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La Perla di Utrera
04 giu 2019
04 giu 2019
Che ricordo ha lasciato José Antonio Reyes.
(articolo)
6 min
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Sabato mattina sull’autostrada per Siviglia la macchina guidata da José Antonio Reyes ha sbandato, mentre viaggiava ad altissima velocità, uccidendolo. Il calciatore stava tornando a casa dopo l’allenamento con la sua attuale squadra, l’Extremadura in Segunda B. Aveva solo 35 anni e giocava ancora a calcio perché era la cosa che amava fare.

Le decine di messaggi d’affetto di colleghi e compagni di squadra arrivati nelle ore successive sembrano tutti volersi soffermare sulla sincerità del suo sorriso, sul modo semplice con cui affrontava la vita. Effettivamente a guardarlo da fuori Reyes era sempre sembrato un ragazzo di poche parole, forse anche timido, con occhi profondi e un sorriso sincero disegnato sul viso quando aveva un pallone tra i piedi.

La sua è stata una carriera di successo, lanciata da un talento naturale evidentissimo che lo ha reso il più giovane debuttante della storia del Siviglia e probabilmente il più forte giocatore che la squadra spagnola abbia mai tirato fuori dalle sue giovanili.

Ha lasciato giovanissimo la sua squadra del cuore, perché in grave situazione economica. Quando il suo trasferimento all’Arsenal si stava concretizzando, i tifosi del Siviglia protestarono con forza, avendo ancora negli occhi l’incredibile prestazione della loro Perla contro il Real Madrid dei Galacticos, che aveva distrutto con un gol e due assist.

Si dice che all’epoca del suo trasferimento Reyes avesse insistito affinché neppure il suo agente prendesse delle commissioni dal suo trasferimento, affinché tutti i 20 milioni andassero nelle casse della squadra in cui era cresciuto. Resta il fatto che per il presidente Del Nido: «è stata la cosa più triste che abbiamo mai dovuto fare».

Reyes arrivò a Londra appena ventenne e con le credenziali perfette per l’Arsenal di Wenger. Come disse all’epoca della presentazione lo stesso allenatore: «Abbiamo un gioco basato sul movimento, la tecnica e la velocità. Reyes ha tutte queste cose e l’abbiamo seguito per un anno». Nel Siviglia giocava come ala sinistra, ma con le sue caratteristiche sembrava poter giocare davanti, in coppia con Henry. Aveva un’impressionante tecnica in velocità, le sue specialità erano l’ultimo passaggio arrivando in corsa e un tiro secco e preciso col sinistro che era in grado di renderlo pericoloso da qualunque zona del campo.

https://twitter.com/Arsenal/status/1134859666352168960

Reyes non si è però mai ambientato a Londra. Era partito senza sapere l’inglese e per quanto possa sembrare uno stereotipo dell’andaluso, gli mancava il sole: «La famiglia è la cosa più importante per me. Eravamo infelici a Londra, io ero molto cosciente del fatto che non ci eravamo ambientati.» Non ha aiutato il fatto di essere arrivato nel mercato di gennaio, nel periodo più intenso della stagione inglese. Il suo impatto però è rimasto indimenticabile, per l’Arsenal e i suoi tifosi, perché arrivato nel momento più alto dell’esperienza Wenger.

Grazie anche al suo apporto è arrivata la Premier League vinta da imbattuti, quella storica degli Invincibili. Reyes segnò due gol nelle ultime due partite della stagione (1-0 al Fulham e 1-1 al Portsmouth) fondamentali per quel record che ancora resiste. Ma il suo segno rimane anche sui 49 risultati utili consecutivi e la scalata fino alla finale di Champions League nel 2006, in cui è stato titolare in tutte le partite meno due, di cui una è proprio la finale contro il Barcellona.

Il talento per diventare l’erede di Bergkamp era evidente a tutti, ma proprio il non essere considerato un titolare nella partita più importante della carriera divenne la causa scatenante del suo addio: «Giochi tutte le partite della Champions League e vieni lasciato fuori per la finale. Ho mancato la partita più importante della mia carriera. È stato molto duro».

L’addio all’Arsenal concise con la seconda parte dell’esperienza Wenger, quella del nuovo stadio ma anche della stagnazione. Forse per questo Reyes nella mente dei tifosi dell’Arsenal è e sarà sempre associato a qualcosa di breve, ma intensamente bello. Di un futuro promesso che non si è mai manifestato, ma che ha comunque aiutato a costruire un triennio indimenticabile.

Se la partita era quella giusta, l’unico modo per fermarlo era letteralmente buttarlo giù, come quella volta in cui Scholes ha provato a spezzargli una caviglia a centrocampo o quell’altra in cui Gary Neville lo ha abbattuto al secondo tunnel subito in partita. Il trattamento degli avversari non è certo stato leggero, ma forse questa è stata la più grande manifestazione per capire il livello del suo talento. Il Manchester United di Ferguson con Reyes si riduceva a cercare la sua gamba, perché non arrivava al pallone.

Bisogna dire che le storie di redenzione sono quelle più soddisfacenti e per fortuna la Perla di Utrera ha avuto la sua redenzione. In carriera ha vestito le maglie di alcune delle squadre dell’aristocrazia europea - Arsenal, Real Madrid, Atletico Madrid e Benfica - oltre ovviamente a quella della sua Nazionale. In ogni squadra è riuscito a lasciare una traccia, magari senza mai riuscire a scrivere il proprio nome tra i protagonisti indiscussi. Certo alcuni momenti sono indelebili: la doppietta che ha certificato il titolo della Liga per il Real Madrid di Capello nel 2007; il suo primo gol con il Benfica, di punta esterna dal vertice sinistro dell’area nel suo primo derby contro lo Sporting nel 2008; il gol con l’Atlético nella vittoria nella Supercoppa Europea contro l’Inter post triplete nel 2010.

Tuttavia quel talento è sempre sembrato promettere più di quanto poi si è effettivamente visto. Per dire: Reyes era l’attaccante esterno più tecnico della generazione d’oro del calcio spagnolo (quella dei nati negli anni ’80), ma la sua carriera con la Spagna si è fermata al Mondiale 2006, dopo il quale è stato uno degli epurati di Aragonés. Reyes ha giocato la sua ultima partita con la Spagna, la ventunesima, ad appena 23 anni.

Come scritto nel necrologio del Periódico da Axel Torres: «Reyes non ha fatto parte della nazionale che ha alzato tre titoli, però è appartenuto sicuramente alla generazione che ha creato l’ecosistema senza il quale quei titoli non si possono comprendere». Per questo lui lo definisce un giocatore “culturale”, un giocatore che rappresenta l’immaginario di centinaia di ragazzi che crescono giocando a pallone per le strade andaluse: «perché rappresentò la sua terra e la sua allegria, perché incarno il senso gioioso del calcio, perché ha intrattenuto senza pensieri, perché giocò come si giocava per strada e perché il suo comportamento in campo non fu mai impostato, ma si abbeverava alla tradizione del ragazzino che si diverte con i dribbling, con una conduzione e una finta mancina».

Il cerchio della carriera di Reyes si è chiuso nel migliore dei modi, perché se anche il suo talento precoce sembrava dovesse portarlo ai vertici del calcio europeo, il suo sogno è sempre stato quello di diventare il simbolo della squadra per cui tifava e di guidarla verso i trionfi che meritava. Un sogno realizzato dieci anni dopo, vivendo da simbolo prima e da capitano poi il momento più bello della storia del Siviglia, alzando tre Europa League consecutive (che con le due dell’Atlético lo fanno diventare il giocatore ad averne vinte di più). E forse non c’è un miglior ricordo di Reyes che quell’immagine iconica che lo vede alzare il trofeo davanti alla sua curva, con la fascia da capitano al braccio.

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