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Rivalità rinfrescata
14 nov 2016
14 nov 2016
Come è andata Stati Uniti-Messico, che si sono affrontate sabato nel surreale clima post-elettorale.
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L’elezione di Donald Trump era il grande elefante nella stanza del match di qualificazione ai Mondiali russi Stati Uniti-Messico. C’era un timore

che il pubblico di Columbus, in Ohio, uno degli stati che più a sorpresa avevano votato per il miliardario repubblicano (nonostante l’endorsement finale della divinità locale Lebron James per Hillary Clinton), potesse utilizzare lo stadio come primissima cassa di risonanza delle sue promesse razziste e violente.

 

Una sfumatura inaspettata che dà un senso diverso a quella che ormai è una tradizione per Team Usa, soliti a giocare a Columbus contro il Messico per quella scaramanzia magica che andava sotto il nome di

: è dal 2001 che gli Stati Uniti in partite valide per le qualificazioni ai Mondiali battevano il Messico per 2-0 nel Mapfre Stadium. La piccola ma intima casa dei Columbus Crew era ormai divenuta tempio spirituale della Nazionale, grazie a quel “overwhelming feeling of American support”, come

il capitano Micheal Bradley qualche anno fa. Una mistica,

.

 

Dopo l’elezione di Trump, però, quel tifo americano è diventato una questione delicata e forse, secondo qualcuno, pericolosa. Ci sono stati tentativi di strumentalizzare l’incontro anche prima del fischio d’inizio, per esempio facendo circolare un tweet fake di Landon Donovan in cui incitava i tifosi statunitensi a gridare “Muro!” ad ogni rinvio del portiere messicano.

 



 

La scelta dell’account per fare il fake non è stata casuale. Nel febbraio del 2004, mentre la Nazionale Under-23 degli Stati Uniti era a Guadalajara, Donovan fu ripreso mentre urinava sul campo d’allenamento: due giorni dopo, durante la partita contro il Messico che avrebbe deciso quale delle due nazionali sarebbe andata alle Olimpiadi di Atene, il pubblico si mise a gridare “Osama, Osama!”.

 

In un clima del genere, Micheal Bradley è stato praticamente costretto a rilasciare un comunicato ufficiale prima della partita in cui si augurava che i tifosi statunitensi facessero “ciò che fanno sempre”. Cioè, sostanzialmente, non essere razzisti.

 



 

“Penso che sicuramente ci sia un livello aggiuntivo in questo incontro, visto tutto ciò che è successo negli ultimi mesi”, ha anche dichiarato Bradley. “Ma noi abbiamo un rispetto totale per tutti e una riconoscenza reale non solo per gli americani-messicani ma anche per tutte quelle persone in giro per il mondo che vengono a farsi una nuova vita nel nostro Paese”.

 

 



 

In realtà, l’elezione di Trump e il rapporto difficile tra gli Stati Uniti e l’immigrazione messicana sono solo gli ultimi due capitoli di una rivalità che riflette una relazione da sempre ambigua tra i due Paesi. Ad esempio, Stati grandi e decisivi per le elezioni del presidente degli Stati Uniti (e in cui la retorica anti-immigrazione fa da sempre più presa) come la California, il Texas, l’Arizona, il Colorado e il New Mexico facevano parte del territorio messicano prima del 1848; allo stesso modo, alcuni dei grandi trattati di libero scambio a cui si oppone oggi Trump - come il NAFTA: North American Free Trade Agreement, con Canada e Messico - furono avvertiti al momento della loro firma come un’imposizione, da parte di uno stato economicamente più forte, da larghe parti della società messicana (e allora il presidente degli Stati Uniti si chiamava Bill Clinton). Il NAFTA, ad esempio, portò all’eliminazione di una delle conquiste più importanti della rivoluzione messicana di Emiliano Zapata: quell’articolo 27 della costituzione che proteggeva i piccoli proprietari terrieri indios, scatenando la reazione dell’EZLN - Ejercito Zapatista de Liberacion Nacional.

 

Il riproporsi della rivalità USA-Messico, in questo momento, ha avuto il merito di far emergere quest’inconscio collettivo condiviso, oggi che il rischio di perderlo è più alto che mai. Prima del fischio di inizio le due squadre si sono spontaneamente mischiate per la rituale foto pre-partita, mentre sugli spalti il motto statunitense “One nation. One team” era riproposto a caratteri cubitali anche nella sua versione spagnola: “Una nacion. Un equipo”.

 



 

Eppure, il pubblico sembra non essere andato oltre l’appello di Bradley e la rilevanza simbolica della partita è stata di fatto ignorata, se si escludono

ironici di tifosi messicani.

un reporter di SB Nation, un tifoso americano ha provato ad innalzare il coro “Build the Wall” subito dopo l’1-1 di Wood, ma è stato immediatamente zittito dalla folla intorno a lui.

 

 



 

Anche sul campo da gioco la partita è stata molto dura (9 cartellini gialli e un rosso), ma sostanzialmente corretta, nonostante le numerose recriminazioni da una parte e dall’altra.

 

In un clima di tensione asettica, come quella che si è creata negli Stati Uniti dopo l’elezione di Trump, la rottura dell’incantesimo del

è stata utile quanto meno a ricordarci l’importanza di partite come questa. E questo grazie soprattutto ai calciatori messicani che, va ricordato solo perché in opposizione alla retorica corrente che vuole i calciatori tutti come profondamente egoisti, sono comunque dei cittadini privilegiati, totalmente liberi di viaggiare negli Stati Uniti o in qualunque altro paese senza il terrore di essere arrestati e riportati a casa.

 

Rafa Marquez, ad esempio, ha dedicato la vittoria a tutti i messicani, “ovunque si trovino”.

 



 

“Con questa vittoria [i messicani] possono scordarsi per un po’ quello che è successo negli Stati Uniti”,

poi il Gran Capitan, riecheggiando

del Chicharito Hernandez nel pre-partita.

 

Ma il messaggio più significativo ed esplicito lo aveva lasciato Oribe Peralta sul suo profilo Twitter, dove l’attaccante messicano aveva scritto: “Non esiste muro che possa fermarci”. Un tweet ormai cancellato, che contiene una grande verità demografica prima che sportiva, e cioè che non esiste politica migratoria repressiva che possa fermare il flusso di immigrati latini verso gli Stati Uniti. Nello stesso Ohio, un insospettabile stato del Midwest, la quota di popolazione ispanica

dall’1.3% del 1990 al 3.3% del 2013.

 

Una condizione che vive ad esempio Omar Gonzalez, centrale degli Stati Uniti nato da genitori messicani a Dallas, e che in futuro vedremo sempre più rappresentata nella nazionale a stelle e strisce, come

lo stesso Klinsmann su The Player’s Tribune.

 

Non sappiamo come ricorderemo questa partita tra qualche anno, se con tristezza o con speranza. Di sicuro è arrivata nel migliore dei momenti possibile per essere ricordata. E questo è già importante.

 

 

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