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Roberto Scarcella
Metti un giorno in Messico a vedere la lucha libre
10 nov 2022
10 nov 2022
Siamo andati a vedere lo spettacolare wrestling messicano.
(di)
Roberto Scarcella
(foto)
Illustrazione di Emma Verdet
(foto) Illustrazione di Emma Verdet
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Mettere piede all’Arena Coliseo di Città del Messico è come entrare nella tana del Bianconiglio. Si attraversa una porticina e - come Alice nel Paese delle Meraviglie - si viene catapultati in un’altra dimensione popolata da personaggi dai nomi bizzarri (Volcano, Rey Cometa, Magia Blanca, Dulce Gardenia…) che indossano maschere colorate, costumi sgargianti e mantelli luccicanti. Tutt’intorno l’eccesso è la regola, fatta di urla, gesti e riti sbilenchi e fuori scala. Un microcosmo che somiglia al mondo che si lascia fuori eppure sembra non farne davvero parte. Come spesso accade per certi luoghi che entrano nel romanzo popolare di una nazione e finiscono per definirla, l’Arena - che da fuori sembra un piccolo cinema d’altri tempi con la scritta bianca “Coliseo” su uno sfondo rosso circo - aveva già un’aura mitica ancor prima che dentro ci accadesse qualcosa. Fu infatti costruita con i 40mila pesos vinti alla lotteria nazionale (biglietto numero 4242) da Salvador Lutteroth, padre della lucha libre mexicana e organizzatore, nel 1933, del primo incontro della storia all’Arena Mexico, l’altro tempio di questo strano mix di sport e spettacolo, la cui popolarità da queste parti è seconda solo al calcio. L’Arena Coliseo, schiacciata tra le case del centro storico della capitale, non può far altro che svilupparsi in verticale: attorno al ring una dozzina di file di sedie di legno variopinte, gialle, rosse, verdi e blu, disposte a casaccio, che - in chi ha attraversato gli anni Novanta - non può non ricordare la carrozzeria della Polo Arlecchino. Sopra il ring altri due anelli ancor più spartani, dove ci si siede su gradini di cemento e la visuale è ostruita da una rete, messa lì per evitare lanci di oggetti.

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L’effetto è straniante, perché giù sembra una festa di compleanno a cui mancano solo la torta e i palloncini, con un viavai di venditori di patatine, popcorn e bibite, mentre sopra sembrano gli spalti di un incontro clandestino o di quella vecchia pubblicità Nike in cui, in un anfiteatro (come vuole essere l’Arena Coliseo, lo dice il nome stesso), i campioni di calcio dell’epoca sfidavano una squadra di diavoli. Questa doppia natura della lucha libre - il wrestling dei messicani - eternamente in bilico tra gioco e battaglia, è il compromesso a cui devi scendere a patti se ti vuoi sedere e capirci qualcosa, divertirti senza entrare in quella spirale di pregiudizi che ti porta a ordinare una pizza in Patagonia o ai tropici per poi poter dire che la fanno più buona a Napoli o sotto casa tua. È il pubblico, ancora prima dei lottatori, a farti capire dove sei finito: portano le maschere dei loro eroi i bambini, ma anche molti adulti. A giudicare da cosa si mettono in testa i piccoli hanno una preferenza per Místico, che combatterà nell’ultimo incontro, il più atteso della serata. Místico è l’eroe, il buono, il cavaliere senza macchia: è Ulisse, è Robin Hood, è James Bond, è Batman. Si capirà meglio più tardi, quando la sceneggiatura del suo combattimento ricalcherà pari pari la trama di un qualsiasi libro o film in cui il protagonista sembra sempre lì lì per cadere, ma alla fine no. Chi tra gli adulti porta una maschera omaggia la sua adolescenza e la storia della lucha libre: sono maschere spesso semplici, che arrivano dal passato, come Blue Demon e Mil Máscaras. A spopolare è però El Santo, una specie di imbattibile Bud Spencer senza volto che riuscì a saltare fuori dal ring per entrare nel mondo del cinema e dei fumetti, perfino nei manuali scolastici. Girò decine di pellicole dai titoli buffi, che ricalcano quelli del Maciste nostrano: “El Santo contro l’invasione dei marziani”, “El Santo contro la figlia di Frankenstein”, “El Santo contro l’assassino della televisione”.

La sua immagine può far capolino in un murale scrostato di periferia o trovarsi in una galleria d’arte accanto a quella dei fondatori della patria, come Emiliano Zapata. El Santo è Messico quanto il sombrero, gli aztechi e il peperoncino. Il suo volto, nonostante i 50 anni e oltre d’attività, rimase sempre un mistero fino al gennaio del 1984: ospite della trasmissione “Contrapunto”, all’improvviso sollevò la maschera abbastanza da far vedere finalmente parte del suo volto. I messicani ancora non lo sapevano, ma era il suo modo di dire addio: morì pochi giorni dopo, il 5 febbraio. In migliaia andarono al suo funerale, e leggenda vuole che nel suo testamento ci fosse scritto che volesse essere sepolto con la sua maschera. La sua importanza aveva bisogno della penna di un poeta, e il poeta arrivò, si chiamava Carlos Monsiváis. Scrisse che El Santo era “il rito della povertà, delle litigiose consolazioni dentro quella grande desolazione che è la vita, la miscela perfetta di tragedia classica, circo, sport olimpico, commedia, teatro di varietà e catarsi del lavoro”. Lo spettacolo però doveva continuare: c’erano altri eroi da celebrare, nuove maschere da inventare e - inutile negarlo - tanti soldi da far girare. Un’alleanza tutt’altro che santa, che va dai bookmaker alle tv, passando per i venditori ambulanti, spettacolo nello spettacolo: c’è quello che riesce a portare decine di birre, quello che trascina le casse al guinzaglio come se fossero dei cagnolini, quello che annaffia con stile le patatine con la salsa piccante, quello che le bibite te le vende solo in coppia e se proprio ne vuoi una ne paghi lo stesso due, sennò niente. I primi incontri sono per i palati meno raffinati. Non a caso iniziano presto e vengono annunciati con canzoni per bambini: la “Cucaracha”, la versione spagnola di “Un elefante si dondolava” e altre filastrocche simil Zecchino d’Oro. Per attirare l’attenzione dei maschi adulti, che sono la maggioranza, ci sono due cheerleader scelte col criterio delle Veline: una ha la pelle nera e i capelli ricci, l’altra è bianca con i capelli lisci. Sono belle, spigliate e sorridono sempre a tutti. Si mettono ai lati della passerella e per ogni lottatore che arriva hanno pronto un balletto diverso.

I primi a salire sul ring hanno i nomi che più o meno ti aspetti: Sangre Imperial, Suicida, Angelito, Mercurio. Combattono, o almeno dovrebbero. Non che mi aspettassi una lotta all’ultimo sangue, ma nemmeno quelle scene da b-movie in cui una mano passa a un metro dalla guancia e l’altro casca a terra. Bambini a parte, che partecipano e rumoreggiano con le loro voci stridule, la maggior parte della gente guarda l’incontro distrattamente, come si guardano al cinema i trailer prima del film per cui si è pagato l’ingresso. A confermare la mia impressione è un ragazzo seduto una fila dietro di me che continua a urlare “Dejen de bailaaaar” (“Smettete di ballare”). Lo seguiranno altri ed è il modo in cui il pubblico dimostra disappunto davanti a incontri troppo coreografici e poco realistici. Dei dieci che si alternano inizialmente sul ring l’unico ad attirare la mia attenzione è tal Cachorro (“Cucciolo”), capace di piroette spettacolari che fanno venire in mente i dervisci rotanti, quei danzatori turchi che sembrano trottole viventi. A forza di sentirmi urlare nelle orecchie “Dejen de bailar”, mi giro. Il contestatore è giovane, avrà sì e no 18 anni, vestito tutto di nero, con strane protezioni di plastica e velcro sulle spalle, sui gomiti e sui polsi: ricorda un po’ le eccentriche mise di scena di Michael Jackson e un po’ un pattinatore con troppa paura di cadere. Recita il ruolo del maledetto stile Johnny Depp, di cui prova a copiare l’acconciatura, ma a tradirlo è il bicchiere di plastica extralarge pieno di succo di mela. Più tardi, quando il gioco si farà duro, indosserà anche una maschera, sempre nera. Tra un incontro e l’altro arriva di corsa un gruppetto di persone il cui compito sarebbe quello di disinfettare le corde e il ring. Hanno tute bianche apparentemente iperprofessionali che li coprono dalla testa ai piedi, lasciando giusto un po’ di spazio per gli occhi: sembrano abbigliati per andare a salvare una centrale nucleare più che per passare uno straccio su quattro corde. Uno di loro trova il modo di farsi notare salendo e scendendo dal ring in modo acrobatico. Strappa applausi le prime due volte, alla terza il pubblico chiama il salto e poi esplode in un boato.

Man mano che procede la serata, le canzoni per bambini spariscono e si passa alle colonne sonore di “Rocky” e “Guerre Stellari” per poi sconfinare nell’hard rock; alcuni lottatori hanno un brano personalizzato, altri si mettono a ballare a tempo con le due cheerleader, altri ancora irrompono sulla scena cercando subito il contatto col pubblico: i “rudos”, i cattivi, vanno subito allo scontro con il pubblico, i “tecnicos”, i buoni, si godono il primo bagno di folla. Il copione è talmente semplice che i bambini, istintivamente, fanno la loro parte: fischiano, urlano e applaudono esattamente quando devono. L’Arena Coliseo si riempie man mano che la serata procede, e quando sarà il momento della “Lucha Estelar” rimarrà solo un pugno di posti liberi. Il terzo incontro è quello che sconfina nel vaudeville puro: i due terzetti che si sfidano sono composti da due atleti mascherati e da un lottatore extralarge, da una parte Kráneo, con il costume nero e dorato, dall’altra Volcano, con delle fiamme disegnate che strabordano esattamente come la pancia. Entrambi accentuano la loro goffaggine e la gente si sganascia dalle risate. I loro sketch strappano applausi scroscianti e a me resta appiccicato un po’ di disagio, ma questo - devo ricordarmi di non dimenticarmelo - è il loro show, non il mio. La “lucha semifinal”, la penultima della serata, è introdotta da una presentazione più elaborata: il pubblico si scalda. Il costume di Esfinge, dorato e luccicante, che richiama il dio egizio Anubi, fa presa sul pubblico. È un’altra lotta tre contro tre. A rubare la scena a tutti sarà El Felino, storico lottatore del circuito che ormai ha 58 anni e ha perso da tempo la sua maschera.

Con perso s’intende proprio in combattimento, durante un tipo d’incontro tra i più amati e importanti, quello “máscara contra máscara” (El Santo, ovviamente, non ne perse mai uno), dove lo sconfitto non solo è costretto a mostrare il suo volto, ma perde per sempre il diritto di indossare la sua maschera, rimanendo spogliato di un’identità costruita in anni di carriera. Chi ha già perso la sua maschera e combatte a volto scoperto può partecipare agli incontri “máscara contra cabellera”, in cui se sconfitto viene rapato a zero. El Felino, ormai a volto scoperto, è l’anima della “Lucha semifinal”: scherza col pubblico, si avvicina a una donna che gli urla di amarlo e si ritrae a un centimetro dal bacio dicendo “ripasso dopo” mentre un avversario lo insegue (e quando lo colpiscono la donna urla: “Non toccatemelo!”). Il suo viso segnato dal tempo, il suo fisico declinante su cui restano i segni dell’atleta che fu, il costume con le spalline tirate giù (durante una specie di striptease) e il sudore lo fanno sembrare un aiuto cuoco nel momento della pausa sigaretta. Eppure i suoi salti, quando serve, riesce ancora a farli. L’altro mattatore avanti con gli anni è Virus, basso e con una testata di capelli ricci, ha metà del viso colorato alla maniera di Ziggy Stardust: non riuscirò più a togliermi dalla testa questo lottatore che sembra un incrocio tra David Bowie e Riccardo Cocciante. El Felino e Virus sanno come interagire, e la gente risponde, partecipa (“Attento, è una trappola”, “Sei stanco, riposati”), dimenticando che il copione è già scritto. Dovrebbero essere meno credibili dei primi lottatori della serata, più giovani, più atletici e più acrobatici, eppure riescono a coinvolgere il pubblico, trascinandolo in quella dimensione in cui la realtà - complice magari qualche birra di troppo - può anche rimanere sospesa. Sono gli interpreti perfetti per scaldare la platea in vista dell’ultimo combattimento, con un nome che più messicano non si può: “Lucha estelar”. Tre contro tre: da una parte i buoni, Místico, Titán e Fugaz, dall’altra i cattivi, sommersi di fischi ancor prima di entrare in scena: Magia Blanca, Rugido e Volador Jr.

Tra questi, alcuni entrano con dei bambini vestiti esattamente come loro: sembrano matrioske di cui si sono persi tutti i passaggi intermedi. I tre cattivi, intanto, non digeriscono che Místico venga presentato due volte e si scatenano subito in un “tre contro uno” che è solo il primo dei cliché disseminati in un incontro dal finale già scritto. Il capo dei cattivi è Volador, chioma fluente e un costume a metà tra Capitan America e la maglia del Bologna, talmente caricaturale da far venire alla mente solo personaggi dei fumetti: è il Lex Luthor di Superman, il Joker di Batman, il Gambadilegno di Topolino. Litiga col pubblico, battibecca con un signore sovrappeso aggrappato alla rete in uno dei due anelli che sovrastano il ring. A un certo punto fa anche scattare l’immancabile rissa con l’arbitro. Nel momento in cui tutto pare perduto per Místico, Volador sembra a tanto così da sfilare la maschera all’eroe. Ovviamente non lo farà, esattamente come l’antieroe dei film, davanti al protagonista, al posto di sparare si perde in chiacchiere finché qualcuno o qualcosa lo rende innocuo. Quando l’incontro, prevedibilmente, svolta e Místico ritrova rapidamente energie come accade solo nei videogiochi, sembra che qualcuno abbia alzato di un paio di tacche il volume dell’Arena Coliseo con il telecomando. Nel marasma Volador sbaglia la misura di un salto e finisce addosso a un ragazzo seduto in prima fila. Non è una messa in scena: corrono lì in quattro a vedere se stanno tutti bene. Dura pochi secondi, ma si capisce che qualcosa è andato storto. Lì però si capisce anche come dietro a quelle acrobazie da circensi ci sia una preparazione maniacale, in cui saltare dieci centimetri più in qua o più in là fa la differenza tra uno show ben costruito e uno spettatore in infermeria. Si riparte, e Fugaz ruba per un attimo la scena a Místico saltellando ritmicamente sulle corde del ring: applausi. Quando arriva il momento della riscossa, il pubblico inizia a urlare ininterrottamente “Místico, Místico”. Il finale è una variante del solito finale: è Rocky contro Ivan Drago, la rovesciata di Pelé in “Fuga per la vittoria”, John Wayne contro gli indiani, Hugh Grant che fa innamorare una donna americana dopo che sembrava persa per sempre. Quelle cose lì. Tre ore prima, mentre attraversavo la stessa porticina rossa mi sembrava di entrare in un cinema, ora mi sembra di uscire direttamente da un film. Fuori, sul marciapiede, c’è un anziano che vende magliette di incontri storici, dall’altro lato della strada una ragazza ha un banchetto con sopra dei ring in miniatura e decine di pupazzetti dei grandi lottatori di ieri e di oggi. La gente però va dritta verso le maschere, vogliono tutti quella di Místico, che era la più cara ed è già finita. Mi ritrovo accanto una coppia di francesi che all’ingresso mi aveva chiesto se valeva pena comprare il biglietto (avevo risposto “sì” senza essere mai stato a un incontro nemmeno io). Lui alza il pollice e mi sorride, lei chiede una maschera di Místico. L’ambulante, paziente nonostante il caos intorno, le mostra le maschere più scintillanti che ha, lei scuote la testa sconsolata. Lui le fa segno di aspettare e orgoglioso ne tira fuori un’altra: “Sai chi è? El Santo. Il più grande di tutti”.

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