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Fabio Severo
Review: la stagione tennistica 2014/15
03 dic 2014
03 dic 2014
Tra vincitori imprevedibili e i soliti noti è stato un anno movimentato per il tennis.
(di)
Fabio Severo
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La nuova stagione tennistica inizia nei primissimi giorni del 2015 con un grappolo di piccoli tornei, due settimane che servono soprattutto come preparazione per l’inizio dell’Australian Open (19 gennaio), il primo slam dell’anno che domina la seconda metà del mese. Per quanto l’off-season del tennis sia forse la più breve di tutto il mondo sportivo, arrivo comunque all’inizio del nuovo anno sempre famelico, ormai disabituato agli incontri in diretta e affascinato dal restyling dei giocatori, che si presentano con rendimenti imprevedibili, nuovi tagli di capelli e nuovi completi, cresciuti o invecchiati come se quei due mesi scarsi contassero sui loro volti come un anno intero. Il 2014 del tennis maschile è stato un anno di conferma delle gerarchie ma anche di rottura col passato: vincitori imprevedibili si sono affiancati ai consueti dominatori del tour, un’alternanza che forse sta soltanto a indicare che il tempo passa per tutti e che gli avvicendamenti, per quanto lenti e graduali, a un certo punto devono accadere per forza.

 





 

Nel 2013 è stato il migliore dei secondi, quest’anno ha vinto per la prima volta uno slam, un Masters 1000 (Montecarlo) e la coppa Davis, la prima di sempre per la Svizzera. In una sola stagione ha raccolto quello che pochissimi ottengono in tutta la carriera, e chiudendo al quarto posto della classifica mondiale. Ancora più sorprendente se si considera come per lunghi tratti della stagione Wawrinka sia tornato il giocatore incostante e mentalmente fragile del passato: diverse sconfitte con avversari inferiori, tra cui l’uscita al primo turno del Roland Garros, pur avendo vinto sulla terra battuta la maggior parte dei suoi titoli. In semifinale alle ATP Finals perde una delle partite più belle della stagione contro Roger Federer sprecando quattro match point, una settimana dopo in Davis batte Jo Wilfried Tsonga giocando come non faceva dalla vittoria a Melbourne. Quando Wawrinka sta bene può vincere contro chiunque tirando 15-20 rovesci vincenti

, numeri a cui non arrrivano neanche Roger Federer o Richard Gasquet, i

più celebrati insieme a lui. Wawrinka è l’esempio più eclatante del bizzarro invecchiamento del tennis contemporaneo, raggiungendo a 29 anni il picco della sua carriera, a confronto i risultati di qualsiasi sua annata precedente sono così modesti da sembrare quelli di un altro giocatore. Nel 2015 potrebbe vincere ancora, i complessi di inferiorità e le insicurezze ormai ritornano solo a sprazzi, e la sua esultanza con

come a dire “pensaci, resta concentrato” rimane la più bella da celebrare.

 





 

Comincia l’anno vincendo a Doha e poi arrivando in finale a Melbourne, dove perde da Wawrinka anche perché abbandonato dalla schiena dal secondo set in poi. Si infortuna al polso destro a fine luglio e salta i Masters 1000 di Toronto e Cincinnati e l’US Open, tutti tornei di cui era campione in carica. Torna in autunno e si ritira di nuovo causa appendicite, rinunciando al Masters 1000 di Bercy e alle ATP Finals, dove l’anno scorso era arrivato in finale. Incredibilmente resta numero 3, nonostante le migliaia di punti che non ha potuto difendere nella stagione giocata a strappi. Ad aprile era stato battuto da Nicolas Almagro nei quarti di finale di Barcellona, dove Nadal non perdeva un set dal 2008 e una partita dal 2003; subito prima aveva perso in semifinale a Montecarlo da David Ferrer, in un torneo vinto otto volte di seguito e in cui arrivava almeno in finale da nove anni. Vince Madrid perché Kei Nishikori si ritira in finale, perde a Roma in finale da Novak Djokovic, ma poi vince il Roland Garros per la nona volta in carriera, battendo proprio Djokovic in finale. Nessuno aveva mai vinto nove volte un singolo slam, ma neanche otto. Il dominio di Nadal a Parigi (una sola sconfitta, contro Robin Soderling negli ottavi del 2009, introvabile online per colpa di una federazione francese un po’ troppo gelosa dei propri diritti TV; e poi due sole partite arrivate al quinto set in dieci partecipazioni al torneo) è un fenomeno di difficile comprensione, una predestinazione, un potere magico: Djokovic e Nadal si sono affrontati in due finali a Parigi, quest’anno e nel 2012 e in entrambi i casi Djokovic ha perso in quattro set e facendo doppio fallo su match point. Sono i due giocatori piscologicamente più forti, eppure uno di fronte all’altro, sulla terra del Roland Garros, Nadal è riuscito a togliere due volte il torneo a Djokovic facendogli compiere suicidio rituale, senza neanche toccare palla sull’ultimo punto. Tre sono i record del tennis che non saranno mai superati: i due grand slam vinti da Rod Laver, le 23 semifinali consecutive di major raggiunte da Federer, e i nove Roland Garros di Nadal.

 





 

Da quattro anni Djokovic non conosce cali significativi di rendimento, pochissimi infortuni e molti titoli vinti. Per cercare dei nei nelle sue stagioni si nominano le diverse finali slam che ha perso, le rare volte che a un Masters 1000 esce al secondo o terzo turno, ma sono vicende irrilevanti se viste a posteriori: quest’anno perde ai quarti di Melbourne (da tri-campione in carica) da Wawrinka per 9-7 al quinto set, vince Indian Wells e Miami uno dopo l’altro (impresa forse anche più difficile di vincere un major), finale a Parigi e poi vittoria a Wimbledon 6-4 al quinto contro Federer, una partita di cui nel mondo si è soprattutto scritto per lodare il veterano sconfitto; ma così facendo si è confermato soltanto come 1) è stato un mezzo miracolo che Federer sia riuscito a arrivare così lontano in quell’incontro, e 2) la determinazione a vincere di Djokovic è talmente alta da essere ormai data per scontata. Negli ultimi tornei dell’anno

, con quel suo modo di giocare che sembra non avere nulla di speciale tranne il non sbagliare mai, un servizio inattacabile e l’estrema capacità difensiva. Poi se si fa caso a dove cadono i suoi colpi, se si considera la profondità media di palleggio a cui costringe gli avversari, allora si capisce come Djokovic non vince mai per audacia tecnica, ma sapendo quasi sempre fare le cose normali molto meglio degli altri.

 





 

è il più anziano numero due a fine stagione della storia dell’ATP, nel 2014 ha vinto cinque tornei, la

e ha raggiunto un totale di undici finali; ha fatto il record di vittorie stagionali (73), ha salvato undici match point in tre partite (vinte), è diventato padre di una seconda coppia di gemelli, è il primo tra i giocatori in attività per incontri vinti in carriera, 996, 290 in più del secondo (Nadal), e a Brisbane, il primo torneo a cui parteciperà nel 2015, arriverebbe a 1000 vincendo il titolo. Non ha giocato la finale alle ATP Finals contro Djokovic per mal di schiena, ritirandosi soltanto per la terza volta in 1223 incontri giocati, e non avendo mai abbandonato una partita in corso. Tanto prezioso che ancora giochi e che lo faccia in questo modo, quanto preoccupante l’embargo che esercita sulle predilezioni dei fan. Il tennis non è uno sport di bandiera, e tolto lui e altri due o tre il pathos per riempire gli spalti in giro per il mondo durante un anno intero non si sa a chi dovrebbe essere indirizzato. A volte viene voglia di essere già al punto in cui non giocherà più, per capire finalmente cosa accadrà.

 





 

Qualsiasi top ten dei migliori colpi dell’anno ne avrebbe tre o quattro suoi, con la rubrichetta video dell’ATP Hot Shot che è diventata quasi una sua monografia. Uno scambio con Murray durante la finale di Acapulco è il punto dell’anno, seguito da tutto il repertorio immaginabile di acrobazie: vincenti

,

,

,

, persino

. Su questo campionario di virtuosismi, che ha mostrato sin dalle primissime partite da professionista, Dimitrov è riuscito finalmente a costruire condizione atletica, discernimento tattico, un rovescio più solido e un servizio ormai affidabile in ogni situazione. Il risultato si è visto con i quarti in Australia e la semifinale a Wimbledon, poi una serie di vittorie difficili strappate all’ultimo set e l’entrata in top ten, con le ATP Finals mancate per pochi punti. Non lo chiamano più Baby Federer, anche perché il suo gioco si sta ormai separando da quello del suo idolo, come se fosse una mutazione ulteriore del classicismo svizzero verso l’atleticismo predominante oggi. Meno variazioni ma con talento a disposizione per trovare colpi improbabili, meno narcisismo degli inizi grazie alla disciplina imparata con il coach Roger Rasheed, Dimitrov potrebbe rimanere in alto per tutta la prossima stagione. Con i fortissimi continua a perdere, ma i margini per lo step evolutivo finale ci sono, e sarebbe un peccato non avere un campione del suo genere, capace di usare il campo con una varietà sempre meno praticata.

 





 

28 minuti per perdere 6-0 6-1

, ufficialmente riconosciuto come il match ATP più breve di sempre. Tomic era rientrato dopo la chirurgia alle anche decisa dopo il suo ritiro al primo turno dell’Australian Open, solo l’ultimo dei problemi di Tomic, tra il padre allenatore bandito dai tornei per aver picchiato lo sparring partner del figlio, le foto sui tabloid australiani della sua festa di compleanno con stripper, posti di blocco non rispettati e denunce per rissa. L’anno scorso a Melbourne si era presentato rigenerato, e il cammino verso il previsto terzo turno contro Federer era atteso da tutti in modo smanioso; a una delle mille domande su quel confronto possibile Tomic aveva risposto “mi piacerebbe molto giocare contro Roger al terzo turno, ma deve arrivarci anche lui, non si sa mai. Il tennis è uno sport bizzarro, si vedrà”. Oltre ovviamente ad aver perso quel terzo turno tre set a zero, da quella frase in poi a Tomic è andato karmicamente tutto storto: nei primi mesi del 2014 era fuori dai primi 100 e solo grazie a un titolino a Bogota e qualche altro piazzamento è riuscito a chiudere l’anno poco sotto il 50. Eppure è una pena vederlo passare le stagioni così, dopo che nel 2011 ha raggiunto i

perdendo solo da Djokovic nel suo anno migliore, quello delle 43 vittorie consecutive. Tomic e il suo dritto piattissimo, colpito nei momenti più improbabili, un catalogo di variazioni che diventano colpi del tutto inventati, come il dritto a uscire con rotazione tutta laterale, con una diagonale stretta che diventa una strana palla corta veloce. Tennis controintuitivo, un talento naturale nel dare e togliere velocità alla palla, aveva tutto per diventare il pinocchietto strafottente del circuito, tanto bullo nei modi quanto classico nell’impostazione dei colpi, una miscela stupenda che rischia di perdersi in una carriera mal gestita, da top 100 senza ambizioni. La cosa buona è che ha solo 22 anni, quindi c’è ancora tempo per toglierlo dalla gestione familiare e farlo rinascere trovando il giusto allenatore per tutto quel talento assopito.

 





 

Per quanto abbia misteriosamente chiuso a un dignitoso numero 23, Dolgopolov meriterebbe altri palcoscenici che sei mesi di comparsate tra primi e secondi turni. Ma la gamba destra gli ha dato molti problemi, infine la chirurgia al ginocchio a fine luglio e poi un ritorno fantasma in autunno, senza risultati. Eppure a marzo aveva battuto Nadal al

con un eroico 7-6 al terzo set e risalito decine di posti in classifica, facendo immaginare una possibile ascesa alla top ten, che è dove meriterebbe di stare e noi spettatori meriteremmo di poterlo vedere: nel 2011 era arrivato al numero 13 con l’improbabile quarto di finale all’Australian Open, dopo una partita epica contro Robin Soderling agli ottavi, battuto 6-2 al quinto set, uno scontro Davide-Golia dove Dolgopolov ha fatto impazzire l’omone svedese con i suoi dritti incrociati, le mille palle corte, il servizio lampo con lancio palla bassissimo e tutte le anomalie tecniche che ne fanno uno dei giocatori più divertenti e meno leggibili del tour. Geniale quando gioca centrato, suicida quando perde il timing e la testa, trasformandosi in un tennista-parodia caricato a molla, affrettando tutti i colpi e sbagliando clamorosamente tecnica e tattiche; in più Dolgopolov soffre anche di una sindrome che porta un eccesso di birilubina nel fegato, che tra i vari sintomi causa momenti di profonda spossatezza. Ma la partita con Nadal di quest’anno giustifica le tribolazioni di un’intera stagione, e fa sperare che quel gioco possa ritornare con maggiore continuità.

 





 

, mostra il dito medio al pubblico di Shanghai

, si vede

offeso dalle sue urla per alcune chiamate avverse in chiusura di partita, peraltro corrette: ormai Fognini è il tennista delle multe per comportamenti offensivi, ma sotto questa nomea il suo numero 20 a fine anno viene dagli ottimi risultati su terra battuta, dal quarto turno agli Australian Open e dalla semifinale di coppa Davis; tutto il meglio di Fognini, il talento naturale da top ten con cui colpisce la palla, l’assenza di sforzo e la velocità con cui sa coprire il campo sono venuti fuori forse in una sola partita, il singolare dei quarti di Davis in cui ha battuto Andy Murray tre set a zero con vista mare, nella cornice simil-monegasca del Tennis Club di Napoli. Lì è stato perfetto in ogni colpo, in un abbraccio col pubblico forse troppo intenso per un temperamento così incline all’egocentrismo. “Fognini cammina come Napoleone”, ha twittato una volta Ivo Karlovic, suo collega con un senso dell’ironia decisamente più sviluppato di quello di Fognini, che nella sua perenne lotta contro la stampa cattiva ha creato hashtag come #fateviicazzivostri e #porcodiaz, quest’ultimo diventato anche logo per cappellini esibiti sia da lui che dalla sorella, sua scudiera contro le cattiverie mediatiche.

 





 

Non potrà mai ripetere l’impresa dell’US Open, a quasi nessuno è concesso di sperimentare la perfezione agonistica, l’utilizzo di ogni singola risorsa a propria disposizione come è capitato a Cilic a New York, e poi sopravvivere. Perché poi subentra la spossatezza emotiva, il non ricordarsi più come sia potuto accadere, la pretesa che quel gioco possa riattivarsi a comando. Vincerà altri tornei, ma non potrà toccare più quelle vette: non ha mai capito come si fa a vincere quando le cose non vanno come si vuole, e quella è la grande differenza tra essere numero 7 o 8 per qualche mese e rimanere per anni tra i primi tre o quattro del mondo.

 



È stato l’anno dei giovanissimi, come non accadeva da tempo. A diciassette anni e tre mesi

ha raggiunto la semifinale dell’ATP 500 di Amburgo, non avendo mai giocato partite a livello ATP Tour prima di quel torneo;

a diciassette anni e undici mesi ha giocato la semifinale dell’ATP 500 di Basilea, battendo Nadal nei quarti, e Nick Kyrgios è arrivato ai quarti di finale di Wimbledon a diciannove anni e due mesi, anche lui battendo Nadal nel turno precedente. Sono tutte anomalie statistiche rispetto alle tendenze degli ultimi dieci anni (tolto lo stesso Nadal, l’ultimo esempio di teenager campione che è esploso alla maniera del Boris Becker diciassettenne vincitore di Wimbledon, o di Michael Chang al Roland Garros), fenomeni di difficile lettura nello scenario attuale di progressivo invecchiamento dell’età media dei top 100: ci sono soltanto sei under 20 nei primi 200, di cui solo due (Kyrgios e Coric) nei primi 100, dove si contano solo quattro under 21. Si tratta di futuri top player? Coric e Zverev presentano un gioco piuttosto essenziale in linea con la filosofia

contemporanea, senza sprazzi di talento particolare ma con apprezzabile tenuta mentale; Kyrgios è più maturo atleticamente e con uno spirito anarchico più promettente, capace di accelerazioni e di tocco come i due più giovani non sono in grado, anche al di là della differenza di età che in quella fase è comunque molto significativa. Kyrgios a inizio autunno ha prematuramente dichiarato finita la sua stagione, non per infortunio ma per recuperare psicologicamente dopo la campagna estiva che l’ha portato vicino ai primi 50. La scelta può sembrare rinunciataria quanto oculata, avendo ormai garantito l’entry level per i primi tornei della stagione prossima e prendendo tempo per tentare una scalata in classifica pianificata su un’intera annata: già da gennaio si capirà meglio se la

è la premessa per un nuovo personaggio stabile ai vertici, o se lo condannerà a una carriera di semplici episodi.

 



Ha lasciato Olivier Rochus,

(1,68m) che in carriera ha avuto come best ranking il numero 24, ha lasciato

, ex n. 2 e unico giocatore al mondo ad aver giocato cinque o più volte contro Nadal e ad avere un record positivo nei confronti diretti, conducendo 6 a 5. Nessuno che abbia giocato più di cinque incontri con Nadal c’è riuscito, tranne lui e il suo tennis anticipatissimo, eccellente sulle palle alte, che contro Nadal bisogna colpire continuamente. Non è un caso che Kei Nishikori, che ricorda Davydenko nel suo timing esasperato da fondocampo, abbia quasi battuto Nadal a Madrid, abbandonando in finale per infortunio dopo essere stato avanti di un set e un break. Ma soprattutto ha lasciato Michael Llodra, l’ultimo grande giocatore di serve & volley, che l’anno prossimo disputerà soltanto qualche incontro di doppio nel campionato a squadre francese. Durante lo scorso US Open qualcuno l’ha filmato

, di sette anni. Il dritto di Teo sembra già abbastanza buono, e se mai diventerà professionista c’è da sperare che verrà allenato soltanto da suo padre, perché i gesti di Llodra vanno preservati e tramandati, come i segreti dei maestri liutai.

 
 


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