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Dario Saltari

Come si spiegano tutte queste rimonte in Champions League?

Proviamo a trovare delle spiegazioni a tutto il drama che stiamo vivendo in Europa.

 

 

Ciao a tutti. In Champions stiamo vedendo una rimonta dietro l’altra. Che cosa sta succedendo? Voi che siete sempre così analitici e razionali, avete una spiegazione logica per questo fenomeno?

 

Grazie,

Carlo

 

Risponde Dario Saltari

 

Ciao Carlo,

dare una spiegazione a ciò che ci sembra inspiegabile è per definizione difficile, tanto più se ci viene richiesta una spiegazione razionale. Non è un caso che l’anno scorso Emanuele Atturo per parlare degli incredibili quarti di finale di Roma e Juventus contro Barcellona e Real Madrid abbia tirato in ballo i film di Terrence Malick e il senso del religioso, cioè esattamente l’opposto della razionalità: “L’idea che non siamo mai davvero in controllo dei nostri destini e che a muovere le energie del mondo siano forze superiori e invisibili”. È un piano della realtà che può sembrarti naïf ma che non va snobbato, tanto più in un contesto come quello del calcio e della Champions League, in cui singoli episodi sembrano confermare o smentire in continuazione le nostre credenze. Il nostro cervello, per via dell’evoluzione, dà la priorità alla sopravvivenza sulla conoscenza, e questo comporta associazioni mentali il più possibile veloci, che facilitino conclusioni e decisioni immediate, e quindi non necessariamente esatte. Ovviamente non voglio arrivare a dire che questo tema sia inconoscibile, se no non avrei nemmeno provato a rispondere. Ma, insomma, prendi le mie spiegazioni più come tentativi di riflessione che come spiegazioni autoconclusive con la pretesa dell’esaustività.   

 

Jonathan Wilson, cercando di rispondere alla stessa domanda, ha messo sul piatto diverse variabili: l’introduzione del retropassaggio al portiere nel 1992 e le regole sempre più restrittive sui falli intimidatori, che hanno reso il calcio meno controllabile; la rilevanza sempre maggiore che è stata data al calcio offensivo a partire dell’enorme successo del Barcellona di Guardiola; la supremazia contemporanea del possesso sul controllo dello spazio “che forse rende una squadra più vulnerabile quando le cose vanno male”.

 

Il punto più importante di Jonathan Wilson, però, è che le rimonte sono aumentate nell’esatto momento in cui è stato dimostrato che erano possibili. E cioè, per quanto riguarda la Champions League, da Barcellona-PSG 6-1 del marzo del 2017, che rimane a tutti gli effetti la rimonta più incredibile della storia della competizione, e probabilmente della storia del calcio (magari non te lo ricordi: il Barcellona aveva perso 4-0 all’andata). Per farti capire: nelle 11 edizioni della Champions League precedenti a quella partita (cioè dalla stagione 1994/95 alla stagione 2015/16), se prendiamo solo in considerazione le partite ad eliminazione diretta dagli ottavi di finale in poi, le rimonte da uno svantaggio di almeno due gol di scarto nei 90 minuti di ritorno erano state appena 9 su 72 casi totali. Nelle ultime tre edizioni (cioè dalla 2016/17 alla 2018/19) i casi sono diventati 6 su 22. In termini percentuali significa un passaggio dal 12,5% al 27,3% del totale. E questo senza contare casi che sarebbero comunque significativi nel discorso che stiamo facendo, come Real Madrid – Juventus 1-3 e Roma – Liverpool 4-2 dello scorso anno, e ovviamente Ajax – Tottenham 2-3 di quest’anno, in cui lo svantaggio di tre gol è stato recuperato addirittura in meno di un tempo.

 

In questo senso, la Champions League sembra confermare il cosiddetto teorema di Thomas, coniato nel 1928 dal sociologo americano William Thomas, secondo cui: “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. Barcellona-PSG 6-1 ha dato una consistenza reale all’epica delle rimonte impossibili, abbattendo i limiti psicologici che non permettevano alle squadre che dovevano recuperare lo svantaggio nemmeno di pensare di poterci riuscire. E di converso, creato nuovi fantasmi nella mente dei giocatori che dovevano invece gestire il vantaggio.

 

A parte la sottile ironia del caso, che ha voluto che il mostro creato dal Barcellona si sia abbattuto in particolare sul Barcellona stesso, mi sembra che alla lucida analisi di Jonathan Wilson manchi un solo elemento: e cioè che una rimonta epica parta necessariamente da un grande svantaggio. Com’è possibile che una squadra capace di segnare quattro gol senza subirne ne abbia presi tre senza riuscire a fare gol solo un paio di settimane prima? L’aumento degli squilibri tra i risultati di andata e ritorno si spiega solo con la psicologia?

 

A mio modo di vedere, non si può non parlare anche del peso sempre maggiore che nel calcio contemporaneo ha assunto il concetto di identità. Non approfondirò qui le ragioni comunicative e pubblicitarie che hanno spinto le società a puntare su questa idea, in questa sede mi interessa solo il suo aspetto tattico, e cioè l’importanza non solo di vincere, ma anche di vincere in un modo riconoscibile – My way, come cantava Sinatra. Una delle condizioni imprescindibili di un’identità netta è che i suoi principi non scendano a patti con il contesto. Al contrario: l’obiettivo di avere un’identità netta è esattamente quello di permettere alla squadra che l’adotta di plasmare il contesto a suo piacimento. Di avere, cioè, pieno controllo di tutte le variabili che determinano il risultato di una partita.

 

Se nei campionati nazionali questa idea ha pagato dividendi altissimi, soprattutto quando è stata adottata da squadre che potessero estendere il loro dominio tecnico su tutto il resto delle squadre, nei 180 minuti di Champions League – contro avversari estremamente competitivi e con il peso degli episodi che aumenta a dismisura – le premesse che la rendevano sostenibile sono state spesso impossibili da mantenere nell’arco di tutti i 180 minuti degli scontri diretti. Soprattutto perché le squadre hanno preferito salvaguardare la propria identità anche a scapito dei risultati.

 

A questo proposito, mi sembra molto significativo che la squadra che più ha dominato la Champions League negli ultimi anni, e cioè il Real Madrid di Ancelotti prima e di Zidane poi, sia esattamente quella che ha rinunciato ad un’identità definita e all’ambizione di controllare il contesto. Una squadra che accettava di poter subire il gioco avversario e che sembrava avere una capacità quasi magica di saper far girare gli episodi a proprio favore grazie al talento. E che, nei cinque anni in cui sembrava quasi imbattibile negli scontri diretti europei, ha vinto la miseria di una Liga in patria.

 

Vorrei chiudere questa risposta con una piccola storia: lo sai perché l’Ajax si chiama così? La squadra olandese fu fondata nel marzo del 1900 da Floris Stempel, Carel Reeser e Han Dade, che presero in prestito il nome di Aiace Telamonio per un motivo molto preciso.

 

Aiace era considerato uno dei più forti e valorosi guerrieri nell’esercito degli achei. Quando Achille cadde sul campo di battaglia per mano di Paride, fu Aiace, insieme ad Ulisse, a difendere il corpo dell’eroe caduto e a riportarlo nell’accampamento. Quando ci fu da scegliere a chi dare le armi di Achille come riconoscimento del valore dimostrato in battaglia, però, i capi militari degli achei scelsero Ulisse, più furbo e subdolo. Accecato dal dolore e impazzito per via di un incantesimo lanciatogli da Atena, Aiace massacrò, credendo di uccidere Agamennone e Menelao, un gregge di pecore. Quando tornò in sé e si accorse di quello che aveva fatto, Aiace preferì suicidarsi pur di non vivere il resto della sua vita nella vergogna per aver perso l’onore. Aiace, in altre parole, fu l’unico tra i guerrieri achei ad essere morto in battaglia senza essere stato sconfitto dal nemico. Nemmeno Achille può fregiarsi di un onore simile.

 

Se la metafora tra la rimonta subita e il suicidio è fin troppo chiara, magari devo esplicitare quella tra l’identità di gioco e il senso dell’onore. In ogni caso, mi sembrava particolarmente ironico e significativo al tempo stesso che l’abbia scoperto solo pochi giorni dopo che l’Ajax, dopo aver battuto nettamente Real Madrid e Juventus, si era fatto rimontare tre gol in 40 minuti scarsi perché non era riuscito a tenere un pallone alla bandierina.

 

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Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.