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Gli alti e i bassi di Ricardo Centurion
25 mar 2019
La storia di uno dei talenti argentini più divisivi degli ultimi tempi.
(articolo)
15 min
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Il 19 Agosto 2012, quando scende in campo per giocare il suo primo Clásico di Avellaneda tra i professionisti, Ricardo Adrián Centurión ha 19 anni, 180 minuti di esperienza e già un gol in Primera, segnato la settimana prima al Diego Armando Maradona, lo stadio dell’Argentinos Junior. L’allenatore dell’Academia che sceglie di puntare su di lui si chiama Luis Zubeldía ed è sulla panchina del Racing da un paio di mesi, cioè da quando ha sostituito Alfio Basile. È un tecnico giovane, con idee fresche e sfrontate, e nella sua squadra intuisce lo spazio per l’esplosione di questo talento grezzo, una perfetta incarnazione del pibe cara sucia uscito dalla Tita con una voglia incommensurabile di mangiarsi il mondo. Al suo fianco, tra i titolari, c’è un campione del mondo, Mauro Camoranesi, e una mezza leggenda del calcio bonaerense, Pepe Sand.

Se l’espressione «mandare al manicomio gli avversari» vi è sempre sembrata un po’ esagerata, forse dovresti vedervi il video di cosa ha combinato quel pomeriggio d’agosto Centurión contro l’Independiente.

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Ogni volta che punta il diretto l’avversario, l'atmosfera diventa elettrica, come prima di una rissa. Si "mangia vivo" Morel, causandone l’espulsione. Il telecronista sbaglia anche il suo nome, lo confonde con Emanuel Centurión, un onesto mestierante passato anche per lo Stoccarda in Europa. Nel secondo tempo fa prendere un giallo a Vargas, poi un altro a Russo costretto a placcarlo con un gesto troppo plateale per essere giustificato, anche dopo aver visto il trick con cui Centurión ha umiliato Tuzzio poco prima. Infine si va a conquistare con caparbietà un pallone che sembrava perso e segue tutta l’azione fino a consegnare a Sand l’assist per il 2-0. Alla fine della partita, dei sei cartellini gialli rimediati dai Diablos Rojos cinque saranno imputabili direttamente all’inafferrabilità di Centurión.

Un altro Clásico vinto

Sette anni più tardi, qualche settimana fa, il Racing ha vinto ancora una volta un Clásico. È stata una vittoria molto importante, perché - a cinque giornate dal termine della Superliga - ha permesso all’Academia di allungare sul Defensa y Justicia (oggi il Racing ha quattro punti di vantaggio sul DyJ, il che significa che potrebbe laurearsi campione anche prima dello scontro diretto all’ultima giornata). Il Racing non vince un titolo dal 2014: allora c’erano un altro campione del mondo, anche se per club, cioè Diego Milito; e ovviamente Ricardo Centurión, che con un gol al Godoy Cruz su quel titolo mise il sigillo. Oggi “el Principe” è il direttore sportivo del Racing, e Centurión - ancora lui - il suo diez. In campo per il Clásico, però, Centurión non è sceso. Ufficialmente, dall’11 Febbraio, Ricardo è una persona non grata. Si allena con la squadra delle riserve, ma è ufficialmente fuori rosa. Il ct, Eduardo Coudet, ha detto che finché lui siederà in panchina, Centurión non scenderà mai più in campo.

Per capire il perché di tanto astio dobbiamo tornare al 10 Febbraio, quando il Racing perde malamente al Monumental contro il River. A una ventina di minuti dalla fine, Coudet richiama Centurión dalla panchina. Si avvicina per dargli indicazioni mentre il giocatore si aggiusta l’elastico dei pantaloncini, con lo sguardo basso. Non lo guarda in volto neppure una volta, dà quasi l’impressione di non stare neppure ad ascoltarlo. Poi, di punto in bianco, gli mette una mano sul petto e lo allontana da sé. Cos’è peggio, quando un calciatore si rifiuta di entrare o di uscire? Centurión, alla fine, in campo ci va. Quando il martedì successivo, al centro d’allenamento, cercherà Coudet per porgergli le sue scuse, il “Chacho” si rifiuterà anche di riceverlo. Qualche giorno più tardi Centurión invia un telegramma chiedendo che se c’è una punizione, allora che gli venga almeno notificata ufficialmente.

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Dopo quel primo sfavillante Clásico, la carriera di Ricardo Centurión è stata una commedia dell’arte in cui sono andati in scena tutti gli stereotipi possibili del giovane calciatore argentino che proviene dalla miseria: la riconoscenza per le origini e la successiva rinnegazione; il talento dal nitore abbacinante che scema, diluito da una totale assenza di professionalità; le frequentazioni scomposte e gli endorsement prestigiosi; la gloria cercata (senza fortuna) in Europa e trovata (ma effimera) in patria, in una delle due grandi squadre di Buenos Aires (nel suo caso, il Boca). Infine, l’eterno ritorno: al Racing. Che è quanto di più vicino all’idea di casa. Che si è trasformato in quanto di più vicino al concetto di prigione.

Quella famosa storia del ragazzo che puoi togliere dal barrio senza però togliere il barrio dal ragazzo, quanto è vera?

Al centro della piazza c’è questa porta sgangherata, una statua della Vergine, un parco giochi arrugginito; tutt’intorno un centro culturale chiuso, una mensa sociale comunitaria e case basse dalla consistenza di un diorama. Di fronte agli usci, galline. Alle loro spalle vecchie fabbriche occupate, dalle cui finestre, ad alto volume, esce il suono della cumbia mescolandosi al fumo dei choripan consumati per strada, una birra nell’altra mano.

È Villa de Luján, un caseggiato alla periferia di Parque Avellaneda, il cui confine è delimitato dal fiumiciattolo Sarandí. Il posto in cui è nato Ricardo Centurión, un posto in cui il problema è che di quattro ragazzini che vedi all’angolo, grasso che cola se se ne salverà uno. Per uno che emerge ne rimarranno sempre tre che finiranno in prigione, o sotto terra.

Nel barrio Centurión è cresciuto giocando, come molti altri, il calcio del potrero, quello dei campi dissestati, per soldi: c’era sempre qualcuno disposto a versare la sua quota per averlo in squadra, era un investimento sicuro. Lui affrontava con il coraggio degli incoscienti queste partite in cui volavano gran calci in petto. Niente lo spaventava. Ricardo, dopotutto, ha perso il padre quando aveva cinque anni. Lavorava in nero in una fabbrica illegale di fuochi d’artificio: un giorno è esplosa, sono morti tutti e sette gli impiegati, compreso il padre di Ricardo. La madre era tutto il giorno fuori, lavorava come cameriera ai piani all’hotel Sheraton e arrotondava in un laboratorio tessile. A crescerlo è stata la nonna Yaya, una figura molto conosciuta nel quartiere, grande fan del Racing. È stata lei la prima ad accompagnarlo ai provini di baby footbal a Villa Dominico prima, al Tita poi. Il “Tita” è il centro sportivo delle giovanili del Racing. È intitolato a Titta Mattiussi, storica tenutaria della pensione (e della lavanderia) del club. Una specie di madre sostitutiva. Una specie di Yaya.

Un bel motivational che potrebbe anche essere il testo di una cumbia villera.

Del suo barrio, il “Wachiturro” - il soprannome di Centurión, che ha a che fare con la cumbia villera, un genere musicale che mescola sintetizzatori a testi pieni di gergalismi e lunfardo, una specie di tango ma più zarro - conserva le stimmate ineludibili. La frase che si trova spesso dipinta sui muri delle ville più misere, «mi cara, mi ropa y mi barrio no son delito» (la mia faccia, i miei vestiti e il posto da dove vengo non sono un delitto), per Centurión non vale, perché la sua faccia, i suoi vestiti e Villa de Luján sono esattamente il motivo per cui l’idea che il pubblico si è fatto di lui è così stratificata e connotata negativamente. Anche se ogni settimana trentamila persone tifano per lui dalle gradinate del Cilindro, Centurión resta sempre il tipo che con un cappuccio in testa, in giro per Parque Palermo, solleverebbe più di un sospetto.

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Uno che balla la cumbia alla sua presentazione.

«Mi piacciono le armi», ha detto una volta. Sul web girava una sua foto in costume da bagno, imbracciava un fucile. «Però non ho mai commesso un delitto», si è giustificato poi. Cosa ci dice di un calciatore una sua foto con un fucile a pompa tra le mani? Probabilmente niente. Serve solo come giustificazione, a posteriori, per i suoi insuccessi. Per la sua incostanza. Per i suoi colpi di matto. Come se il barrio, anziché smuoverne gli istinti di sopravvivenza più nobili, gli avesse pitturato attorno un carapace inscrollabile. «Se fossi cresciuto in un quartiere pieno di yacht», ha aggiunto poi, «magari mi sarei fatto delle foto con gli yacht».

Maglia numero dieci, nato in una villa miseria… chi ci ricorda?

Anche se poi è finito per tornarci, c’è stato un periodo in cui Ricardo Centurión ha ammesso di non voler mettere più piede nel suo quartiere. «Perché c’è troppa invidia», ha detto. «E perché non sono che un simbolo del dollaro che cammina» (ok, ha detto “segno dei pesos”, ma il significato è lo stesso).

In questo, Ricardo è molto diverso da Carlitos Tévez, che a Fuerte Apache, invece, torna ogni volta che può. Là c’è a sua microcomunità, il centro di gravità permanente delle sue certezze. La carriera di Centurión, invece, è centrifuga: a Brandsen 805, l’indirizzo della Bombonera, non ci è arrivato per coronare un sogno. Alle spalle aveva già un’esperienza discretamente negativa in Europa, al Genoa, e una in Brasile. Gli xenéizes l’hanno riportato in Argentina per provare a vedere se il talento, casomai, fosse ancora lì, magari bastava tirarlo semplicemente un po’ a lucido, spolverarne gli angoli con la manica.

Foto di ALEJANDRO PAGNI/AFP/Getty Images

Da Tévez ha ereditato la maglia numero dieci, alla sua seconda stagione con il Boca. E la maglia numero dieci del Boca è fatta di una fibra diversa dalle altre, a contatto con la pelle si fa incandescente. Centurión l’ha indossata con la faccia tosta degli egotici profondamente innamorati di se stessi, dell’idea che incarna il loro tipo di gioco. L’ha indossata per un semestre e onorata: per prendersela ha rifiutato una seconda chance in Europa. E onorare la maglia del Boca, in fondo, significa poche cose, ma tutte importantissime, tra le quali segnare un gol al River.

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Nessun modello

Ai tempi del Boca ha fulminato anche Roberto Baggio, che si è sentito in diritto di fare il suo nome, in un’intervista del 2017, in risposta a una domanda su chi potesse essere il suo erede. A differenza di molti calciatori con la sua stessa testa, il suo stesso asset di valori, la sua stessa maniera di scendere in campo, Centurión ha una caratteristica abbastanza unica nel suo genere: non crede nel valore formativo dei modelli. «Le possibilità a casa mia erano già poche, non si potevano vedere le partite perché a quell’epoca si pagava, e non potevamo permettercelo». I giocatori, dice, ha imparato a riconoscerli, a copiarne i movimenti, per come li vedeva giocare alla Playstation.

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Y ahora estamos aquí , seguimos aquí yo soy intocable como Pablo en MEDELLÍN brindemos por los puntos que tenemos , brindemos por los triunfos que metemos 🥂

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Riferimenti culturali.

«E sai che c’è? Se io gioco in questa maniera è perché sono in questa maniera. Sono arrivato fin dove sono arrivato giocando così, non credo di cambiare ora».

Qualcosa, con il tempo, invece è cambiato: fuori dal campo, innanzitutto, dove qualche angolo del carattere si è smussato, l’esplosività fumantina ha lasciato posto alle dichiarazioni intime, rilasciate con un filo di voce. «Le opportunità che mi sono fatto sfuggire… sempre colpa mia. Sono stato un cretino a fare un sacco di cose che non dovevo fare. E me l’hanno messo al culo (sic). Ho fatto un sacco di cazzate, lo ammetto». L’unico simulacro simile a un modello, sua nonna: ha confessato di aver pensato a lei, per prima, dopo ogni colpo di testa. «Perché io potevo anche sopportarle le critiche, spegnere la televisione. Ma mia nonna no».

Il Racing ha sviluppato uno dei modelli di gestione del settore giovanile più interessante del panorama sudamericano. Gli osservatori reclutano i più interessanti giovani talenti per farne «calciatori che servono al Racing, e che l’Europa possa desiderare». In un contesto del genere, un role model che possa ispirare il percorso di crescita dei più giovani è fondamentale, e spesso sono gli stessi ragazzi a cercarlo nei calciatori più entusiasmanti, più iconici, semplicemente in chi indossa le maglie più significative.

«Sono tutto tranne che un punto di riferimento per i ragazzi», dice Centurión. «Poi che c’entra, se mi incrocio con un ragazzino magari gli racconto la mia esperienza. Mi piace andare al Tita perché là puoi vedere nascere lo spirito di appartenenza».

Si nasce e si muore con la stessa maglia?

Gli sgoccioli della sua avventura col Boca sono stati, come dire, tossici. La volontà di rimanere era unilaterale. Arrivò addirittura a minacciare di ritirarsi, se non avesse ottenuto il rinnovo del contratto.

In effetti, quel rinnovo non arrivò mai. Arrivò però qualcosa di - forse - più importante: l’ennesima chiamata del Racing. Al Cilindro erano disposti a dimenticare il suo passato, le sue vicessitudini, ad accoglierlo come si fa col figliol prodigo di ritorno da giri immensi. Diego Milito gli ha consegnato la maglia numero 22, una maglia che non sarebbe mai più dovuta uscire dalla teca nella quale il Racing l’avrebbe dovuta rilegare dopo il ritiro del Principe.

«Se devo scegliere uno, scelgo Centurión tutta la vita», disse poco prima della sua presentazione.

Foto di Agustin Marcarian/Getty Images

Se in quest’operazione Centurión avrebbe dovuto scorgere della riconoscenza, beh: non l’ha fatto. L’anno successivo, cioè per la stagione in corso, ha chiesto di poter indossare la 10. Gliel’hanno concesso, insieme alla prima fascia di capitano, alla terza contro il Patronato. Una fascia arrivata dopo sole 75 partite con la maglia albiceleste del Racing. Uno dei processi di costruzione del mito più rapidi ed efficaci (facilitati, va detto, anche dal senso di appartenenza) che mi venga in mente.

Centurión oggi non è più il giocatore iperverticale e rapidissimo degli esordi. Ha acquisito - per quanto possa sembrare controintuitivo affermarlo - una certa cerebralità. Non ha perso il vizio del dribbling: soltanto, cerca di effettuarne di più funzionali. Se prima era più vistoso, più destabilizzante, oggi è più pragmatico. E forse più concreto.

Mentre scrivevo questo pezzo ho trovato un video su YouTube molto interessante, si intitola «Quando Ricardo Centurión abusa della Magia», vale dieci minuti del nostro tempo e una riflessione un po’ più lunga a seguire: su quale aspetto dovremmo concentrarci di più? Perché agli occhi salta subito la Magia, ma forse la vera sfumatura dirimente per una comprensione di quanto Centurión faccia ricorso alle sue abilità tecniche sta nella parola “abuso”.

In questo video, in effetti, Centurión fa davvero dei trick pazzeschi, gesti umilianti per l’avversario ed esaltanti per lui, tutto un campionario di elastici doppi passi ruletas e veroniche che però si concludono in nulla. L’abuso è sempre molto deprimente, perché invalida gli sforzi fatti. Allo spettatore resteranno negli occhi i fotogrammi di un gesto che l’ha fatto alzare dal suo seggiolino. Ma nella memoria a lungo termine, giocate che non hanno ripercussioni dirette e sostanziose sul risultato finale - o almeno nella costruzione dei gol - finiranno per rimanere impresse per sempre?

Accarezzala, e punta l’uomo

Uno dei trucchetti per i quali francamente impazzisco di più quando vedo Centurión farli, ovviamente, è quel tipo di giocata che spesso Ricardo utilizza quando punta l’uomo sulla fascia: addomestica il pallone carezzandone la curva superiore con la suola della scarpa più volte, un controllo ipnotico che termina repentino appena si aprono gli spazi utili per affondare con uno scatto, lasciandosi alle spalle l’avversario dribblato.

Una giocata che potremmo distillare in un claim di due parole, “Pisala y encara”: le stesse due parole che fanno capolino, mentre l’Argentina sta giocando (male) la partita d’esordio al Mondiale di Russia con l’Islanda, in un tweet di Centurión.

A questo Mondiale Ricardo teneva un casino. Sampaoli, un po’ a furor di popolo un po’ prestando ascolto alla voce della meritocrazia che in quei giorni non faceva che sussurrare le parole Ricardo e Centurión, lo inserisce nella lista dei 35 preconvocati, salvo poi tagliarlo all’ultimo. Se l’infortunio di Manuel Lanzini fosse giunto prima, forse in Russia Centurión sarebbe finito per andare. Invece, finì per trovarcisi Enzo Pérez.

Nella scorsa edizione della Libertadores, quando River e Racing si sono trovate l’una di fronte all’altra agli ottavi di finale, Pérez - con il River in vantaggio - lo ha provocato: «pettinala adesso, se ci riesci». I due sono quasi venuti alle mani, e sono stati entrambi espulsi. Mentre usciva dal campo, Centurión ha mimato al pubblico del Monumental il numero 4 (la quarta rete segnata in un SuperClásico vinto in casa del River), poi si è dipinto sul petto la banda degli xenéizes. Guadagnandosi una denuncia per istigazione alla violenza.

Foto di Marcelo Endelli/Getty Images

La provocazione è un gesto centrale nella comprensione del personaggio Centurión nella misura in cui non riesce mai a rimanere circoscritta negli argini del calembour, ma finisce sempre per degenerare. Ovviamente dipende dall’alta considerazione di sé che ha il diez dell’Academia: «Sopra me non c’è nessuno, e non sopporto neppure l’idea che qualcuno possa arrivarci». Quando dice una frase del genere, Centurión include nel calderone tutti: avversari, tecnici, forse addirittura se stesso. In qualche modo non riesce a scendere a patti con l’idea che la fotografia migliore della sua carriera appartenga al passato.

Un tweet enigmatico, postato quattro giorni dopo il litigio con Coudet e nel giorno di San Valentino, come una dichiarazione d’amore per la squadra che più ha fatto per lui. Senza necessariamente che accadesse il contrario.

«Il peggio che possa succedere a un calciatore» ha detto «è giocare in un club al quale è affezionato, in cui è nato, e trovarsi invischiato in una lotta al ribasso, a dover vedere se riesce a rimanere in Primera».

Il Racing, invece, è davvero vicinissimo al suo secondo titolo in un lustro. E Ricardo Centurión non potrà togliersi lo sfizio del giro di campo celebrativo al Cilindro.

Coudet ha detto che «bisogna portare rispetto alla storia del Racing. Niente e nessuno gli è superiore».

Qualche giorno dopo questa frase, Centurión ha twittato questa foto.

«Solo a te». Cosa sta cercando di suggerirci, Ricardo?

Che è solo alla tifoseria e ai colori del Racing, che ne contornano la figura coatta, con le gambe allargate e ben piantate nel terreno, che deve portare rispetto?

O lo sguardo verso l’alto ci vuole suggerire che se davvero esiste qualcosa di superiore a Ricardo Centurión, oggi e sempre, non è su questa terra che dovremmo cercarlo?

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