
Mettere piede all’Arena Coliseo di Città del Messico è come entrare nella tana del Bianconiglio. Si attraversa una porticina e - come Alice nel Paese delle Meraviglie - si viene catapultati in un’altra dimensione popolata da personaggi dai nomi bizzarri (Volcano, Rey Cometa, Magia Blanca, Dulce Gardenia…) che indossano maschere colorate, costumi sgargianti e mantelli luccicanti. Tutt’intorno l’eccesso è la regola, fatta di urla, gesti e riti sbilenchi e fuori scala. Un microcosmo che somiglia al mondo che si lascia fuori eppure sembra non farne davvero parte.
Come spesso accade per certi luoghi che entrano nel romanzo popolare di una nazione e finiscono per definirla, l’Arena - che da fuori sembra un piccolo cinema d’altri tempi con la scritta bianca “Coliseo” su uno sfondo rosso circo - aveva già un’aura mitica ancor prima che dentro ci accadesse qualcosa. Fu infatti costruita con i 40mila pesos vinti alla lotteria nazionale (biglietto numero 4242) da Salvador Lutteroth, padre della lucha libre mexicana e organizzatore, nel 1933, del primo incontro della storia all’Arena Mexico, l’altro tempio di questo strano mix di sport e spettacolo, la cui popolarità da queste parti è seconda solo al calcio.
L’Arena Coliseo, schiacciata tra le case del centro storico della capitale, non può far altro che svilupparsi in verticale: attorno al ring una dozzina di file di sedie di legno variopinte, gialle, rosse, verdi e blu, disposte a casaccio, che - in chi ha attraversato gli anni Novanta - non può non ricordare la carrozzeria della Polo Arlecchino. Sopra il ring altri due anelli ancor più spartani, dove ci si siede su gradini di cemento e la visuale è ostruita da una rete, messa lì per evitare lanci di oggetti.
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