
Il campo da tennis di Montecarlo è incastrato fra la roccia e l’acqua. Il bianco della roccia, il rosso della terra, l’azzurro del cielo e del mare. È uno dei grandi templi della sofisticata stagione europea del tennis. Il lusso si vive e si respira, sembra essere entrato nell’ecosistema mediterraneo. Sul campo, uno di fronte all’altro, due ragazzini che non hanno ancora vent’anni. Come nelle migliori partite di tennis, l’uno sembra l’antitesi dell’altro. Uno è castano, pallido, le spalle strette e i polpacci grandi, indossa una maglia Lacoste e un cappellino al rovescio che gli dà un’aria da ragazzo del Disney Club; l’altro è selvaggio, coi capelli neri come il petrolio, tenuti insieme da una bandana come capita, la canottiera arancione vibrante, i pantaloni sintetici a pinocchietto.
Richard Gasquet lo riconosciamo. È il ragazzino più dotato del circolo, magari pure figlio del maestro. Famiglia alto borghese, completini freschi, capello spettinato ma studiato. Non è antipatico, ma è scostante, frequenta ragazze che somigliano a cerbiatte. Hanno tutti una casa al mare e una in montagna. L’aria di chi può permettersi un disagio puramente interiore. Ha anche qualche vezzo: porta il cappello al contrario, ha le gambe stranamente tozze, il culo a papera che ne sporca l’andatura.
Di Rafael Nadal cosa dire? È strano. È nevrotico, pieno di tic, gioca in uno stato emotivo mai visto. Timido ma volitivo, sempre su di giri. È un coatto, ma dolce.
La partita comincia e il loro tennis è magnifico. Si passano 14 giorni di differenza. Non potrebbero giocare più diversamente. Sembrano aver imparato questo sport su due pianeti differenti. Uno è destro, l’altro mancino; uno ha il rovescio a due mani, l’altro a una; uno stringe il dritto con una convenzionalissima eastern classic; l’altro l’ha fatta ruotare nella sua mano fino ad arrivare a una esasperata semi-western.
Uno gioca un tennis classico, l’altro ne gioca uno che, beh, come dire, non si era visto mai.
Quando colpisce il dritto, la racchetta di Nadal fa un movimento rotatorio. Non sembra spingere la palla in avanti: pare affettarla. Quando tocca terra quella si arrampica su, su, e bisogna camminare all’indietro per coordinare a fatica il corpo umano per colpirla. Gasquet ha un rovescio a una mano, che rende particolarmente complesso rispondere a quella traiettoria. Lo è oggettivamente, a livello biomeccanico. Gasquet però non sembra soffrire più di tanto, e ogni tanto si libera di quella diagonale sbracciando elegantemente un cambio di ritmo lungolinea. È un colpo d’ali, un momento in cui la forza viene catturata dal guanto gentile della tecnica. La partita ha a che fare con questa collisione spettacolare di stili. Da una parte i colpi carichi di topspin di Nadal, il suo tennis pesante, in cui ogni colpo si porta dietro una piccola intimidazione fisica; dall’altra i colpi leggeri, fini, di Gasquet, che sembra sempre sul punto di soccombere, ma poi si tira fuori con un’invenzione, un cambio di panorama. Se lo scambio da fondo diventa soffocante, Gasquet rallenta col rovescio, chiama Nadal a rete, poi lo passa.
Era il tennis dominato da Roger Federer, ma Gasquet e Nadal rappresentavano la possibile rivalità del futuro. Così veniva raccontata quella partita: il primo scontro fra due giocatori che avrebbero segnato la nuova era del tennis. Quel pomeriggio io e mio padre avevamo fatto di tutto per stare davanti alla tv. Ci saremmo ricordati di quella partita, pensavamo.
Il giorno prima avevamo visto Gasquet battere Federer. All’epoca il tennis funzionava in questo modo un po’ fiabesco. Chi batteva il migliore al mondo, si candidava a diventare il migliore al mondo. Soprattutto se lo batteva in un certo modo, se emanava chiari segnali di essere l’eletto, come aveva fatto Richard Gasquet quel giorno.
Aveva perso il primo set al tiebreak, sciupando diverse possibilità. Forse si sarebbe potuto accontentare della splendida figura fatta in quell’inizio di partita, di qualche vincente da highlights, per poi lasciare che il campione dilagasse. Invece nel secondo set Gasquet aveva opposto resistenza, e lo aveva vinto 6-2, chiudendolo con un’enfatica risposta vincente di dritto. Al terzo aveva annullato tre match point, uno con un ace, poi aveva vinto 10-8 al tiebreak, con un passante di rovescio delizioso. Federer era sconvolto dopo la partita. Arrivava da 25 vittorie consecutive. Nell’ultimo anno aveva perso giusto una volta da Safin in semifinale agli Australian Open, dopo aveva detto: «Mi sembra di giocare più contro la storia che contro gli altri giocatori, e non è semplice». “Finalmente è arrivato il giorno” titola ESPN. E riguardo Gasquet, che ne pensava il re? «Ha giocato a quel livello per cui non c’era molto altro che potessi fare. Almeno è quello che ho sentito oggi. Ma devo giocarci più spesso per vedere quanto è solido».
Gasquet non aveva giocato in modo convenzionale. Alcuni tennisti colpivano la palla forte; altri si accontentavano di rimandarla dall’altra parte della rete. Lui invece giocava ispirato: ogni suo scambio aveva una costruzione leggera, intelligente, e poi ogni tanto lo scambio si piegava verso il suo pensiero laterale, e seguiva un’intuizione. Il tempo e lo spazio erano diversi, meno lineari. Insomma, giocava in modo molto simile a Federer. O almeno quella era stata l’impressione quel giorno.
Non sopporto i nostalgici, e tanto meno chi parla di vero tennis in rapporto a un certo stile di gioco. Eppure a guardare questi highlights non vi sembra che abbiamo perso per strada qualcosa di essenziale negli ultimi anni di tennis?
Il tennis di quegli anni poteva ancora essere letto attraverso questi conflitti elementari: la forza contro la tecnica, la classe contro la violenza. Il rovescio a una mano contro il rovescio a due mani, il gioco da fondo contro quello a rete. Il talento naturale, contro quello costruito. L’epoca dei big-3 ci avrebbe abituato a un gioco più universale, competitivo su tutte le superfici, e basato sulla velocità da fondo campo. All’epoca si potevano ancora dividere i giocatori seguendo la nostra classificazione del mondo. Tifare l’uno o l’altro ti posizionava.
Io e mio padre tifavamo Federer, e quindi tifavamo Gasquet, quel giorno, contro Nadal. Come sempre, una partita di tennis era molto di più di una partita di tennis.
Gasquet non era appena arrivato nel circuito. Nel 2002, sempre a Montecarlo, aveva battuto Franco Squillari. Aveva sedici anni: il più giovane della storia a vincere una partita nel tabellone principale di un torneo ATP. Nel 2003 era stato il più giovane della storia a entrare in Top-100.
Tutte queste informazioni sarebbero state facili da reperire, anche se non avessimo seguito Gasquet fino a quel momento. Le avremmo lette prima del match sui social, avremmo guardato il video della sua vittoria su Squillari. Oggi, per esempio, sappiamo già praticamente tutto di Joao Fonseca. All’epoca io e mio padre davanti alla tv non sapevamo quasi niente di Gasquet: tutte queste informazioni ce le raccontarono i telecronisti di Stream.
Anche Nadal aveva battuto Federer, a Miami, e aveva già vinto un titolo. Era più difficile però immaginarselo dominare il tennis negli anni successivi. Non aveva la faccia e il gioco del campione di tennis. Gasquet, sì, somigliava a un campione, degno continuatore della linea genealogica McEnroe-Sampras-Federer; Nadal sarebbe stato un Guillermo Coria, un Alex Corretja, o al massimo un Thomas Muster, il giocatore austriaco dominatore della terra rossa negli anni ’90. Mi rendo conto che dire queste cose oggi suona lunare, ma all’epoca guardavamo la realtà attraverso questo filtro malandato. Il tennis stava cambiando sotto ai nostri occhi e non ti accorgi del cambiamento quando ci sei in mezzo. Federer deve sbilanciarsi su chi preferisce tra i due, e non si sbilancia. Dice solo che Nadal è unico perché non ci sono molti mancini nel circuito. Gasquet di Nadal dice «posso colpire più forte di lui, ma non è facile farlo muovere». Prima della partita la stampa la presenta come una nuova rivalità. Nadal si scansa: «Gasquet è un gran giocatore, ma non voglio parlare di rivalità, è semplicemente un giocatore che vuole arrivare al top».
Nadal però fa il primo break e cominciamo a prendere consapevolezza che non è un terraiolo come gli altri. Quel dritto, così particolare, prende il comando e macina vincenti. All’ottavo gioco sono già 6 vincenti di dritto, mentre Gasquet è ancora fermo a zero. I telecronisti hanno un sussulto ogni volta che il francese tira uno dei suoi languidi rovesci, «fa sembrare il tennis così facile». Gasquet a fine set sale di livello, la partita diventa magnifica, c’è un break dietro l’altro, al tiebreak il francese dipinge e vince il set. C’è davvero la sensazione che sia più forte. Costruisce i punti in modo vario: palla corta e passante, risposta vincente di rovescio, dritto a sventaglio e volée. Non c’è niente che non sappia fare. Nel primo game del secondo set tira un rovescio lungolinea da sturbo, mentre i telecronisti gridano “YOU GOTTA BE KIDDING ME”. Fa il break, la partita sembra segnata.
Poi succede qualcosa che noi davanti alla televisione non credevamo possibile a quel punto. Rafael Nadal, come altre volte gli succederà in carriera, si rifiuta di perdere. Inizia a coprire il campo da destra e sinistra con una ferocia mai vista, e Gasquet comincia a sentire il suo alito sul collo. La pressione dei suoi recuperi impossibili, dei suoi dritti vincenti coi piedi sui teloni; il gioco sempre più aggressivo, il livello che si alza sempre nei punti importanti. È una partita estremamente equilibrata. Nadal serve per il secondo, ma Gasquet in quel torneo reagisce sempre, e fa controbreak. Il maiorchino ha un altro guizzo e vince il secondo set; nel terzo Gasquet va subito avanti di un break, è una battaglia in cui i due sembrano equivalersi in tutto. Nessuno può servire senza essere minacciato di break; a inizio set Gasquet sembra avere più inerzia. Più capacità di girare lo scambio, di inventare colpi vincenti. Solo che Gasquet manca le sue ripetute possibilità di break, mentre Nadal colpisce subito alla prima occasione, va sul 5-3 e poi chiude il match.
Quella partita era stata all’altezza delle aspettative, anche nel modo in cui era stato promesso: il livello, il contrasto di stili, le personalità. Gianni Clerici dà la sua benedizione a Gasquet: «In questi bassi tempi di arrotini, credevo che l'unico tennista meritevole di essere visto fosse San Roger Federer. Invece ce n'è un altro: Richard Gasquet». C’erano tutti gli ingredienti per cucinare la nuova rivalità del tennis mondiale. Francia contro Spagna, Gasquet contro Nadal. Una rivalità che, in realtà, non era iniziata quel giorno ma molto tempo prima.
Uno dei più grandi tornei under-14 in Europa si gioca sui Pirenei, in Francia, e si chiama “Les Petits As” (“I piccoli assi”). Un nome tenero che non c’entra niente col clima da lupi che si respira nella competizione, in cui si sfidano alcuni dei migliori prospetti del tennis europeo. In finale nel 1999 arrivano Richard Gasquet e Rafael Nadal, i migliori under-14, rispettivamente, di Francia e Spagna. Pure se il campo è arancione si gioca indoor, dentro un palazzetto stipato di tifosi e addetti ai lavori curiosi che guardano la partita con le braccia poggiate sui cartelloni pubblicitari (Leclerc, Danone). Da bambini i due si somigliano di più. O meglio: la versione di Montecarlo di Gasquet somiglia di più alla propria versione bambina di quanto ci somigli Nadal, che al Petits As sembra proprio un altro giocatore, decisamente più convenzionale. Si muove rilassato, privo di nevrosi e quasi trascinandosi una specie di stanchezza. I suoi colpi sono poco carichi e penetranti, il suo topspin meno esasperato, le sue gambe si piegano appena durante i caricamenti. È ancora lontano dal suo sviluppo fisico. Gasquet, invece, col suo gioco classico e cadenzato è una versione già più vicina a quella che vedremo dopo. È un’impressione che mi sono fatto guardando un video da quattro minuti, eppure già si intravede che il tennis di Gasquet si stava cristallizzando in una sorta di forma definitiva da juniores - che poi è rimasta sotto formalina, la classicità in fondo è sempre uguale a se stessa.
I due si sono affrontati più volte durante quegli anni, anche se poi hanno preso un percorso diverso. Gasquet ha seguito una strada più tradizionale, accompagnato dalla potente federazione francese, che lo ha consolidato come numero uno juniores nel 2002 - quando ha vinto US Open e Roland Garros di categoria. Nadal invece si faceva le ossa nei piccoli tornei contro giocatori adulti. Da una parte un giocatore che esibiva il proprio talento protetto da una campana di vetro; dall'altra uno che cercava di imparare più velocemente possibile a giocare contro gente che doveva guadagnarsi da vivere.
Nel 2003 si incontrano al torneo Challenger a Saint-Jean-de-Luz e Gasquet vince ancora. Nel 2004 arriva il primo confronto fra ATP, a Estoril. Nadal ha una frattura da stress al piede ma non vuole ritirarsi, e non vuole perdere. Non vuole assolutamente perdere di nuovo da Gasquet, non lo avrebbe accettato. E allora lo batte, in tre set, con grande fatica.
Gasquet racconta che quella sconfitta non lo aveva preoccupato più di tanto: «L’ho affrontato per la prima volta nel circuito a Estoril, dove ho perso, ma non mi ha spaventato affatto perché lo conoscevo. L'avevo già incontrato una volta in Challenger. Mi sono allenato con lui ed eravamo 50-50, quindi ho sentito che non mi spaventava affatto. Anche a Monaco, anche se era già mostruoso, sapevo di poterlo battere, il suo gioco non mi impressionava per niente».
E quindi quando i due, poche settimane dopo la pirotecnica sfida di Montecarlo, si ritrovano da avversari al Roland Garros, la stampa carica la sfida all’inverosimile. Gasquet ha fatto pure finale ad Amburgo, dove ha perso da Federer, non senza lasciare squarci di tennis abbaglianti. È in forma e lo zio Toni non era felice di essersi trovato Richard nella sua parte di tabellone. Sapeva che il pubblico sarebbe stato una bolgia. La partita, però, non ha storia. Nadal somiglia di più alla sua versione dominante che a quella vista a Montecarlo. Come si muove, come colpisce di dritto, come rimbalza la sua palla. C’è una gravità nel gioco di Nadal, una pesantezza, di fronte a cui Gasquet sembra del tutto impreparato. Esce dal campo dopo tre set piuttosto rapidi. Va da suo padre, Francis, che è incredulo e gli dice: «È finita, è il nuovo vincitore del Roland Garros». Come deve essersi sentito, a provare quella bruciante consapevolezza? «Era un giocatore totalmente diverso da Monaco. Mi sono sentito ancora un junior davanti lui», ha detto triste e rassegnato. Una serie di osservazioni incredibilmente lucide. Gasquet era nel circuito pro ormai da tre anni, ma non aveva fatto chissà quali passi in avanti, e Nadal invece in quei tre mesi era sbocciato. Il suo gioco si era, come dire, gonfiato. Non poteva sapere di aver perso come il futuro vincitore di 14 Roland Garros.
Il Roland Garros avrebbe dovuto vincerlo lui, Richard, “Il piccolo Mozart”. Il 2005 è l’anno in cui la Francia pensa finalmente che l’attesa sia finita. Un attesa cominciata nel 1996, quando “Richard G.” è già sulla copertina di Tennis Magazine. “Il campione che la Francia attende?”. Nell’immagine sta per colpire il suo iconico rovescio, la testa della racchetta con la caratteristica apertura in alto, la bocca che si piega in una smorfia di concentrazione che manterrà per sempre. Richard è uno di quelli nati con la racchetta in mano. Suo padre, un maestro di tennis; sua madre, una maestra di tennis. Richard viveva al circolo di Serignan, vicino Béziers, poi giocava anche a rugby e a calcio, ma quando ha nove anni deve già scegliere. Per scattargli quelle foto vanno al circolo, con una troupe di telecamere e giornalisti microfoni. Vediamo Gasquet palleggiare al muro di un edificio del circolo, la voce fuori campo ci avvisa che né Yannick Noah né Henri Leconte avevano raggiunto il suo piazzamento di classifica alla sua età.
«Il gesto è ampio ma preciso, la corsa rapida e fluida, a soli nove anni è qualcosa di mai visto». Il padre rassicura che gli mette pressione solo in termini di prestazione fisica e tecnica, non esiste una pressione sui risultati. Dopo lo guardiamo sdraiato sul letto coi suoi amichetti a guardare vecchie cassette del suo idolo Henri Leconte - con i capelli cotonati, i gilet di sopra la maglietta. Gasquet lo guarda e dice: «Anch’io farò infiammare il pubblico». La camera è puntata sulla sabbia, mentre Gasquet corre in riva al mare come Antoine Doinel, sullo sfondo un arcobaleno che forse dovrebbe suggerire un futuro luminoso.
Quando si parla di Gasquet si cita sempre quella copertina. In ogni intervista, in ogni articolo su di lui. Sono immagini che si fissano facilmente nell’immaginario, e che quindi costruiscono un’etichetta fatta per cambiare di segno nel tempo. Se le cose dovessero andare bene per Gasquet quella copertina verrà tirata fuori per sottolineare il marchio divino del suo talento. Il fatto che fosse evidente già quando era un bambino alto un metro e quaranta. Se le cose, al contrario, non dovessero andare per il verso giusto, ci sarà la storia ancora più succulenta del talento bruciato dalle eccessive attenzioni. Da un racconto esagerato che lo ha circondato da quando non aveva ancora gli strumenti per difendersi. Un racconto, naturalmente, che la stampa costruirebbe in tutte le fasi.
Dal titolo di Tennis Magazine inizia un’attenzione mediatica con pochi precedenti. La Francia in quel momento non ha tennisti di primo livello a parte Cédric Pioline, massimo numero cinque del mondo. Nel 1996 si era ritirato l’ultimo finalista del Roland Garros, Henri Leconte. C’era una certa tensione nel tennis francese, e quindi attorno alla sua gigantesca macchina. Dobbiamo immaginare la stampa sportiva, ma anche grandi istituzioni come il Roland Garros e soprattutto la FFT, la federazione francese di tennis. Una macchina ministeriale che deve portare risultati, e quindi produrre giocatori, e se questi giocatori non ci sono si può anche scavare verso il mondo juniores per restituire una piccola fiamma di speranza. Sulle spalle di Gasquet, già nel 1996, viene messo il peso delle carriere di dirigenti e quadri della Federazione, e più in generale di un movimento che in sport come il ciclismo e il tennis è costretto spesso a rifarsi a un’età dell’oro che ormai appartiene a un secolo fa.
Le informazioni scarseggiano, i video non circolano, se non attraverso i servizi televisivi, ma gli articoli raccontano di questo ragazzo cresciuto nel mito di Leconte e che gioca con la stessa grazia, la stessa completezza di repertorio. Ha capelli ricci nascosti da un cappello girato all’indietro, gioca un rovescio a una mano da sturbo, batte tutti i suoi coetanei. Qualche anno fa Gasquet ha rilasciato una strana intervista al podcast di tennis de l’Equipe. L’ho definita strana perché è un’intervista che si concentra molto sul rapporto tra Gasquet e i media. «Tutto quello che mi circondava è stato amplificato dal racconto dei media» dice Gasquet. Magari a 9 anni non capiva nemmeno cosa significasse quella copertina di Tennis Magazine, ma poi ha iniziato a leggere i i giornali, è uno storico abbonato de l’Equipe, e quando aveva 15, 16, 17 anni era difficile non leggere cosa si scriveva su di lui. Da fuori è facile dire “isolati”, “pensa solo al tuo gioco, ai tuoi miglioramenti”. Le persone intorno ti guardano in modo diverso se perdi o se vinci. Il tennis non è solo la tua vita: è la tua identità, è quello che sei. Tua madre è un’insegnante di tennis, tuo padre è un’insegnante di tennis. Tu sei sempre vestito da tennis, stai più al circolo che a casa, le scarpe e i calzini sempre sporchi di terra rossa. In cameretta sei pieno di trofei, tutti ti dicono che sei il più forte. Il più forte di tutti della tua età. Fallire non è un’opzione. Quando scendi in campo, però, trovi davanti ragazzini allenati come te, che vivono delle stesse aspettative, coltivano gli stessi sogni. Uno vince e uno perde.
Dobbiamo parlare del rovescio di Richard Gasquet. Definito “Il rovescio più bello dell’era open” o più semplicemente “una poesia”. Dopo un suo vincente di rovescio sentivi lo stadio sussultare anche dalla televisione. È un gesto languido, forte e delicato al contempo, sensuale. C’è un aspetto di questo benedetto colpo che lo rende particolarmente appagante da guardare. Quando Gasquet colpisce di rovescio, la racchetta sembra volare verso l’alto. Nella sua apertura la porta fin sopra la sua testa, più di quanto facciano gli altri - il polso piegato verso l’avambraccio. Sembra pronto a qualcosa di pomposo e inutile, a un gesto lezioso. Così la forza che riesce a dare alla palla ci coglie sempre di sorpresa. Mentre la traiettoria del suo colpo viaggia nell’aria perfetta, lui rimane in posa per un secondo. La testa della racchetta raggiunge l’apice verso l’alto, i piedi sospesi da terra, il petto in fuori. La figura quasi completamente laterale rispetto alla rete - quasi perché la forte rotazione delle anche lo porta ad aprirsi leggermente. Talvolta Gasquet nemmeno guarda il campo mentre colpisce di rovescio. Rimanda a qualcosa di più solenne ed elegante del tennis, forse più vicino alle armi bianche, o alle sculture neoclassiche che adornano lo stadio dei marmi di Roma. Le inquadrature in cui si apprezza meglio sono quelle da dietro. Da lì si può quasi sentire il brivido di un colpo tecnicamente perfetto. Per un breve momento l’ombra di Gasquet sembra staccarsi da terra.
Nella sua autobiografia stila una top-5 dei rovesci a una mano della sua epoca, e si mette dietro Wawrinka. È comprensibile, anche se quello di Wawrinka non possiede i dettagli barocchi di quello di Gasquet. Non trasmette le stesse vibrazioni estetiche. Come fa a riuscire a giocare un colpo tanto complesso in modo iterativo, a trovare il tempo per giocarlo in un tennis sempre più accelerato? Non è solo un gesto estetico, è anche efficace. La frustata del braccio di Gasquet è violenta, uno strappo; la preparazione sempre rapida, il timing eccezionale. L’impugnatura più estrema del normale gli permette di dare più forza e rotazione. Indipendentemente dalla superficie, dalle condizioni, dal tipo di palla che il suo avversario gli tira, riesce a trovare sempre il punto di impatto perfetto. Sembra sentirlo. Come sa chi gioca a tennis, è una delle qualità più innate e più difficili da coltivare. Quella che dimostra più chiaramente la purezza del talento di Gasquet. Col rovescio può fare tutto: tirare palle cariche di topspin, lavorare in diagonale per buttare il suo avversario fuori dal campo, oppure accelerare all’improvviso in un cambio di ritmo lungolinea.
È un colpo tecnicamente così perfetto che sembra avere una vita propria, una sua personalità. Sembra quasi staccarsi da Gasquet, essere una cosa a parte rispetto a lui. Le persone vanno alle sue partite per guardare il suo rovescio; eppure a guardarlo si ha una sensazione perturbante. La potenza, il timing e la precisione che Gasquet ha sul rovescio, non ce l’ha su nessun altro colpo. Sembra un giocatore da un lato, e un altro giocatore dall’altro; come se il rovescio di Gasquet rappresentasse una sua personalità compiuta, aderente con l’immagine che gli altri hanno di lui. Gasquet il prodigio, il talento naturale; mentre il resto del suo gioco esistesse solo per riportarlo a terra, renderlo fallibile, storto, incapace di successo. Questo squilibrio però rende il tennis di Gasquet ancora più affascinante, perché associamo spesso la bellezza alla fragilità. Col passare degli anni, mentre il rovescio a una mano si estingueva dal circuito, Gasquet continuava a impreziosire il tennis con le sue commoventi sbracciate, diventate una specie di feticcio museale. Solo Gasquet, questo talento fallito, questo ragazzo francese dall’aria borghese, manteneva in vita l’antico spirito del rovescio a una mano. E solo la sua innata sensibilità poteva mantenere quel colpo in vita nonostante non fosse più teoricamente competitivo.
La sua carriera è sembrata subito assumere tinte da tramonto, e così ogni suo rovescio sembrava la manifestazione di un’arte perduta e che non sarebbe mai più tornata, e che si portava quindi dietro sempre una piccola morte. Ogni rovescio di Gasquet sembrava essere l’ultimo rovescio lasciato al mondo.
Nel 2009 Richard Gasquet viene trovato positivo alla cocaina. Le tracce della sostanza proibita vengono rintracciate nelle sue urine in un controllo a Miami. È una botta tremenda. È già in un momento di flessione della carriera, il 2008 è stato un anno difficile, in cui è sceso in classifica e ha cambiato allenatore. Lui si ritira dal torneo prima di giocare il secondo turno, la ITF poi lo trova positivo e lo sospende in attesa di giudizio. Qualche mese dopo viene graziato, la sua fantasiosa tesi difensiva viene clamorosamente accolta e il 17 luglio torna a giocare senza alcuna squalifica. La quantità di sostanza è troppo ridotta e allora viene creduto: non è stata un’assunzione della sostanza ma una contaminazione. Come sarebbe avvenuta? Attraverso un bacio dato in un locale notturno di Miami a una certa “Pamela” (nome in codice). È una storia troppo bella per non essere creduta. Una storia, soprattutto, perfetta per ricamare attorno al personaggio. Richard il ragazzo francese dal sofisticato rovescio a una mano, dal talento maledetto, senza testa, che cade in trappola per un bacio alla cocaina. Una droga che certo non offre nessun supporto alla performance, che se sei un tennista di quel livello, sottoposto a continui controlli anti-doping, puoi assumere al massimo in un vortice auto-distruttivo. Uno splendido eroe millennial, perfetto per qualche commedia delicata e riflessiva di Arnaud Desplechin. Rafael Nadal lo difende: «Gli sono vicino. Sono sicuro che non ha assunto niente di illecito. È un mio amico, ci ho parlato, non si è fatto di cocaina». Il suo entourage gli aveva sconsigliato di prendere posizione, ma lui sente di fregarsene, e sono parole di grande conforto per Gasquet.
La semifinale di Montecarlo del 2005 doveva segnare l’inizio di una delle grandi rivalità del tennis, tra Gasquet e Nadal, invece è stata la sua fine. L’unica partita in cui il livello dei due è stato vicino, e hanno potuto dar vita a un match equilibrato. La netta sconfitta al Roland Garros non era un episodio ma il segno che Nadal aveva ormai preso una strada di grandezza che Gasquet avrebbe potuto ammirare solo da lontano. Nelle loro prime partite si sentiva al suo livello. Si allenavano insieme, davano vita a partite equilibrate. Poi però Nadal è cambiato, lui no. Che sensazione deve essere stata?
Da quel giorno Nadal e Gasquet si sono affrontati 18 volte: Gasquet ha sempre perso. Quel set vinto a Montecarlo è stato uno dei tre che è riuscito a strappare al maiorchino. Gli altri due nelle condizioni scomode per Rafa del cemento indoor e del cemento canadese veloce. Uno dei due lo ha comunque vinto grazie a un tiebreak 14-12. Certo, Nadal è Nadal, ma quel 18-0 suona comunque troppo severo. Nel gergo tennistico americano un giocatore che perde sempre contro un certo avversario viene definito “piccione”. Anzi, peggio: viene definito il piccione di qualcuno; ovvero una preda facile da cacciare. Qualche mese fa Ben Shelton aveva citato il termine “daddy”: «tra di noi diciamo che se qualcuno ti batte per tre volte diventa tuo padre». Ecco, diventare il “piccione” di qualcuno è la fase successiva. Si tratta di un livello di squilibrio doloroso e irreparabile. Dopo aver battuto John McEnroe per la prima volta dopo 16 sconfitte Vitas Gerulaitis aveva lasciato ai posteri la frase: «Nessuno batte Vitas Gerulaitis 17 volte di fila».
È una dinamica terribile perché nel tennis il matchup è molto importante, e cioè come si incastrano le tue caratteristiche con quelle di qualcun altro. Come i pregi di un giocatore si incastrano con i difetti dell’altro e viceversa. Ci possono essere combinazioni più o meno esasperate, che però possono cambiare le carriere. Roger Federer, per esempio, aveva un matchup tecnico molto sfavorevole con Nadal, e la comparsa di un giocatore di quel tipo sembrava uno scherzo per la sua carriera. Il gioco di Nadal pareva creato in laboratorio per essere la Kryptonite di quello di Federer.
Gasquet con Nadal ha sofferto problemi simili a livello tecnico tattico, e anche ben peggiori. Soffriva un incastro di caratteristiche sfavorevole, ma anche il semplice fatto di essere un giocatore di caratura inferiore. Sotto tutti i punti di vista. E poi c’era probabilmente un fatto mentale. Per Gasquet scendere in campo contro Rafa col tempo ha assunto pieghe patologiche: «Non ne potevo più e ho iniziato a sviluppare un grosso complesso. Era semplicemente troppo forte e troppo difficile per me». C’era troppa distanza, fisica e mentale, tra i due, prima che tecnica. Una distanza quasi antropologica, e che Gasquet percepiva chiaramente. Lui stesso racconta a l’Equipe, parlando di Nadal: «Anche quando gioca a golf ci mette un’energia fuori dal comune. Negli spogliatoi prima di una partita mette quasi paura. È la persona più concentrata che io abbia mai visto. Una concentrazione estrema, che puoi percepire anche nel modo in cui si annoda la bandana sui capelli».
Gasquet non è diventato il “piccione” di un tennista qualsiasi, ma di quello che lui batteva da ragazzino e con cui è cresciuto. Quello che era circondato da aspettative simili, persino inferiori alle sue. Lo ha battuto una volta, poi due, poi tre, poi dieci, poi diciotto. Nel frattempo quello è diventato numero uno al mondo. Vincenzo Martucci, in un articolo su SuperTennis, ha usato una metafora biblica per parlare della loro rivalità mancata: il leone e l’agnello. Un’immagine efficace se guardiamo alle loro partite. Gasquet non sembra solo perdere, viene sbranato da Nadal, che è più forte, più veloce, più agguerrito. Christopher Clarey sul New York Times usa il termine di “unrivalry” (in quel caso in riferimento alle sfide Sharapova-Williams). La vittoria su Federer a Montecarlo nel 2005 è una delle due ottenute da Gasquet nella loro non-rivalità, con cui è 2-17 nei confronti. Con Djokovic è 3-13.
Decisamente, l’epoca che avrebbe dovuto essere la sua, non lo è stata affatto.
Richard Gasquet era l’eletto per riportare il Roland Garros in Francia, mentre nel 2005, l’anno della loro prima sfida a Parigi, è il primo del lungo regno di Rafael Nadal, che vincerà lo Slam per quattordici volte. Qualcosa di completamente impensabile. Gasquet aveva profetizzato una sua vittoria, ma non immaginava che sarebbe diventato il giocatore per distacco più vincente della storia del torneo. Che quella sarebbe diventata una delle imprese più assurde e inconcepibili della storia dello sport.
Sarebbe ingiusto, e anche poco centrato, sostenere che la carriera di Gasquet abbia vissuto all’ombra di quella di Nadal. O che Gasquet sia un Nadal mancato. Mentre Rafa diventava uno dei giocatori più vincenti della storia del gioco, Gasquet non aveva in lui nemmeno uno specchio su cui riflettere quello che avrebbe potuto essere. Nadal era troppo diverso da lui, troppo più dotato sotto tutti i punti di vista. E probabilmente questa consapevolezza a un certo punto gli ha reso più facile accettare la sua condizione. Non poteva chiedere a sé stesso di competere con uno così.
Il 10 ottobre 2024 Richard Gasquet annuncia il suo ritiro dal tennis. Deve essere un momento di calore e attenzione mediatica, l’ultimo. Poche ore dopo, però, anche Rafael Nadal annuncia il ritiro, e quindi quello di Gasquet passa in secondo piano. Naturalmente non c’è niente di voluto, sono cose che si programmano in anticipo, eppure qualcuno si chiede che bisogno c’era, di mettere Gasquet nell’ombra anche per quell'ultima volta. Non sarà davvero l'ultima.
Questo articolo potrebbe anche finire qui. Ridurremmo la storia di Gasquet a uno schema narrativo romantico e cattivello. Il racconto dell’enfant prodige, del “piccolo Mozart” del tennis, dell’eccessiva attenzione mediatica che lo circonda; e poi la sua caduta per mano del suo rivale da bambino, Rafa Nadal, così diverso da lui in tutto. La loro rivalità fatta apposta per misurare crudelmente la distanza tra ciò che è e ciò che avrebbe voluto essere.
Gasquet che non regge il fallimento, esce nei locali di Miami, bacia ragazze fatte di cocaina, prova a rimettere in piedi la sua carriera, ma il suo gioco resta un relitto fragile, pure se bellissimo, inadeguato a competere.
È un modo affascinante di raccontare la sua storia, ma ingiusto. Riduce Gasquet a un personaggio da consumare, e non afferra secondo me il significato più profondo della sua storia. La prospettiva su di lui andrebbe ribaltata. Non è vero che Gasquet non ce l’ha fatta nonostante quel talento; è vero invece che Gasquet ce l’ha fatta nonostante quel talento.
E cioè, nonostante un gioco bello ma inefficace, nonostante un gap tecnico e atletico con altri tennisti, e nonostante l’equivoco per cui avrebbe dovuto vincere Slam e diventare numero uno al mondo. Nonostante le pressioni mediatiche ricevute, a fronte di possibilità tennistiche più ridotte di quanto si volesse credere, Gasquet ha avuto una bella carriera. È qualcosa che viene tralasciato nel racconto della sua storia, perché costringerebbe a guardare ciò che non è così interessante da raccontare. E che sporca la traiettoria di ascesa e maledizione del suo personaggio. Ha fatto due semifinali a Wimbledon e una agli US Open; ha vinto un bronzo olimpico nel doppio ai Giochi di Londra e una Coppa Davis; è stato numero 7 del mondo. Mi rendo conto, sono risultati che possono essere letti anche sotto il segno del fallimento, ma rappresentano una carriera di alto livello. Avrebbe potuto fare di più? È difficile da dire, anche se per un momento è sembrato possibile. È successo per esempio nel 2007, quando a Wimbledon elimina Roddick ai quarti di finale giocando una delle più belle partite della sua carriera.
Lo statunitense è stato uno dei giocatori più forti su erba di quella generazione, e vince i primi due set facilmente, 6-4, 6-4. La sua palla sembra troppo pesante per l’efebico Gasquet. Roddick era il suo opposto per molte cose, quel modo anti-estetico, rattrappito, di tirare i suoi colpi, eppure una palla con una potenza da artiglieria. Roddick va avanti 4-2 anche nel terzo set. Gasquet si gira verso il suo allenatore, Deblicker, e gli dice “È finita”. Gasquet non ha mai rimontato sotto di due set, non sembra averne il fisico. Quel giorno però il braccio sembra andare da solo. Inizia a infilare vincenti di rovescio. Arriva al tiebreak, dove Roddick ha un record di 19 vinti e 3 persi quell’anno, e lo vince 7-2, giocando un tennis paradisiaco. Cominciano le ore di tennis forse migliori della carriera di Richard Gasquet. Il modo in cui riesce ad assorbire la forza bruta di Roddick, ad ammansirla e a usarla a proprio vantaggio, è un’operazione artistica. Sfodera tutto il repertorio, fa punto in tutti i modi, spesso controintuitivi. Non potere sostenere lo scambio di ritmo con Roddick lo costringe a trovare soluzioni precoci, improvvise, in controtempo col flusso del match. A fine partita i suoi vincenti saranno più di 80.
Dopo quella partita Gasquet trova Federer in semifinale, e viene sostanzialmente distrutto. Il gioco di potenza di Roddick gli consentiva dei trucchi, ma di fronte a Federer era disarmato. Federer aveva i suoi pregi, ma non i suoi difetti. Nel 2021 Gasquet partecipa all’ultima grande prestazione di Roger sul centrale di Wimbledon. È lo sparring partner della sua ultima danza. Ci era sembrato così appropriato, che Federer condividesse il campo con uno dei suoi vari eredi mancati; con uno del suo lignaggio. Il tennis ci era sembrato delicato, Roger ancora in grado di essere competitivo.
Nel 2007 invece Gasquet aveva 21 anni e sembrava sulla buona strada per seguire le orme promesse. A fine stagione si qualifica anche alle Finals. Nel 2008 però ha una crisi di risultati, poi arriva l’episodio della cocaina, che divide la sua carriera in tre fasi. Dal 2005 al 2007 abbiamo Gasquet il bambino prodigio, il piccolo Mozart, che gioca un tennis vario ed estroso; dal 2007 al 2010 il genio maledetto, il talento perduto; e poi dal 2011 in poi un tennista che prova a ricostruirsi su basi più solide, lavora sui propri difetti, migliora la propria condizione fisica e la sua capacità di lottare. Questa nuova fase coincide con l’arrivo di Riccardo Piatti come allenatore, che lo spinge fino al numero 9 del ranking e alla semifinale agli US Open. Un risultato insperato, per un giocatore che non ha mai amato il cemento americano. In quegli anni, nel frattempo, nasce e cresce una generazione di giocatori francesi che avevano la sua età ma non la sua precocità. Nel 2008, mentre lui è in mezzo a una crisi di risultati, Jo Wilfred Tsonga arriva incredibilmente in finale agli Australian Open, Gael Monfils fa semifinale al Roland Garros. Gasquet quindi comincia a sottrarsi dai riflettori, o quanto meno il pubblico francese gli chiede meno cose. Gli oneri sono condivisi. Si parla di “quattro moschettieri”, c’è anche Gilles Simon, che è diverso da lui in tutto.
Nel 2013 Piatti e Gasquet si separano, ma nel 2015 comunque Gasquet vive un altro acuto raggiungendo di nuovo la semifinale a Wimbledon. È un torneo che dimostra ancora una volta l’eternità del suo talento sull’erba. Una superficie che esalta il suo timing, il suo estro, la sua intelligenza. In quel torneo elimina Dimitrov, Kyrgios e Wawrinka. Sono una serie di match di culto, in cui Gasquet si prende lo scalpo di quasi tutti i tennisti “estetici” del circuito. Particolarmente significativa la vittoria su Kyrgios, visto che l’anno prima quello lo aveva battuto agli ottavi annullandogli nove match point, un record nel torneo e un grande manifesto di fragilità per Richard. In semifinale viene eliminato da Novak Djokovic.
Quindi, cosa è andato storto con Gasquet? È una delle questioni più dibattute negli ultimi vent’anni di tennis. Fatevi pure un giro su Google per rendervene conto, esistono decine di topic aperti e partecipatissimi su forum e siti specializzati.
Una delle conclusioni gettonate è “la testa”. Gasquet non avrebbe avuto la testa del campione di tennis. Un concetto un po’ generico dentro cui far entrare diverse cose, tutte presunte. La sua scarsa professionalità, la sua mancanza di motivazioni, l’incapacità di resistere alle pressioni, i suoi scontri con i media, la vulnerabilità nei punti importanti.
È indubbio che Gasquet cedesse alle sue debolezze quando si trattava di tenere o strappare un servizio, vincere una partita già praticamente vinta. Eppure parlare di “mentalità” suona sempre come una scorciatoia, o al contempo un modo per voler trovare una spiegazione più interessante al posto di una più banale. È quello che dice Richard Gasquet, che nei suoi vent’anni di carriera ha dovuto rispondere nelle interviste ai suoi “what if” centinaia di volte. «Dire che è stato un problema di testa è una cosa molto francese. Onestamente, quando perdevamo non c’era un problema mentale. È che giocavano meglio di noi. A livello di intensità, fisico, mentale, erano più forti di noi. È impossibile avere una mentalità debole quando si è in Top-10».
A volte è inutile cercare cause misteriose, ma la realtà talvolta è così semplice che non vogliamo credergli. Gasquet non era abbastanza forte per competere a quel livello di difficoltà senza precedenti nella storia del tennis. Il suo dritto non era certo all’altezza del rovescio. Esagerando, nella sua autobiografia Gasquet ha scritto che non vale i primi duecento al mondo. Il suo servizio era mediocre. La sua prima era ancora accettabile nei primi anni del 2000, quando era ancora un colpo da specialisti, dopo è sembrato inaffidabile. A livello fisico Gasquet non aveva abbastanza doti. Non aveva l’intensità richiesta per reggere i ritmi di un tennis sempre più accelerato.
Guardando la traiettoria di Gasquet si ha la sensazione di un giocatore in ritardo coi tempi. Venuto fuori con almeno sei o sette anni di ritardo. Quando è venuto fuori, nel 2003, il tennis aveva ancora la forma del suo talento. L’arrivo di Federer, e poi di Nadal, hanno alzato il livello dell’intensità fisica e mentale, ma hanno cambiato anche la forma del gioco, che è diventato più urgente, più veloce. Poi è arrivato Djokovic, che lo ha cambiato ulteriormente.
Tutti i giocatori avevano uno sbilanciamento deciso fra dritto e rovescio. Lo notò anche Federer qualche anno fa, dicendo che la differenza del tennis attuale è che tutti tirano forte da entrambi i lati, mentre nel tennis della sua epoca trovavi una vulnerabilità nel gioco avversario, o almeno un angolo su cui poggiarti. Anche per questo lo stile di gioco era spesso più vario: i giocatori erano costretti a girare attorno ai propri limiti, gestendo una geometria asimmetrica del campo, e trovando soluzioni molteplici. In più gli scambi erano più lenti. Non c’era l’idea di ridurre tutto a sequenze di servizi e dritti; o meglio: non c’era l’idea di strozzare di pressione gli avversari. Il tennis in cui è nato e cresciuto Gasquet aveva ritmi più compassati, costruzioni del punto più manovrate, in generale più attesa, più pazienza. Rispetto ai giocatori di oggi, a guardare le partite di Gasquet di ieri, ci pare un giocatore passivo. Solo che gli avversari hanno cominciato a essere diversi davanti ai suoi occhi. Mentre lui era ancora un tennista degli anni novanta, il suo rivale diretto, Rafael Nadal, diventava un tennista del futuro. E poi hanno cominciato a venire fuori altri corpi eccezionali, altri tennisti potenti e frenetici. Quando aveva 19 anni, nel 2005, e perdeva da Nadal in tre set, Gasquet già somigliava a un relitto del passato, e ha continuato ad attraversare il tennis emanando quelle inconfondibili vibrazioni di anacronismo. E più il tempo passava, più il suo tennis era incongruo, un caso perverso che fosse ancora lì.
Dire che il tennis è diventato più veloce non significa solo che si tira più forte. Sono cambiati i corpi, sono cambiate le tecniche, ed è cambiata la forma e la sintassi dello scambio. I punti nel tennis hanno cambiato forma.
Nella prefazione alla sua autobiografia, Nadal ha dato una descrizione perfetta del gioco di Gasquet: «Quello che mi ha sempre colpito di Richard Gasquet era il suo stile di gioco old-fashioned. Mi piace il suo gioco perché sa davvero come si gioca a tennis», e questa ci può sembrare una cosa banale da dire, ma Nadal si riferisce a un concetto diverso e più elaborato di quello che usiamo sempre: «Credetemi, questo non ha niente a che fare col colpire la palla e vincere il punto. Nel tennis moderno tutti i giocatori cercano di vincere il punto provando vincenti da tutte le posizioni. Richard coltiva uno stile classico di tennis. Può andare a rete, rallentare, liftare, coprire il campo con pazienza oppure far esplodere i colpi. In breve, Richard sa come si costruisce un punto su qualsiasi superficie».
Quello che sta dicendo Nadal è che Gasquet pensa il tennis in modo completamente differente dai tennisti che vediamo oggi. Ha un’idea forse più raffinata, sicuramente più studiata e riflessiva, del tennis. Un gioco che non ha molto a che fare col colpire la palla ma col disegnare il campo, giocare con effetti e geometrie. Un tipo di tennis che però è stato strozzato brutalmente dalla velocità del gioco. Quando si è trattato di provare a stare al passo con l’intensità fisica, tecnica e mentale dei suoi avversari, Gasquet non poteva competere. Magari è solo una mia impressione, ma provate a guardare la partita tra Federer e Nadal a Miami nel 2004. Ditemi se Nadal non vi sembra un giocatore diverso da quello che sarà solo uno o due anni dopo. Un giocatore più “all-around”, come si dice in gergo, che costruisce il punto in modo meno urgente, che viene molto più spesso a rete. Federer è cresciuto con la stessa idea di tennis di Gasquet, ma il suo talento biomeccanico e cognitivo gli permetteva di giocarlo a velocità inarrivabili per gli altri. Poi è arrivato Nadal, e l’intensità si è alzata ancora, poi è arrivato Djokovic e il gioco è cambiato. Quello che ricorre, nelle interviste di Gasquet, è la rapidità con cui questi giocatori sono progrediti. Ha detto, in un’intervista, che loro in un anno riescono a migliorare più di quanto un tennista normale possa fare in un’intera carriera. Lui non ha avuto quella capacità di migliorare e di progredire, ma non perché non fosse abbastanza “mentalizzato” per farlo, ma perché non ne aveva le capacità. La competizione era troppo alta. Alcune delle più importanti sconfitte della carriera di Gasquet sono arrivate per mano di giocatori che non poteva battere. Sulla sua superficie preferita, l’erba, aveva di fronte Federer, ovvero il giocatore che detiene il record di vittorie a Wimbledon, e poi Djokovic, che è il secondo giocatore con più vittorie a Wimbledon.
Vederlo giovedì in campo con Jannik Sinner, al Roland Garros, è stato brutale, qualcosa che non avrebbe dovuto succedere. Si sono incrociati due tennisti separati da 15 anni, ma dentro cui il tennis ha avuto un’accelerazione quantica. È stato come vedere un uomo col fioretto combattere uno con i missili subsonici. Uno spettacolo spietato, e a tratti pure esotico. Del resto lo ha riconosciuto anche lui in un’intervista al tavolo con Goffin e Mannarino: «Sono arrivato nel tennis che c’erano Santoro e Agassi e ora c’è Mensik». Non è solo che il tempo è passato, ma gli esseri umani sono cambiati profondamente. Santoro e Mensik non sono la stessa specie.
Domenica Rafael Nadal ha dato l’addio al Roland Garros con una cerimonia emozionante. In campo con lui c’erano i suoi rivali di sempre per salutarlo. Non c’era Richard Gasquet, che il giorno dopo avrebbe dovuto giocare la sua partita di primo turno contro Térence Atmane. Avrebbe potuto essere la sua ultima partita in carriera, e anche in quel caso il suo addio sarebbe stato leggermente oscurato dalla cerimonia ancora fresca dedicata a Rafa. Gasquet, però, si è rifiutato di perdere e ha prolungato la sua carriera ancora per qualche giorno. Si è concesso un’ultima partita contro il numero uno al mondo, e uno stadio tutto lì per salutarlo.
Ci affezioniamo a questi eroi sportivi e ci stringiamo a loro anche di più nel loro fallimento. Anche se in quel momento magari pensiamo e diciamo cose cattive. Quando si arriva alla fine della storia le emozioni che abbiamo accumulato negli anni tornano in superficie. Guardando Gasquet con la barba sfatta, i capelli radi, il viso rugoso, stanco dopo aver vinto una partita al Roland del 2024, con gli occhi bagnati come gli anziani emotivamente incontinenti. E ci sentiamo vicini a lui in un modo inspiegabile, persino stupido.
Gasquet ha perso contro Sinner e ha così giocato la sua ultima partita di tennis. Ogni suo rovescio somigliava sempre all’ultimo rovescio lasciato al mondo. Poi ha salutato visibilmente emozionato, accanto a lui c’era l’impronta del piede destro di Rafael Nadal, che rimarrà per sempre impressa sul Philippe Chatrier. Dopo la partita Rafa ha dedicato un post a Richard. Un post semplice, in cui si diceva contento di aver condiviso con lui così tante partite, tornei, città. Una foto accompagna il post. Richard e Rafa hanno 17, forse 18 anni, la schiena dell’uno appoggiata su quella dell’altro, mentre guardano la macchina fotografica sorridenti e un po’ furbi, il leone e l’agnello.