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Fabio Severo
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01 lug 2013
01 lug 2013
La fine, nei tennisti, è importante.
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Fabio Severo
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Sono in molti a chiedersi cosa accadrà nel mondo del tennis maschile quando Roger Federer annuncerà il suo ritiro. La stampa e i fan si stanno preparando da anni al momento in cui uno dei giocatori più vincenti di sempre lascerà, perché il fatto è che con Federer rischia di andarsene almeno temporaneamente anche una certa idea romantica del gioco, un'ormai rara combinazione di tecnica, stile e capacità di vincere che racconta più la storia del tennis che il suo presente. Poiché Federer è attualmente il tennista di gran lunga più conosciuto, amato e monetizzato del circuito, è lecito immaginare l'addio dello svizzero come un evento epocale. Le lacrime sono spesso un ingrediente dei saluti finali, e il Maestro ha dimostrato in passato di saperci fare. «Maybe I'll try later again, I don't know. God, it's killing me.» Queste le poche parole pronunciate da Federer all'inizio del suo discorso subito dopo la finale persa in cinque set contro Rafael Nadal all'Australian Open del 2009. All'epoca del torneo vincitore di 13 tornei del Grande Slam (oggi è arrivato a quota 17) e in quel momento secondo nel computo solo a Pete Sampras (14), non riesce a trattenere le lacrime perché a 27 anni non ha ancora eguagliato il record dei record del suo sport. Se piange in questa situazione, immaginiamo quando si congederà dal suo pubblico per l'ultima volta.

Non a tutti è concesso uno storybook ending per la propria carriera, molti se ne vanno nel silenzio, svaniscono. Lentamente nel risalire il ranking cominciano a differenziarsi le modalità di congedo, si affacciano timidi omaggi, qualche riga su un sito, il video amatoriale di un fan, una menzione sul sito ufficiale dell'ATP. Alcuni tennisti fanno un annuncio su Twitter, altri mandano una lettera aperta, altri ancora indicono una conferenza stampa. Anche ai piani alti della classifica raramente il ritiro di un giocatore risuona oltre i confini dello stadio del suo ultimo incontro. Prendiamo alcuni tennisti che hanno lasciato nel 2012: Ivan Ljubičić, croato ex numero 3 del mondo, sceglie Monte Carlo come ultimo torneo. Perde al primo turno 6-0 6-3 contro il connazionale Ivan Dodig in una partita neanche trasmessa in TV, come spesso accade agli incontri di primo turno. Dopo l'incontro c'è una breve cerimonia, mandano i video con i saluti registrati di alcuni colleghi, poi gli danno un trofeo e una cornice con una composizione un po' triste di fotografie e una specie di certificato di onorificenza. Lui piange un po', fa un'intervista e poi passa oltre con la sua vita, diventando tra l'altro un ottimo telecronista per Sky (parla molto bene italiano). Stessa sorte per Fernando Gonzalez, ex numero 5 noto come “Mano de Piedra” per il suo dritto fucilata, che perde al primo turno di Miami. Anche lì telesaluti dei top players, trofeo, quadro e video commemorativo sul sito ATP. Più corale il saluto in autunno allo spagnolo Juan Carlos Ferrero, per una serie di fattori: Ferrero nel 2003 ha vinto il Roland Garros ed è stato anche numero 1, in più sceglie di chiudere la carriera a Valencia, torneo di casa. I valori aggiunti nel palmares e l'abbraccio della fortissima comunità tennistica spagnola si traducono in una cerimonia più lunga e curata, con più telecamere e un fascio di luce puntato sul giocatore, e in aggiunta ai video con i saluti ci sono diversi giocatori che vengono a salutarlo in persona, tra cui Rafael Nadal.

In questa scala crescente nei rituali di addio del 2012 il momento clou è stato senza dubbio il ritiro di Andy Roddick durante l'U.S. Open, a fine estate. Dopo un paio di stagioni di calo inesorabile di risultati e classifica, Andy annuncia a sorpresa all'inizio del torneo che lì a New York si sarebbe chiusa la sua carriera. Accadrà negli ottavi di finale contro Juan Martin Del Potro, abbracciato dall'enormità dell'Arthur Ashe Stadium, il court più grande del mondo, 24.000 posti. Così grande da non essere pieno nel giorno del saluto a colui che è stato il primo giocatore americano per quasi dieci anni. Roddick ha vinto l'U.S. Open nel 2003 e ha raggiunto la vetta del ranking per qualche mese fino all'inizio dell'anno dopo, quando Federer gli ha tolto lo scettro per non ridarglielo mai più. Roddick di Slam non ne ha più vinti dopo quel primo trionfo di casa, ha perso tre finali a Wimbledon (tutte contro Federer) e la sua supremazia in patria in fondo ha rappresentato la crisi del tennis maschile americano, che dopo Andre Agassi e Pete Sampras non ha più ricreato una generazione di fenomeni come quelle che si sono succedute nei decenni precedenti. Così anche la cerimonia di saluto mi è parsa sommessa, come se non riuscisse a essere epica nonostante la cornice e le lacrime trattenute da Roddick durante gli ultimi punti giocati. Forse saranno stati tutti quegli spalti vuoti, il discorso molto breve e generico, oppure la voce del telecronista americano che mentre "A-Rod" si prepara a lasciare il campo per l'ultima volta commenta: «Roddick non passerà alla storia come uno dei più grandi di sempre, ma sicuramente come uno dei giocatori che ha sfruttato al meglio il suo talento», un giro di parole non molto carino. Luogo, occasione, storia personale: tanti sono i fattori che si intrecciano nel dire che addio sarà, quanto passerà via veloce o resterà come una pagina di storia sportiva. Quando ad esempio a fine 2009 si è ritirato Marat Safin, la sede scelta dal talentuoso russo è apparsa quasi più piccola dell'evento. A 29 anni la testa calda moscovita chiude nel palazzetto indoor di Parigi Bercy, il suo torneo preferito, dove ha vinto tre volte. Ultimo esemplare di top player casinista nel vecchio stile alla McEnroe o Connors, prima che l'inarrestabile mutazione corporate eliminasse dai vertici del tennis quasi ogni residuo di comportamento fuori luogo, Safin lascia per i troppi infortuni, e perché si è stufato. A Bercy perde al secondo turno in tre set da Del Potro (ancora lui): mentre cammina verso la rete a fine match sorride sornione all'amico che l'ha battuto, si abbracciano, poi arriva uno stuolo di colleghi a salutarlo e lui li accoglie come se fosse una rimpatriata di vecchi compari al bar. Il sorriso di Safin stempera ciò che gli accade intorno, mentre la folla parigina lo acclama (più di quella americana con Roddick) e lui augura a Del Potro di vincere il torneo, così poi gli dà i soldi del premio. Vincitore di un Australian Open e di un U.S. Open, ma perennemente bollato come incompiuto da una stampa che non ha mai accettato che il suo enorme talento funzionasse a corrente alternata, due anni dopo, mentre diversi suoi colleghi (e coetanei) ancora tribolano da un torneo all'altro, Safin diventa parlamentare nella Duma, eletto con il partito Russia Unita di Vladimir Putin. Non tutti hanno un solo interesse nella vita.

Poi il ritiro si può annunciare in vari modi, poche partite prima come ha fatto Roddick, oppure a inizio anno come Safin, trasformando l'ultima stagione in una passerella di saluti. Così ha fatto anche Stefan Edberg, l'angelo del serve & volley che nel 1996 si arrende alla schiena malconcia e si prende il suo lento congedo in giro per il mondo, un pezzo alla volta. Finisce a Stoccolma in autunno, a casa sua, e un servizio d'epoca di Tele+2 è l'unico reperto su YouTube a testimoniarlo, addirittura sottotitolato in inglese da qualche fan. Il video si apre con immagini della città mentre la voce dell'annunciatrice declama: «Calano le luci della sera e le strade di Stoccolma si svuotano per salutare una leggenda del tennis svedese impegnata nel suo match di primo turno». Poi passa a commentare le difficoltà di Edberg durante la partita, mentre lo vediamo scorato dopo aver sbagliato una volée, e poi dopo il match point della sconfitta la voce conclude: «Stefan Edberg, il perfetto gentiluomo, esce di scena tra gli applausi della sua gente», e compare Edberg sotto i riflettori che saluta in lacrime il pubblico, ed effettivamente sembrano proprio lacrime da gentiluomo, non trattenute ma lasciate sfogare, il tutto però con un contegno signorile, i capelli sudati messi in ordine, con la scriminatura di lato come se fossero impomatati. Assaporare lentamente una separazione, forse per realizzarla meglio: la scelta di Edberg non è stata di certo quella del connazionale Bjorn Borg, che nel 1981 ha sconvolto il mondo del tennis sparendo all'improvviso. I due anni precedenti hanno coinciso con il culmine della sua rivalità con John McEnroe: le finali di Wimbledon vinte una ciascuno, e le due finali di New York conquistate entrambe da McEnroe. Sfide estenuanti, che hanno visto la progressiva ascesa dell'americano, e l'incubo di Borg che a Flushing Meadows in carriera ha perso ben quattro finali. L'ultima, nel settembre 1981, la goccia che fa traboccare il vaso: Borg perde da Mac in quattro set, lo si vede stringergli la mano a rete impassibile e fare uno strano cenno all'arbitro con la racchetta. Poi la regia va sull'americano e di Borg, che all'epoca aveva 25 anni, non vediamo più nulla. La cronaca ci racconta come lo svedese abbia lasciato direttamente lo stadio, saltando premiazione e conferenze stampa. Una foto scattata fuori dal Louis Armstrong Stadium lo ritrae al volante di una macchina, vestito con una maglietta uguale a quella che indossava in campo e la bocca piegata in una smorfia, illuminato dai flash mentre cerca di liberarsi dalla folla per ritornare in albergo. Si racconta che quella sia stata la prima volta in cui Borg abbia guidato un'automobile durante un torneo, compito riservato al suo coach per evitargli distrazioni, e pare anche per scaramanzia. Ma i rituali ormai non servono più: Borg non avrebbe più giocato una partita in un torneo dello Slam, non avrebbe quasi più giocato in assoluto. Troppa disciplina, troppa pressione, lo svedese ha poi spesso raccontato della perdita del divertimento, dell'eccessivo impegno fisico e mentale, lui che per anni è stato in grado di dominare e di non mostrare mai un'emozione. Riemerge soltanto in aprile a Monte Carlo, dove perde ai quarti, poi una sola apparizione nel 1983, un'altra nel 1984. Sparisce dai campi per 7 anni, per ripresentarsi all'improvviso proprio a Monte Carlo nell'aprile del 1991 a 35 anni, vestito come dieci anni prima, con la racchetta di legno dei suoi trionfi e un misterioso guru del fitness di 79 anni, che lo osserva col binocolo da bordo campo. Gioca dodici incontri tra il '91 e il '93, con un bilancio di zero vittorie e solo tre set vinti. Gli esiti grotteschi del suo ritorno giustificano che un capitoletto della sua biografia su Wikipedia sia intitolato crudelmente "Failed comeback".

Di tutte le possibili parabole di una carriera sportiva, quella di Borg è l'emblema delle difficoltà di uscire di scena alle proprie condizioni. Alcuni poi cercano di chiudere un cerchio che non sia solo personale, ma che rimanga a esempio di un percorso di vita. In questa ricerca dell'eccellenza i due career arc perfetti sono quelli dei due grandi rivali del tennis degli anni '90, Pete Sampras e Andre Agassi. Opposti sul campo e come personalità, ognuno dei due ha chiuso la propria vita agonistica in modo eccellente, ma prendendo strade molto diverse. Per gran parte della propria carriera Sampras ha lottato contro la storia dello sport, cercando i record e i primati che l'avrebbero iscritto nel firmamento. «Il tuo rivale è Rod Laver», gli diceva Pete Fischer, il suo primo allenatore, e da lì in avanti Sampras ha costruito un percorso lineare di accumuli di vittorie, talmente semplice da apparire quasi noioso. Nessuna stravaganza, di poche parole, “Pistol Pete" esisteva solo nei gesti che faceva sul campo. Agassi abbiamo imparato tutti a conoscerlo come un'anima tormentata, una storia di cadute e resurrezioni, un'immagine pubblica ingombrante. Sampras prosegue invece imperterrito fino al declino fisico e al calo di motivazioni che aspettano al varco così tanti tennisti al giro di boa dei trent’anni. Due anni senza vittorie e poi un ultimo acuto inaspettato nel 2002 a New York, proprio contro Agassi, dove Sampras vince il suo quattordicesimo major. Poi più nulla, Sampras non giocherà più neanche una partita ma per mesi neanche annuncerà ufficialmente il suo ritiro. Decide di farlo solo un anno dopo, nello stesso luogo dove ha chiuso la sua carriera in trionfo, dentro l'Arthur Ashe Stadium. Si chiude con una vittoria, si saluta con la più fastosa delle cerimonie. Nell'arena piena, circondato da molti dei grandi tennisti degli ultimi dieci-quindici anni, Sampras appare invecchiato più dei soli dodici mesi trascorsi, con i capelli diradati, vagamente appesantito, lo sguardo malinconico. Le lacrime lo prendono alla sprovvista, lui cerca di cacciarle indietro ma il risultato è una smorfia goffa, il volto abituato a celare le emozioni si scopre ora impreparato a regalarle alla folla.

Agassi conosce invece una rinascita sportiva proprio quando inizia il declino agonistico di Sampras. Giocherà fino a 36 anni, tornando brevemente alla prima posizione mondiale a 33, un record assoluto di anzianità. Cede infine nel 2006 a una schiena ormai ingestibile, e lascia anche lui a New York, con una cerimonia in due atti: il primo è la battaglia in cinque set del secondo turno contro Marcos Baghdatis, quello che poi è diventato l'inizio di Open, la sua autobiografia. Il secondo atto, che curiosamente non è neanche menzionato nel libro, è la successiva sconfitta in tre set contro il tedesco Benjamin Becker. Agassi lascia il tennis professionistico subendo un ace, e da quel momento la folla gli concede una standing ovation memorabile, un applauso corale di circa dieci minuti mentre l'ex “Kid” siede singhiozzando, accarezzando il suo cranio rasato e alzandosi in un paio di occasioni per lanciare dei baci alla folla. Poi prende la parola, e retrospettivamente capiamo che Agassi è già diventato il suo libro, l'inspirational story con il pubblico più ampio e trasversale degli ultimi anni.

«Il punteggio dice che oggi ho perso, ma quello che non dice è ciò che ho trovato», apre Agassi impeccabilmente, dolcemente. «Durante questi 21 anni ho scoperto la fedeltà. Voi mi avete sostenuto in campo, e nella vita.» Poi prosegue: «Mi avete offerto le vostre spalle su cui appoggiarmi, per raggiungere i miei sogni. Sogni che non avrei mai realizzato senza di voi». Sampras stringe le spalle per provare ad arginare la commozione, mentre Agassi la cavalca: per uno la folla è un peso da tollerare per coronare il suo successo personale, per l'altro è un carburante. La differenza nella gestione del proprio personaggio pubblico trova il suo compimento nei discorsi che i due terranno durante le rispettive cerimonie di elezione nella Hall of Fame del tennis. Agassi in verità corona la sua trasformazione in guru spirituale in due tappe, la prima quando introduce l'elezione delle moglie Steffi Graf nel 2004, prima ancora di smettere di giocare. La voce lievemente tremante per l'emozione aggiunge solo pathos a un discorso tanto intenso quanto calibrato, che termina col famoso «Ladies and gentlemen, I introduce to you the greatest person I've ever known, Stephanie Graf», riportato anche in Open. Il secondo e definitivo momento è durante la propria cerimonia nel 2011, dove, due anni dopo l'uscita del libro, siamo già in quella fase dove ogni intervento dell'Agassi pubblico è letteratura. Invece che a un ex coach o collega, il discorso di introduzione viene affidato a una giovane diplomata all'accademia fondata dall'ex tennista per ragazzi disagiati. Poi il suo discorso: di nuovo parla di spalle forti su cui salire, poi fa tutta una sapiente traduzione dei termini tennistici in metafore di vita, parla delle charity che vuole fondare in futuro. Non si dilunga nel parlare di chi lo ha aiutato durante la sua carriera, perché ha scritto una lettera a ognuno di loro, e le lettere si possono leggere sul sito della sua fondazione. Preferisce parlare di quando ha incontrato Nelson Mandela. «Da lui ho imparato che ogni viaggio è eroico, ogni viaggio è importante, ogni viaggio comincia oggi.» Poi conclude: «Il fatto che io sia qui oggi a ricevere questo onore è la prova che nessun sogno, nessun viaggio è impossibile». E Sampras? Nel 2007 prende il palco senza nessuna ambizione retorica, probabilmente solo preoccupato di non riuscire a sopravvivere a quel discorso. Comincia parlando del gioco del tennis, dei suoi primi ricordi d'infanzia, ma dopo poche parole deve già fermarsi, bloccato dal pianto. Cinque anni dopo aver giocato l'ultima partita è ancora sopraffatto dai ricordi, dalle emozioni. Non c'è nessun incontro con Mandela da raccontare, nessuna fondazione benefica, nessuna metafora sulla solitudine del tennista. Parla dell'importanza di aver cambiato il rovescio da due mani a una mano, lo stile di gioco che ha coltivato negli anni, roba da addetti ai lavori o da amici intimi, eppure a ogni riga deve interrompersi, sospira, guarda in alto e singhiozza. Le pause sono così frequenti che quando la regia stacca da lui si vedono i figli che si sdraiano sulle sedie, giocano, corrono in giro. Mentre continua a parlare non invita nessuno a salire sulle sue spalle, e forse pensa alle performance oratorie del suo ex rivale. Caratteri così distanti, mai davvero amici, Sampras verso la fine sembra alludere alle loro differenze: «In fondo la cosa di cui sono più fiero è che non ho mai... [piange], mai abbandonato i valori a cui tengo davvero. Quelli che ho imparato dai miei genitori, e da uomini come Rod Laver». Tutto per lui ruota attorno alla famiglia, ai campioni del passato, mentre la sua nemesi è rinata dopo le droghe, i divorzi, e si è permesso di odiare lo sport che lui invece ama così tanto da continuare a piangere, anni dopo. E allora c'è soltanto un ultimo messaggio da mandare ad Agassi, al suo fare messianico, a quel nuovo avversario contro cui Sampras non avrà mai i colpi per competere: «I’m a tennis player: nothing more, and nothing less. It's more than enough for me. It always has been. I thank you».

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