Parte 1: una pessima annata
È il 28 luglio 2003 e Franco Sensi ha un problema: è l’ultimo giorno utile per iscrivere la Roma al campionato. La società manca della liquidità necessaria. Dire che i bilanci non sono a posto è un eufemismo: per l’iscrizione è necessaria una ricapitalizzazione di oltre 47 milioni di euro. La maggior parte viene coperta dal gruppo bancario Capitalia e da alcuni forti azionisti ma mancano circa 7 milioni. La CoViSoC, Commissione di Vigilanza delle Società di Calcio, richiede garanzie che arrivano solo all’ultimo momento, in una giornata che alcuni degli attori principali descrivono con l’aggettivo "campale". Solo successivamente si scoprirà che le fideiussioni presentate dalla Roma, così come dal Cosenza, dal Napoli e dalla SPAL, sono false, con conseguenti indagini.
Alla fine, le squadre in questione risulteranno per la Procura di Roma parte lesa, precisamente “soggetti passivi di truffa, in quanto indotti a ricercare le fideiussioni”, stando a un’interrogazione parlamentare del 25 gennaio 2006. In poche parole le società sarebbero state truffate da alcuni broker che avrebbero garantito per loro senza avere né la liquidità né i permessi per farlo.
I titoli dei giornali parlano di blitz delle forze dell’ordine nelle sedi della società, restituendo un’immagine di un calcio decadente, lontano dalla sua dimensione nazionalpopolare e sempre più vicino a un baratro di impicci, storture, irregolarità. Il 7 agosto 2003 l’Unità titola “Fideiussioni: i carabinieri a Trigoria”. Franco Sensi viene dipinto come “un uomo fuori dalla grazia di Dio”. La Serie A assume le fosche sembianze di un pasticciaccio gaddiano dove nessuno sa chi dovrebbe vigilare su cosa, dove il sospetto è l’approccio ermeneutico prevalente: l’opinione pubblica e l’informazione assumono le sembianze della satira dell’antica Roma, diretta quindi allo smascheramento dei vizi umani, richiamo alla moralità. In un titolo de l’Unità di quei giorni viene addirittura richiamato Giovenale: “Controllori senza controllo”. Sotto un pezzo d’opinione che accatasta tutta una serie di casi di mala gestione, dal caso Catania (rimpallo fra organi federali e giustizia ordinaria per decidere di una retrocessione) alle false fideiussioni (che avevano colpito anche la Virtus Bologna di basket), fino ad arrivare al doping, farmacologico e amministrativo (ci arriveremo dopo).
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Il tema è la liceità di pratiche finanziarie ma anche l’impalcatura della giustizia sportiva, di chi dovrebbe vigilare sulla correttezza dello svolgimento dei campionati (“La CoViSoC nella bufera” apre un articolo di quei giorni), di chi dovrebbe decidere del destino delle squadre (un tema, questo, che verrà esposto in maniera irrefutabile proprio nel derby). È un calcio da picconare, da esporre, con slanci giustizialisti e savonaroleschi, al pubblico ludibrio: sui quotidiani fioccano giochi di parole come “Il pallone nel pallone” o “Pallone sgonfiato”, con la variante scoppiato. È l’apoteosi e allo stesso tempo il declino della figura del presidente-azienda di cui venti anni dopo si celebra il potenziale memetico (in una genealogia che parte da Gaucci per arrivare al recente Manenti), la Serie A della provincia operosa e (molto) furba che improvvisamente si ritrova espressione, sempre con i giornali del tempo, di un “calcio malato”, di un “tutti contro tutti”.
Ad agitare ulteriormente le acque ci si mette anche l’ingresso di Sky all’interno del mercato italiano. Nato dalla fusione di Stream e Tele+, il moloch televisivo proprietà di Rupert Murdoch (di cui non si manca di sottolineare, all’epoca, l’amicizia con Berlusconi) offre per la stagione 2003/2004 un pacchetto che comprende le partite delle maggiori squadre del campionato a 47 euro mensili. È un terremoto. Si parla di concorrenza sleale, di monopolio, si paventano scenari orwelliani di manipolazione dell’immaginario: “Erano i bei tempi di Dallas e delle soap, quando dal Giappone arrivava il terribile e demonizzato cartone animato di Mazinga. Oggi nel nostro cielo c’è solo Sky. E pensare che già i prodi Galli di Asterix e Obelix dicevano: «speriamo che non ci cada il cielo (sky) sulla testa»…”.
Il compianto Ernesto Assante parla su Repubblica di “quarta rivoluzione televisiva italiana” e preconizza un futuro prossimo in cui tutti saranno “always on”, sempre sintonizzati. La Lega Calcio non ci sta: le cosiddette piccole sarebbero escluse dal mercato dei diritti TV, sempre più succulento (54 milioni per la Juventus la stagione precedente), e undici club tra Serie A e Serie B danno vita a un’altra pay tv chiamata Gioco Calcio, che stando a Repubblica avrà un capitale sociale di 71 milioni di euro. La Lega Calcio, presieduta da Galliani, avrà partecipazioni per il 10%. È un tentativo della provincia - la provincia di Campedelli e Matarrese - di opporsi al monopolio turbocapitalista delle comunicazioni i cui padroni sono extraterrestri: Murdoch viene dipinto da l’Unità come un Darth Vader mischiato a Carlo V sul cui “impero informativo non tramonta mai il sole”. Un tentativo che, a venti anni di distanza, suscita quasi tenerezza: in un articolo di Repubblica dell’8 giugno 2003 si stima che Gioco Calcio avrà “una crescita di abbonamenti del 17% (entro il 2005) proprio grazie alla definitiva sconfitta della pirateria”. La pay tv incontra subito una serie di problematiche tecniche e finanziarie, e muore ufficialmente nemmeno un anno dopo, il 6 gennaio 2004, con un Brescia-Juve trasmesso su Sky. Proprio il Brescia è l’ultima squadra ad abbandonare la piattaforma e a passare alla concorrenza, causa i mancati pagamenti dei diritti TV. Come in tutte le altre storie contenute in questo articolo, non mancano gli strascichi giudiziari: il Perugia farà causa alla piattaforma contestandole il reato di truffa. Insomma, per tornare a Gadda, uno gliòmmero.
La Serie A 2003-2004 parte in orario sul filo di lana, fra l’indignazione dei commentatori e delle grandi firme. Vittorio Zucconi descrive l’estate 2003 come quella “delle grida, dei papocchi, gli inghippi, dei bilanci falsi, delle falsejussioni”. Un suo articolo del 30 agosto 2003 è sintomatico di un disgusto, di una spinta legalitaria ex post congenita all’opinione pubblica del nostro Paese. La soluzione invocata è lo sciopero del tifo, scelta etica in un contesto ormai irrimediabilmente compromesso (sciopero che non impedirà all’autore di proseguire la sua rubrica per tutta la stagione e di trarne un libro).
Non si fa in tempo a chiudere il girone d’andata che al faldone delle malefatte se ne aggiunge un’altra, altrettanto grave. Questa volta si parla di doping amministrativo. Compare per la prima volta in bocca ad Antonio Giraudo, amministratore delegato della Juventus, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport del 29 ottobre 2003: «Oggi esiste in Italia un doping amministrativo che determina una concorrenza sleale, perché ci sono squadre con un livello tecnico che non possono permettersi. Se invece tutte le società pagano quello che è dovuto a livello fiscale e contributivo si crea una concorrenza leale che aumenta la competitività». A chi siano rivolte queste parole pare evidente fin da subito. Le risposte, sponda Roma, non si fanno attendere: a turno è la volta di Capello e del direttore sportivo Franco Baldini, poi del presidente Sensi, che ribatte paventando addirittura biscotti (termine che diventerà di dominio pubblico solo quell’estate) fra Juve e Milan, quest’ultima principale contendente allo Scudetto.
Per doping amministrativo, come si scrive in questo articolo di Repubblica, si intendono da un lato “la manipolazione di alcune voci di bilancio per abbellire i conti delle malconce casse delle società”, dall’altro “i mancati pagamenti dei debiti tributari, IRPEF, IVA, IRAP o altro”. Da una parte le cosiddette plusvalenze fittizie, dall’altra i debiti verso lo Stato: questi, in sostanza, i problemi che attanagliano i giganti di un campionato con sempre meno credibilità.
Il 23 novembre 2003 Bologna-Roma finisce 0-4. Il presidente rossoblu Giuseppe Gazzoni Frascara minacciato in tribuna da dei tifosi (in un articolo di Repubblica chiamati ultrà): la Digos deve scortarlo fuori dallo stadio all’ora di gioco. Le sue dichiarazioni post patita: «Noi paghiamo 14 milioni di IRPEF […] la Lazio non paga le imposte, la Roma non paga». Parole che producono un boato. Il presidente del Bologna fa preparare allo studio legale Grassani un dossier di 40 pagine contenente l’analisi dei bilanci delle società di Serie A, indebitate per 413 milioni di euro al 30 giugno 2003. Quel dossier verrà poi consegnato alla Procura di Roma, che a febbraio 2004 fa partire un’inchiesta. Un articolo di Repubblica del 26 febbraio si apre con uno scenario da Tangentopoli: “La Guardia di Finanza nei palazzi del calcio”. Sette procure diverse indagano sulle pratiche usate per truccare i bilanci: diritti TV incassati in anticipo, plusvalenze fittizie o presunte tali, stipendi non pagati o pagati in nero, fatture inevase di vario ordine. È di nuovo “calcio malato sotto accusa”.
La situazione travalica il mondo del calcio e invade la politica: il 24 dicembre 2002 il Governo Berlusconi II emana il decreto legge 282, meglio noto come "decreto salva-calcio" o "spalma-debiti", convertito in legge il 21 febbraio 2003 (legge 27): la manovra permette, stando a Repubblica, “di suddividere i costi sostenuti per l’acquisto dei giocatori non per gli anni di durata del contratto di ogni singolo giocatore, ma indistintamente in dieci anni”. La legge viene subito bollata come “falso in bilancio legalizzato” e successivamente criticata anche da Bruxelles. La misura, ennesimo esempio di un calcio fuori controllo che ha persino bisogno dell’aiuto dello Stato, non è però sufficiente per far sì che alcune squadre, come Lazio e Roma, possano dirsi salve dal fallimento: a rischio in quei giorni è addirittura l’iscrizione alle coppe europee.
Parte 2: il derby visto dalla luna
La situazione delle due società, alla vigilia del derby del 21 marzo 2004, è disastrosa. Poco più di un mese prima, Sergio Cragnotti, ex presidente che aveva portato la Lazio a una grandeur mai vista prima, viene arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta per l’insolvenza della Cirio. Il bilancio chiuso al 30 giugno 2003 ha un rosso di 121,3 milioni di euro, di cui 95 verso il fisco, e questo dopo l’utilizzo del "decreto spalma-debiti". La società, dopo un aumento di capitale di 110 milioni di euro effettuato a luglio 2003, è in vendita. In estate Simeone è tornato all’Atlético, mentre a gennaio sono stati venduti l’ultima versione di Conceição (al Porto) e Stankovic (all’Inter). A queste cessioni si aggiungono gli addii, altrettanto dolorosi, dell’anno precedente: Crespo e Nesta su tutti. Stando a un articolo di Repubblica del 16 marzo 2004, la settimana prima del derby, è necessaria un’ulteriore ricapitalizzazione di 120 milioni di euro per evitare il fallimento della squadra. Il capitale sociale è infatti in negativo di 22,3 milioni, e il titolo è stato ritirato dalla borsa.
Situazione forse ancora peggiore quella della Roma. Il debito col fisco, a novembre 2003, ammonta a 102,9 milioni di euro. Allo scoccare del 2004 sono cinque le mensilità non corrisposte ai giocatori. Il debito lordo della società (nei confronti dello Stato e degli istituti di credito) è pari a 245,74 milioni di euro. Il caso fideiussioni false incombe, insieme a quello sui mancati pagamenti al fisco. Un’ulteriore grana è rappresentata dall’indagine sui passaporti falsi (Cafu e Bartelt), per cui Sensi viene rinviato a giudizio. Il presidente si dice esausto, la squadra è in vendita. Una promettente trattativa con la multinazionale russa Nafta Moskva del magnate Sulejman Kerimov viene interrotta bruscamente sul più bello, quando la tifoseria sognava già colpi in stile Chelsea di Abramovich. A far cambiare idea alla cordata, pare, il blitz della Guardia di Finanza a Trigoria per ottenere documenti utili alle indagini sul doping amministrativo. Altri, fra cui L’Espresso, attribuiscono la fine del sogno russo a una telefonata a Putin di Berlusconi, preoccupato per il dominio del suo Milan sul campionato. Gianfranco Fini, vicepresidente del Consiglio, bolla questi sospetti come “colossali sciocchezze”. Una frangia della tifoseria si appella al sindaco di Roma, Walter Veltroni, che dichiara di preferire una cordata di imprenditori romani che però non escono allo scoperto. A gettare ulteriore benzina sul fuoco di una squadra che sta lottando per lo scudetto con un piede nella fossa le dichiarazioni di Francesco Totti: ai microfoni del Tg1 il giorno prima della partita, il capitano giallorosso non esclude che quello del giorno seguente possa essere il suo ultimo derby.
Al 21 marzo, giorno di Lazio-Roma, la classifica recita Milan 64, Roma 57, Juve 55, Lazio e Parma 41. Lazio che aspira al preliminare di Champions e in finale di Coppa Italia contro la Juventus. In Europa, invece male: nella prima Champions League con gli ottavi a eliminazione diretta della storia, la squadra di Mancini si ritrova all’ultimo posto di un girone con Chelsea, Besiktas e Sparta Praga. Roma che, dopo avere condotto il campionato fino al giro di boa del girone d’andata, spera ancora di raggiungere il Milan e vincere lo Scudetto. Il suo percorso europeo è incerto. L’11 marzo perde a Vila-Real per 2-0 l’andata degli ottavi di finale di Coppa UEFA. Una partita tragica, giocata nel giorno degli attentati alle stazioni di Atocha, El Pozo e Santa Eugenia di Madrid. Una decisione, quella di giocare, che rivela come il calcio delle pay tv, dello spettacolo ad ogni costo, sia ormai un affare più importante di qualsiasi tragedia: Repubblica titola il giorno dopo: “Neanche una strage ferma il pallone”. “Nonostante tutto il pallone rotola” il titolo de l’Unità. Non è la prima volta che la Roma si trova a giocare partite europee in giornate drammatiche: il celebre precedente risale all’11 settembre 2001.
La Lazio non vince un derby dalla stagione dello scudetto: 2-1 a firma Nedved-Verón. Altri tempi. La fotografia al 21 marzo è quella di due club che non sanno se questa può essere la loro ultima stagione ai massimi livelli, o la loro ultima stagione tout-court. Dell’epopea dei derby di fine anni ’90 e inizio anni ’00, un’età dell’oro che ha visto partite esaltanti in un senso o nell’altro, scontri di altissima classifica, una centralità tutta nuova della capitale nel discorso calcistico europeo, questo potrebbe essere davvero l’ultimo.
Il derby è trasmesso da Sky nel peak time televisivo, alle ore 20.30, altra novità di questa stagione. Si parla di un miliardo di telespettatori. La responsabilità delle telecamere. In tribuna, uno striscione dei tifosi laziali recita: “La nafta è finita, la barca affonna, i sorci scappano”. Viene inquadrata l’immancabile Anna Falchi. Fabio Caressa, forse colto da un improvviso lampo divinatorio, parla di quiete prima della tempesta in riferimento alle curve. Vengono inquadrati Totti e Cassano nel tunnel che porta in campo: camminano lentamente, uno di fianco all’altro, guardando a terra. Totti mormora qualcosa a Cassano scendendo le scalette, lui annuisce. È una scena tenera, due fratelli quasi coetanei che condividono un segreto, una responsabilità, qualcosa di arcano che sanno solo loro. Quell’anno è davvero così: dopo tre minuti di partita già si contano due tacchi di Totti per Cassano e uno in senso opposto.
Al 27esimo minuto, mentre la regia mostra il replay di un brutto fallo di Totti su Inzaghi, si sentono i primi cori contro i carabinieri. Sembrano del tutto fuori contesto, il coro non viene nemmeno sottolineato in telecronaca. Finisce il primo tempo sul risultato di 0-0. Al ritorno in campo delle due squadre lo stadio, fino a quel momento piuttosto silenzioso, emette un fischio assordante. Fabio Caressa avvisa, ma con calma, un dettaglio: sono stati tolti gli striscioni da entrambe le curve. Qualcuno fra i telespettatori già sa che nella ritualità delle curve quel gesto significa solo una cosa: una tragedia. La partita riprende ma la sensazione è che vi sia qualcosa di profondamente sbagliato, che il centro degli eventi non sia sul campo ma altrove. Lo scarto fra quello che ci si aspetta e il vuoto sonico fa pensare a un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose. Caressa si riferisce a due parole scambiate da Cassano e Inzaghi con l’aggettivo distensivo, che in quel momento suona stonato. Dov’è la tensione? Cosa bisogna dis-tendere? Poi, un capolavoro di regia. Primo piano di Totti che scruta un punto all’orizzonte, cerca di mettere a fuoco qualcosa: nello stesso momento si fa strada, nel vuoto sonoro dell’evento, il coro: “fuori, fuori”.
Per chi è a casa a vedere la partita, è qualcosa di incomprensibile. Fuori chi, perché? Tutto lo stadio, incitato da qualcuno col megafono, inizia a cantare: “sospendete la partita”. Caressa, col tono di voce di chi non avrebbe mai voluto parlare di quell’argomento alla cena di Natale, inizia: «…e io vi devo dire una cosa». Non è così che si rovinano le feste? Che si spaccano le famiglie? Sembra uno di quei momenti rivelatori, di rilascio di tensioni generazionali nei romanzi di Franzen. Viene inquadrato Capello, il prototipo della maschera di sale: le guance gonfiate da un diaframma a fuoco, digrigna i denti e scuote la testa. «Sono fuori gli striscioni, girano delle voci incontrollate allo stadio, questo mi fa accapponare la pelle perché… mi ricorda un precedente».
Il precedente è il derby del 28 ottobre 1979, dove è stato ucciso da un razzo partito dalla sud il tifoso laziale Vincenzo Paparelli. Ma il precedente è anche Genoa-Milan del 29 gennaio 1995, dove morì Vincenzo Spagnolo, ucciso da una coltellata dell’ultrà del Milan Simone Barbaglia. Nello stesso 2003, il 22 settembre, morirà Sergio Ercolano, tifoso del Napoli precipitato da un’altezza di 20 metri mentre fuggiva dalle cariche della polizia all’ingresso del settore ospiti. «Noi ci stiamo informando su quello che sta accadendo, però» e in quel però forse lo slancio di verità, prontamente soppresso: «daremo informazioni certe quando avremo informazioni certe». Il sottofondo è quello del coro “assassini, assassini”. È successo qualcosa. Si passa dal piano della storia, quella del derby, della rivalità, dei problemi finanziari e giudiziari, a quello della Storia, dell’e-vento, qualcosa di inaspettato, qualcosa che, nelle parole di Adriana Cavarero nel suo Nonostante Platone, “mette fine al tempo dell’identica ripetizione, l’atto che irrompe a spezzare il già noto apparentemente insolubile”.
La voceche si sta spargendo, anzi che evidentemente si è già sparsa, allo stadio è il riflesso dell’Evento. È morto un bambino o un ragazzo durante gli scontri, investito da un’auto della Polizia (o colpito da un lacrimogeno, o da una manganellata). L’Evento sovverte i ruoli e mette a nudo l’insensatezza della rappresentazione. Si ricomincia a giocare e vedere 22 persone correre essendo consapevoli di ciò che, forse, è successo e che è, semplicemente, sbagliato. Viene da chiedersi, poiché la voce si è sparsa già da prima dell’inizio della partita, perché questa non sia stata sospesa prima. Caressa dice che si sta giocando in un clima «surreale» ma non è abbastanza. Il clima è di totale dissonanza cognitiva. I calciatori, fino a quel momento all’oscuro di tutto, continuano a giocare. Al minuto e trenta di gioco, Rosetti interrompe la partita per un fumogeno in campo. Si sente cantare: “celerino assassino”. Totti gli rivolge un’occhiata come a dire “alla buon’ora”. I due confabulano, Rosetti lo guarda inebetito.
Una prima smentita della notizia viene letta tramite gli altoparlanti dello stadio, ma viene coperta dai fischi del pubblico. Si parla della morte di un bambino investito da un’auto della polizia. Perché questa precisione? Le versioni del fatto che giravano sugli spalti erano confuse, si ipotizzava un lacrimogeno, manganellate, ora la questura parla di investimento, con una precisione che ha l’effetto opposto di ratificare la veridicità di quanto accaduto. Come scrive Valerio Marchi nel fondamentale Il derby del bambino morto: “Nella notizia del bambino morto si manifestano tutte le caratteristiche indeterminatezze dei boatos, delle voci incontrollate che si diffondono oralmente […] A unificare le versioni, oltre che informare l’intero stadio di quanto sta avvenendo, è soltanto il triplo annuncio della Questura, che ottiene l’effetto opposto a quello desiderato: la gigantesca macchina emozionale che la voce ha stimolato lo assorbe e lo rielabora trasformandolo, per assurdo, nell’ulteriore e definitiva conferma della gravità degli eventi”. In un contesto, come vedremo fra poco, di repressione e violenti scontri, la notizia della morte di una persona trova la sua ragion d’essere: è la sua verosimiglianza a trasformarla in un boatos, ovvero in una verità non ufficiale, non controllata dalle autorità. Le stesse autorità che hanno apparecchiato il contesto e l’humus dove la notizia si è generata, e che solo successivamente, con insolita chiarezza, ne hanno smentito la veridicità. Stando a una citazione di Marc Bloch contenuta nel saggio di Marchi: “L’errore si propaga, si amplifica e vive solo a una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un brodo di coltura favorevole”.
In TV si vedono i giocatori formare capannelli sparsi, mentre bombe carta e lacrimogeni esplodono, e si alternano silenzio, fischi e cori contro le autorità. Sembra essere la conferma visiva dell’indifferenza del calcio nei confronti dell’inferno che gli gira intorno. A un certo punto viene mostrato un replay di Candela con le mani al volto, in un’espressione di sgomento che, se il contesto non fosse così drammatico, oggi sarebbe immediatamente meme. I giocatori parlano con l’arbitro, Totti e Cassano non si separano mai, girano fra i gruppetti sempre in coppia.
Di colpo, lo squarcio. Totti ed Emerson hanno le mani dietro la testa, la posa di chi osserva un incidente stradale capitatogli proprio sotto il naso. Sono a colloquio con due persone che non avevamo mai visto. Sono due ultras, che uscendo dalla curva ed entrando nel campo da gioco rompono di colpo tutte le regole della rappresentazione a cui anni di partite viste in TV ci hanno abituato. Rappresentazione già smascherata dai cori, ora definitivamente mostrata per quello che è: un vacuo rituale che di sacro e necessario non ha nulla. Totale sovvertimento dell’ordine, confusione fra attore e spettatore, fra artista, soggetto e pubblico, palco e spalti. Due icone capitaliste di un calcio sempre più smaterializzato e televisivo (lo slogan “no al calcio moderno” nasce proprio in questi anni contro il monopolio delle pay tv), costretti a parlamentare con gente “normale”, in quella comfort zone (il campo da gioco) improvvisamente divenuta uno spazio pubblico. Totti parla ma soprattutto ascolta, viene abbracciato, le mani sulla nuca, in modo quasi affettuoso ma forse anche minaccioso o ricattatorio. Si aggiunge un terzo ultras, arrivano Dacourt e Candela: la barriera fra l’uomo comune e la stella si abbatte, la rigidissima separazione, materiale e simbolica, fra campo e spalti viene svelata per la sua arbitrarietà.
Nessuno sembra più a proprio agio in campo, nello spazio dove, in teoria, si gioca, e nient’altro. Totti e Cassano, insieme, sembrano i più impauriti: il capitano della Roma viene ripreso mentre dice a Capello «ci ammazzano mister», frase che farà fiorire le ipotesi di un complotto da parte degli ultras per far sospendere la partita e delle minacce ai giocatori affinché non riprendessero a giocare. Cassano prova a convincere Rosetti a interrompere la partita: «Se è vero facciamo una figura di merda». Le telecamere vengono allontanate, Caressa si lamenta, c’è il diritto di fare informazione, «non siamo mica delle spie». Entrano in campo il questore di Roma, Nicola Cavaliere, e il prefetto, Achille Serra. Sembrano rincuorare, più che spiegare, i giocatori, gli arbitri, i team manager, i direttori sportivi e tutto l’insieme di personaggi in cerca d’autore che si aggirano per il campo senza sapere che fare una volta destituiti dai loro ruoli. Pare che la decisione sia quella di riprendere, ma Totti gira di qua e di là organizzando una fronda, cercando di convincere tutti che è meglio di no.
L’impasse rimane, ormai in campo i conciliaboli a bocca coperta lasciano spazio a gioiose reunion: Cesar e Lima, Diego Lopez e Samuel, Montella si aggira tranquillo, le mani dietro la schiena, il sorrisetto imbarazzato di chi condivide una fila esagerata alle poste. Lo stallo permane finché Rosetti riceve un telefonino, che passa poi a Capello. Subito dopo la telefonata, triplice fischio, partita sospesa fra gli applausi del pubblico. La telefonata era di Galliani, presidente della Lega Calcio che, sostituendosi ai responsabili dell’ordine pubblico, decide per la sospensione. Decisione che verrà attaccata dal prefetto Serra, dal presidente della Lazio, Ugo Longo, addirittura dal ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu. Sospesa la partita, inizia il deflusso, che sarà altrettanto difficoltoso. Stando alla ricostruzione di Marchi: “Le autorità, invece di favorire il deflusso più rapido e sicuro possibile dei tifosi, non riescono a garantire l’apertura né di tutti i cancelli né dei corridoi in cui non si corra il rischio di essere caricati”. L’impasse viene risolta parzialmente con la decisione di aprire un corridoio ai bordi del campo per “far uscire gli spettatori dei distinti attraverso il tunnel dei giocatori”. Molto più problematica la situazione in altre zone del campo: i cancelli della sud, della nord e della Tevere sono infatti chiusi: gli addetti sono fuggiti per paura degli scontri. I tifosi della Lazio in curva nord riescono a uscire solo dopo due ore dalla sospensione della partita.
Questo ciò che la telecamera ha reso visibile a un miliardo di spettatori. Il resto - gli scontri prima, durante e dopo, e le voci - va ricostruito a posteriori. Il lato visibile di questa storia non comprende infatti gli incidenti verificatisi già dalle 17.30 fuori dallo stadio, con le cariche e i caroselli delle forze dell’ordine, né la battaglia (come verrà chiamata nei giorni seguenti) successiva alla partita, sempre fuori dallo stadio, una sorta di resa dei conti che vede i tifosi di Lazio e Roma uniti nello scontro con le forze di polizia, “terza tribù” catalizzatrice delle tensioni o, nel linguaggio della cultura ultras, sempre con Marchi, "blue firm".
Parte 3: il complotto
Le cronache del giorno successivo abbondano di toni gravi o addirittura cruenti. Tuttosport titola: “A Roma brucianoil derby”. Il Tempo rende esplicita l’inammissibile dinamica di potere dietro la sospensione della partita: “I tifosi impongonola sospensione della gara. Calciatori e Galliani ubbidiscono”. Il Mattino è già sicuro: “L’incredibile stop di Lazio-Roma per notizie non vere diffuse dagli ultrà”. Sullo stesso tono Il Giornale: “Gli ultrà fanno saltare il derby di Roma”. Nei servizi dei telegiornali la formula più usata è quella di “guerriglia urbana”, tic linguistico nato durante il G8 di Genova che evoca scenari sinistri, sotterranei, sovversivi. E infatti la dimensione oscura, da “mondo di mezzo”, ovvero da marginalità sociale, è quella che viene tirata in ballo più spesso. Una dimensione carbonara, da evocare con toni lugubri come un articolo di Repubblica a firma Carlo Bonini che titola “notte di bugie e patti violenti”, a metà fra Venditti e la notte dei lunghi coltelli.
Quella di un complotto, ordito dal mondo ultras, un sottobosco irregolare dove vigono interessi e dinamiche malavitose, invisibili a occhio nudo, quell’occhio della telecamera delle pay TV che mostra solo il lato luminoso del tifo, i cori, le coreografie, lo stare insieme. L’ultras come nemico pubblico numero uno, come folk devil, definizione mutuata dalla sociologia inglese. Nelle parole di Marchi il folk devil è “il catalizzatore dell’ansia sociale […] deve essere cattivo a tutto tondo […] ma soprattutto, deve essere inintellegibile, minacciosamente incomprensibile quanto gli anatemi arabi dei video di Al Qaeda”. Analogia così azzeccata che un articolo di quei giorni parla di “fondamentalisti della domenica” e di “talebani del tifo”.L’ultras che si sostituisce in quei giorni al black bloc come minaccia pubblica numero uno. Quei black bloc paventati e assurti a minaccia nei dossier della Digos prima del G8 che parlavano di tattiche terroristiche, di buste di sangue infetto da HIV, di rapporti che, seppur non aderenti alla realtà, hanno contribuito al clima di paranoia e ansia sociale culminato nell’aggressività delle forze dell’ordine e negli scontri di cui si ha dolorosa memoria. Tale identificazione dell’ultras come sottoproletario, invischiato in pratiche criminali, mosso da interessi extra-calcio, fa sì che un’inchiesta del Messaggero del 24 marzo titoli con somma sorpresa: “La doppia vita degli ultras borghesi”. L’ultras come döppelganger che abita un sottosopra maligno complottante contro l’ordine, e che si impossessa di gente altrimenti tranquilla, civile.
L’ipotesi che una voce incontrollata abbia unito due tifoserie, seppur rivali, è fuori discussione. La teoria, che diventa certezza, almeno in un primo momento, è quella del complotto. Gli ultras di Lazio e Roma si sono accordati per sospendere la partita, per dare una dimostrazione di forza e intimare al governo risoluzioni immediate per risolvere i problemi finanziari e giudiziari delle due squadre. La notizia sarebbe stata inventata ad arte per avere il supporto del pubblico inconsapevole. Questa la versione del prefetto, del questore e del maggiore dei Carabinieri, Giovanni Serra. Certezza condivisa anche da Roberto Maroni, allora ministro del lavoro. Le descrizioni della fauna sociale che occupa le curve parlano di “criminalità romana, rapitori assoldati dalla mafia catanese” insieme all’immancabile banda della Magliana, non ancora fenomeno di costume vintage ma spauracchio buono per tutte le stagioni. Curve dove trovano spazio ideologie nazifasciste, sobillate dalle radio private: in un articolo di Bonini per Repubblica si parla di un “mini-esercito con il coltello che combatte la sua guerra per l’egemonia in quella zona franca che si chiama stadio […] Sa che quella egemonia significa controllo delle attività commerciali di merchandising, di organizzazione delle trasferte”.
Già in campo, ai microfoni di Sky, interviene una persona presentata da Stefano De Grandis come «il primo dirigente della Questura, il responsabile dell’ordine pubblico qua allo stadio», che ventila un’ipotesi di accordo fra le tifoserie. Il dirigente, a caldo, dice che «hanno sparso la voce in maniera pretestuosa». Una voce che «le tifoserie più violente hanno sfruttato per mandare a monte una partita». Gli fa eco il prefetto Serra ai microfoni di Sky: «Alla fine del primo tempo mi sono accorto che in curva c’erano dei movimenti strani […] L’esperienza mi ha detto che stava succedendo qualcosa, mi è sembrato ci fosse qualcosa di organizzato». Gli ultras stanno ai tifosi come i black bloc stavano ai manifestanti pacifici. Sediziosi che inquinano, a mo’ di virus, le istanze regolaridella folla che li ospita. Sempre con le parole di Marchi l’ultras viene ricondotto a un “circoscritto fenomeno politico-criminale che opera per impossessarsi delle curve e dei creduloni che la frequentano”. Dunque, isolare e punire. L’ipotesi di complotto, negata da alcuni capi ultras di Lazio e Roma, risulterà insussistente nel corso del processo a sette ultras delle due squadre, escludendo dal processo i reati di violenza privata e istigazione a disobbedire alle leggi dello Stato.
Il calcio, che fino a qualche giorno prima era “malato”, “avvelenato”, ora si scopre anche ostaggio degli ultras, vittima di oscuri interessi criminali. Gianni Mura, in un articolo intitolato “Se il calcio finisce in mano agli ultras”, tocca un punto fondamentale senza accorgersene, nell’ansia di accodarsi alle voci di complotto: “Il calcio non si è fermato per le stragi, nemmeno l'ultima di Madrid. Il calcio non si è fermato con decine di morti dentro lo stadio, all'Heysel, né con un morto ammazzato dentro lo stadio o appena fuori (Paparelli, Spagnolo). Il calcio si ferma per una notizia falsa, per un bambino mai morto, per una leggenda metropolitana fatta circolare. Da chi e perché il vero punto è questo, e non è il solo”. Con un’inversione dialettica che è puro illusionismo, il problema non sono tanto gli interessi economici che fanno sì che le partite si giochino anche in giornate tragiche: ormai la sacralità e la necessità del gioco del calcio e della sua rappresentazione televisiva è cosa scontata e assodata. Il problema semmai è che ci sia qualcosa di più importante, un Evento che neghi la loro assoluta centralità sacrale nello spazio delle pay tv e delle abitudini di milioni di persone. Il calcio dunque vittima di una nuova, semisconosciuta quindi ancora più inquietante, minaccia.
“La cronaca ha sbattuto in prima pagina il mostro ultras” scrivono Guido Liguori e Antonio Smargiasse su Il Manifesto, in un articolo dal tenore diverso rispetto all’indignazione generalizzata. “Decine di migliaia di persone hanno imposto [i corsivi sono degli autori], in forme tutto sommato civili, soltanto la sospensione della partita. Mostrando un’etica ben maggiore di chi è incapace di fermarsi di fronte a tragedie di ogni genere, dalle Torri Gemelle alle stragi di Madrid, alla morte di un tifoso, perché lo show (business) deve andare avanti”. Ecco il paradosso, in un rovesciamento della scala dei valori per cui una partita di calcio deve continuare a ogni costo: tanta è la sacralità dello spazio simbolico del terreno di gioco, la divisione degli spazi e delle zone di influenza con gli spalti, tanti gli interessi in ballo, soprattutto in un momento di forte crisi finanziaria, giudiziaria e, come abbiamo visto, di credibilità.
Parte 4: cronaca di una morte annunciata
Lo spettro del G8 è fresco nella memoria collettiva, e viene evocato in un articolo de Il Messaggero del 23 marzo: “Fuori sembra il G8 di Genova, una follia”. Ma i fatti di Genova non tornano solo alla mente dei giornalisti e dei commentatori. Le testimonianze dei tifosi allo stadio sono infatti pervase dalla memoria delle violenze di quei giorni, e non si manca di sottolineare una continuità nei metodi repressivi delle forze dell’ordine. Numerose testimonianze parlano di un clima di fortissima tensione già da ore prima della partita, con una modalità di gestione dell’ordine pubblico quantomeno discutibile. "I tifosi, soprattutto romanisti, raccontano delle cariche prima della partita e nel primo tempo sotto la sud, dei blindati della guardia di finanza lanciati in mezzo alla gente nel piazzale tra la curva e la Tribuna Tevere, dei lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo o a casaccio sugli spalti, delle manganellate a donne e anziani”, si può leggere su un articolo de Il Manifesto.
Sono passati neanche tre anni dal G8, e in mezzo un decreto legge, il 28 del 24 febbraio 2003, “recante disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive”, che introduce l’arresto anche in casi di flagranza differita, qualora eventuali danneggiamenti venissero ripresi dalle telecamere. Sempre il governo varerà nel 2005 il Dl 162, il cosiddetto "decreto Pisanu”, che istituisce l’Osservatorio sulle manifestazioni sportive, i biglietti nominativi e la videosorveglianza obbligatoria. Un decreto che risponde a un’esigenza securitaria di contrasto all’operato del folk devil, in un contesto di paura generalizzata e di vera e propria caccia alle streghe.
Di seguito alcune testimonianze dei tifosi, prese dal sito asromaultras.org e citate anche nel saggio di Valerio Marchi: “Verso il 30’ la curva ha smesso di cantare, da sotto tutto tace e a quel punto per me significa che è successo qualcosa di veramente grave… calcolando anche il fatto che svariate volte arrivano nubi di lacrimogeni fino alla fila 25 dove mi trovavo io”. E ancora, relativamente agli scontri dopo la partita: “Fuori ho visto scene indecenti, cariche con furgoni blindati, e pestaggi indiscriminati, in un’aria totalmente irrespirabile dai numerosissimi lacrimogeni che ancora venivano lanciati […] fino a notte inoltrata ancora dubitavo che fosse una notizia falsa”. I lacrimogeni usano gas CS, in dotazione alle forze dell’ordine dal 1991, considerato come arma chimica se usato in guerra e dunque bandito dalla Convenzione di Ginevra del 1925. Il motivo scatenante degli scontri fra forze di polizia e tifosi sembrerebbe essere il tentativo di alcuni di entrare senza biglietto. Nella ricostruzione di Marchi, basata su decine di testimonianze: “se nella fase pomeridiana le cariche e i caroselli avvengono nei pressi dello stadio, da questo momento [le 19 circa, ndr] gli scontri si spostano sotto e infine dentro i ‘boccaporti’ – le rampe di scale - che portano in Sud”. Dunque cariche e caroselli (stando alla Treccani, “evoluzioni che compiono le macchine della polizia per sciogliere assembramenti di dimostranti”) sin dal pomeriggio nell’area fuori dallo stadio; poi, dalle 19 circa, un progressivo spostamento degli scontri verso i boccaporti che conducono in Sud.
Molte testimonianze raccontano del tentativo delle forze dell’ordine di entrare in Curva, e il conseguente terrore di chi si trovava lì. Da qui, il lancio di lacrimogeni, che presto si propagano per tutta l’area della Sud e dei distinti, rendendo l’aria irrespirabile e provocando lesioni. Sempre da asromaultras.org, sito che raccoglie una grande quantità di testimonianze dirette: “i polmoni mi hanno preso fuoco, gli occhi si sono incendiati, il respiro mi è mancato […] istanti senza riuscire a vomitare, ma soprattutto senza riuscire a respirare”. “Io che ho l’asma un altro po’ morivo […] mi sono finito la bomboletta della medicina e la notte ho dovuto dormire con quattro cuscini per non stare sdraiato, sennò collassavo”. Ecco il brodo di coltura della voce incontrollata, del boatos, ecco il motivo per cui le ripetute smentite della Questura non sono state credibili sortendo l’effetto opposto. Sempre nell’articolo di Alessandro Mantovani su Il Manifesto: “E allora si capisce che allo stadio Olimpico l’abbiano scampata bella, che il morto poteva scapparci davvero, altro che psicologia delle folle”.
Gli scontri proseguiranno ben oltre la fine della partita, fuori dallo stadio, in quella che viene chiamata “battaglia dell’obelisco” (per via dell’obelisco dedicato a Mussolini che, nonostante tutto, ancora oggi campeggia davanti allo Stadio Olimpico), mentre Mihajlovic, Rosetti e Totti vengono portati in questura come persone informate dei fatti. Il bilancio sarà di 9 arresti e 11 denunce, con 153 feriti fra le forze dell’ordine e 21 tifosi medicati. Le immagini del dopopartita, delle sassaiole, delle cariche, di auto bruciate sul lungotevere saranno ampiamente mostrate nei giorni seguenti, per evidenziare la follia distruttiva che, improvvisamente e ingiustificatamente, si sarebbe impadronita dei tifosi.
Nonostante questo, nei giornali dell’epoca non si fa menzione del terrore e della violenza che hanno preceduto la partita. Per il Corriere della Sera sono stati solo “alcuni tafferugli”. Secondo la ricostruzione di Repubblica “un reparto celere esplode due lacrimogeni” e niente più. Per gli scontri del dopo partita i toni sono apocalittici. Per Il Messaggero “Lazio e Roma smettono di giocare perché è cominciata la guerra. Fuori dallo stadio c’è l’inferno. Bruciano le auto della polizia e auto parcheggiate”. In un altro articolo si parla di “due guerriglie parallele per un totale di venti minuti di follia pura”. Due versioni, due verità.
Tutto in questa storia è binario, ha un lato luminoso e splendente e un lato oscuro e maligno. La voce del bambino morto, creduta vera e rivelatasi falsa. La sospensione della partita, creduta frutto di un complotto poi smentito. La violenza degli scontri, minimizzata invece causa principale dello stato di tensione e del propagarsi della voce stessa. Sullo sfondo una lotta per il potere interna al sistema-calcio, che il derby del 21 marzo svela. Chi comanda, chi decide? La Lega, il questore, il prefetto, l’arbitro, i presidenti? O forse l’occhio della telecamera, correlativo oggettivo di un capitalismo dell’intrattenimento che ha reso il calcio uno spettacolo, una commodity da seguire come una serie Netflix, mai senza, “always on”? Le cronache dell’epoca hanno concordato nel ritenere inaccettabile che una partita potesse essere sospesa per volontà popolare. Da qui le ipotesi di complotto, che servono a trovare un senso immediato a eventi complessi che meritano invece analisi approfondite ma più lente. Nelle parole di Franco Baldini, direttore sportivo della Roma anche l’11 settembre 2011 e l’11 marzo 2004: “È vero che lo spettacolo deve comunque continuare ma di che spettacolo si sarebbe trattato?”.
Al derby di recupero giocato il 21 aprile, Totti esulta dopo un gol. Prende la telecamera, vera protagonista di questa storia, e inquadra la sud, dove esultano gli spettatori che al derby precedente si erano sostituiti ai verticidel calcio. L’immagine è conciliante, distensiva, come dice Caressa,segna una rinnovata continuità nel rapporto fra il calcio, le curve, l’ordine pubblico e le esigenze televisive. Inquadrare la curva significa metterla al centro della scena, dirle “quanto siete belli”. Ma in questo gesto c’è anche la restaurazione dell’ordine, dei ruoli, della dinamica per cui il tifo è bello solo quando sta al suo posto. Finché fate i bravi avete posto in questo spettacolo, anzi ne siete parte integrante. A patto di rispettare il vostro ruolo, e non andare oltre. Protagonisti sì, ma solo negli spazi a voi destinati.