aveva funzionato e la rimonta si era incagliata all’improvviso, incompiuta per pochi centimetri. Stavolta - tre anni dopo, in tutt’altro contesto - Van Aert accetta di invertire le carte. Il pregresso è lo stesso di allora: una stagione trionfale per Van Aert, capace di vincere ovunque e di battere a più riprese uno spento Van der Poel, che sembrava faticare a trovare la giusta condizione.
Il 22 gennaio, nella tappa di Coppa del Mondo a Benidorm, in Spagna, Van der Poel aveva preso davanti la volata ed era riuscito a vincere. Uno sprint diverso su un rettilineo più breve in un finale ben più tortuoso e meno lineare di quello dei Mondiali di Hoogerheide. Però era stato un segnale che forse qualcosa stava cambiando: uno sprazzo di un ritorno alla normalità.
Alla fine del 2022 era successo qualcosa di strano. Sulle strade del ciclocross Van Aert si era imposto come l’uomo più in forma, dominando in lungo e in largo con distacchi che non aveva mai inflitto ai suoi avversari (né a Van der Poel né agli altri) e su terreni che non sempre l’avevano visto primeggiare. Un dominio dettato da una condizione di gran lunga superiore, indubbiamente, che l’aveva portato a mascherare i suoi limiti tecnici con una straordinaria lucidità nei momenti chiave. Quando gli altri arrivavano con le gambe in fiamme e la testa annebbiata, Van Aert riusciva ancora ad essere lucido e ad affrontare i settori più critici con freschezza, senza commettere errori.
Una lucidità che è stata spesso scambiata per una crescita tecnica, nonostante van Aert continui ad avere i suoi limiti da quel punto di vista, e ce ne siamo accorti ai recenti Mondiali di Hoogerheide quando arrancava ogni volta che c’erano da saltare quelle maledette tavole di legno. La precisione e la pulizia nei passaggi più tecnici era quindi molto più probabilmente dovuta appunto a una maggiore resistenza che gli consentiva di affrontare quei settori con più precisione, senza forzare. Cosa che non riusciva a Mathieu van der Poel, autore anche di errori clamorosi per uno come lui, dettati dal disperato tentativo di tenere la ruota del rivale.
La superiorità fisica di Wout Van Aert è stata per lunghi tratti di questa stagione di ciclocross quasi incomprensibile e incontrastabile. Quello che più ha stupito è stata la capacità di Van Aert di martellare tempi sul giro impensabili per i suoi avversari, non tanto sul giro secco quanto nella costanza con la quale il belga riusciva a replicare quei tempi giro dopo giro. Costringendo quindi gli avversari a fare gli straordinari per provare a tenergli testa, portandoli allo sfinimento fisico e mentale e forzando di conseguenza errori tecnici dettati appunto dalla stanchezza. Un esempio lampante l’abbiamo avuto nella tappa di Coppa del Mondo di Zonhoven, in Belgio, dove Van Aert ha rifilato la bellezza di 1’21” di distacco a Van der Poel stampando tempi sul giro sempre inferiori ai 7’20” mentre gli avversari arrancavano alle sue spalle. Lo stesso Van der Poel, dopo avergli tenuto testa nei primi giri, è stato protagonista di una serie di errori tecnici - cadute comprese - che hanno condizionato una gara, che in realtà era già persa.
Prima di questa stagione, Wout Van Aert aveva sempre nettamente perso il confronto diretto con Van der Poel nel ciclocross.
Una rivalità quindi a senso unico, in cui era sempre stato chiaro chi fosse il più forte fra i due - almeno per quel che riguarda questa specifica disciplina. Van der Poel è sempre sembrato semplicemente ingiocabile per Van Aert: più tecnico, più esplosivo, più forte fisicamente. L’unica speranza per Van Aert era appunto la pioggia e il fango; correre, cioè, su terreni in cui bisogna molto spesso caricarsi la bici in spalla e fare lunghi tratti a piedi. Altrimenti non c’è mai stata storia.
Per questo i risultati di quest’ultima stagione di ciclocross hanno fatto tanto rumore fra gli appassionati: un ribaltamento di prospettive che ha portato sia i più scafati analisti che i normali tifosi a chiedersi come fosse possibile tutto ciò. Fra i tifosi belgi si dà la colpa a Nick Nuyens, storico manager di Wout Van Aert prima del suo passaggio alla Jumbo-Visma, che a detta loro avrebbe tarpato le ali al talento di Van Aert facendogli perdere anni di carriera. Fra i commentatori si dà il merito invece al passaggio ormai stabile di Van Aert al ciclismo su strada, specialità che gli consentirebbe di lavorare su distanze maggiori, con sforzi meno intensi ma più prolungati. Una spiegazione che può avere un suo senso ma lascia comunque il tempo che trova visto che nel ciclismo su strada gli sforzi intensi sono molto più brevi e circoscritti rispetto al ciclocross dove si va a tutta per un’ora di fila fra scatti a ripetizione e rilanci continui.
Resta quindi una buona dose di sorpresa alla base delle recenti prestazioni di Van Aert. La spiegazione più logica è invece nel calo fisico del rivale di sempre dovuto in parte a una preparazione non ottimale e in parte agli strascichi della già citata caduta alle Olimpiadi di Tokyo che ne avrebbero minato le certezze sia fisiche che mentali. Altro elemento da considerare è la capacità di Van Aert di trovare più rapidamente la forma migliore rispetto a Van der Poel, che per caratteristiche ha invece bisogno di carburare di più prima di trovare il giusto feeling con la bici e con sé stesso. Tant’è che i valori si sono di nuovo appianati nel finale di stagione, quando la condizione fisica di Van der Poel è salita di livello e con essa sono tornate anche le certezze tecniche di un tempo. Forse non era nemmeno al top ma tanto è basato per tornare quantomeno a vincere un paio di scontri diretti prima del Mondiale di Hoogerheide.
All’ultima curva di questo Mondiale, Van Aert svolta secco a sinistra sull’asfalto in testa con alla ruota Van der Poel. Mancano poco più di duecento metri, tutti in asfalto e in leggera salita. Van Aert tentenna, non sa se partire o meno, quando farlo. Rallenta e mentre lo fa gli parte Van der Poel sulla sinistra. Lo slancio con il quale l’olandese scatta in avanti è brutale: si contorce sulla bici, spinge sui pedali coinvolgendo ogni singola parte del suo corpo che si muove a scatti come un centometrista ai blocchi di partenza. Il suo sprint è rabbioso e scomposto, come se la bicicletta non fosse il mezzo meccanico adatto a supportarlo nel suo gesto atletico. Come se fosse un ostacolo.
Con la frustata iniziale guadagna un paio di metri mentre Van Aert è più lento a prendere velocità, la sua azione è più lineare ed elegante ma meno efficace, meno furente. Cerca di riportarsi a ruota anche provando a scomporsi nei movimenti ma non riesce mai nemmeno ad avvicinarsi alla bicicletta del rivale che resta lì davanti, nettamente. Alla fine Van der Poel alza un braccio al cielo, l’altro sul petto in un urlo liberatorio e violento, estasi suprema di quel gesto atletico bestiale.
La vittoria di Mathieu van der Poel non cancella di certo la stagione d’oro di Van Aert ma sicuramente la ridimensiona. Vero è che il Mondiale - nel ciclocross come nel ciclismo su strada - è una singola gara di un giorno che quindi tecnicamente può valere come tutte le altre. Però è la gara, la più attesa e più seguita. Quella che si porta appresso il maggior carico di aspettative sia nel pubblico che nei ciclisti stessi che la corrono. Perché chi vince - indipendentemente da quanto successo fino a quel giorno - è il campione del mondo, senza possibilità di appello.
Forse in futuro ci ricorderemo solo il fatto che Mathieu van der Poel è alla fine diventato campione del mondo per la quinta volta, dimenticandoci forse della stagione difficile che si è lasciato alle spalle, scordandoci dei trionfi di Van Aert di questi ultimi mesi. Sarebbe una beffa ancora più amara per il belga, che mai come quest’anno si era convinto di potercela fare - finalmente - a imporre di nuovo il suo nome sopra a quello del rivale olandese.
Così non è stato, perché Van der Poel ha rimesso la chiesa al centro del villaggio, ridando senso a dei mesi di ribaltamenti prospettici che hanno generato discussioni, dubbi e confusione. Lo sguardo ora torna alla strada, alle prossime sfide: prima la Strade Bianche e la Milano-Sanremo a marzo e poi le classiche del nord in primavera. Altre gare di una sfida che ha scritto un altro capitolo ma che ancora non è finita.