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Fulvio Paglialunga
Che tristezza il report della FIGC
01 giu 2016
01 giu 2016
Il nuovo report della Federazione italiana non regala grande ottimismo.
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Fulvio Paglialunga
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Siccome non è il caso di coltivare illusioni, la grigia situazione del calcio italiano è scritta praticamente tutta nella premessa del Report 2016 della Figc: l'unico aspetto che ha prodotto una trasformazione nel sistema sono stati i diritti tv. Hanno superato il miliardo di euro, rappresentano il 58 per cento dei ricavi delle società di serie A (contro una media europea del 41 per cento) ma «vista la loro attuale contribuzione, difficile pensare che possano continuare ad essere un fattore di crescita nei prossimi esercizi». Più semplice: per i prossimi anni la cifra non aumenterà, forse adesso è al massimo. Il resto è un mondo in cui i ricavi crescono pochissimo, non si riescono a contenere i costi, gli azionisti non mettono più capitali, l'indebitamento non si riduce e «l’intervento di nuovi investitori è pertanto improrogabile». O ci invadono, oppure il calcio italiano non ha ancora terminato il suo declino e rischia di essere masticato dai debiti. Si parla di «nuovi investitori globali» come una salvezza, anche se finora di stranieri pronti a spendere nel nostro calcio abbiamo solo sentito generiche nazionalità senza che mai un nome fosse noto o tenesse lontana la puzza di bluff, senza mai un patrimonio certo o una trattativa durata il tempo più lungo di una passeggiata in centro con annessa risata collettiva (a meno che non spunti – ad esempio – qualcuno ancora convinto che sia questione di ore il closing di mr Bee con il Milan).

 

Il Report (elaborato da

e

) mette sul terreno di gioco i numeri, che vanno letti, non interpretati. Bastano anche quelli più elementari, per capire che anche i conti della serva non tornano.

 

 



 

Sarebbe così in ogni azienda in cui le entrate diminuiscono e le uscite aumentano. E se serie A, serie B e Lega Pro vengono viste come una sola impresa, nell'ultima stagione questa azienda ha un valore di produzione di 2,6 miliardi di euro (il 3,7 per cento in meno di un anno fa) e costi per 3,07 miliardi (cresciuti del 2,8 per cento, il dato più alto degli ultimi cinque anni). Numeri da tragedia che hanno anche portato da tre a quattro il numero di squadre non iscritte al campionato (e nel conto manca il Parma, che è fallito prima) e da 28 a 56 i punti di penalizzazione per inadempienze economiche, che in sintesi vuol dire che anche la continuità aziendale è messa a rischio e persino la regolarità dei campionati, evidentemente disputati senza avere le risorse adatte.

 

A tirare le fila di questa allegra comitiva di indebitati è, ovviamente, la serie A. Non che prima i conti fossero brillanti, perché il deficit della passata stagione era di 185,5 milioni di euro, ma adesso il rosso in bilancio è di 379,2 milioni. In un anno il buco si è allargato del 104,4 per cento senza che nel calcolo sia incluso il Parma, perché fallito (l’analisi è su diciannove bilanci su venti) e la cosa allarmante è che se, come detto, i ricavi da diritti tv sono aumentati ma non potranno aumentare ulteriormente nei prossimi esercizi, sono in calo le plusvalenze. Si passa dai 582,2 milioni di un anno fa ai 380,8 della stagione in esame. Ed è un dato che può essere letto in tre modi. Nell’ipotesi migliore le società non lasciano andare via i propri pezzi migliori a costo di sacrificare il bilancio (ma prima o poi al bilancio bisognerà pensare), nell’ipotesi intermedia le piccole non producono più talenti da vendere alle grandi, nell’ipotesi che sembra tristemente affiancarsi alla realtà non è rimasto molto da vendere, visto il calo qualitativo del calcio italiano e quindi la scarsa presenza di giocatori che potrebbero garantire incassi sostanziosi in caso di cessione.

 

Non ci sono più vie interne, per salvare i bilanci: il patrimonio netto (che rappresenta le cosiddette fonti di finanziamento interne dell’impresa, provenienti direttamente o indirettamente dal soggetto o dai soggetti che costituiscono e promuovono l’azienda) dell’intero sistema (inteso come serie A, serie B e Lega Pro) è crollato da 273 milioni a 37 (perdendo l’86,4 per cento) e fermandosi solo alla serie A è diventato addirittura negativo: da 197,9 milioni a -12,8 milioni in un anno solo.

 

 



 

La verità è che i conti del calcio potrebbero essere anche peggiori di quelli attuali. Per fortuna del movimento qualche buon risultato nelle competizioni europee ha abbellito i bilanci. Perché i ricavi da diritti tv aumentano del 4,5 per cento passando da da 987,1 a 1.031,9 milioni («tanto da rappresentare nella stagione 2014-2015 addirittura il 47% del totale, la percentuale più alta mai raggiunta» e crescono anche i ricavi da stadio (del 15,3 per cento, da 192,3 a 221,7 milioni), ma non per una crescita strutturale: accade perché andando avanti nelle competizioni Uefa sono cresciuti gli incassi e i proventi tv. La sintesi è nello stesso Report che, quando si guarda dentro casa, parla di «costanza di contratti televisivi per la cessione dei diritti domestici e senza significative modifiche nel dato degli spettatori presenti nelle partite di campionato». Crescono anche i ricavi commerciali, che passano da 344,2 a 360,9 milioni. Un aumento che può far pensare a un risveglio? No, «un dato però molto lontano da quello generato dagli altri principali campionati europei». Laddove si può pensare bene arriva sempre la competizione con gli altri campionati a tirare tutti giù: il punto è proprio che l’Italia è sostanzialmente ferma da dieci anni almeno mentre gli altri hanno ricostruito quel che c’era da ricostruire o comunque hanno alzato il passo molto prima, staccandosi. Infatti nessuno dei raffronti con i campionati principali del resto d’Europa fa uscire l’Italia come un movimento in crescita o in grado di reggere la concorrenza. Per fatturato, il nostro calcio è al quarto posto tra le Top League (1,7 miliardi di euro). Staccatissima l’Inghilterra (3,9), lontana la Germania (2,3), solida la Spagna (2,0), insidiosa, al quinto posto, la Francia (1,5). Per ricavi da stadio l’Italia è quarta, con la Francia, con un’incidenza dell’11 per cento, dopo Germania (21), Spagna (20) e Inghilterra (18). Gli unici primati non sono piacevoli. Il primo è proprio quello della dipendenza da diritti tv, che se come detto in Italia rappresentano il 58 per cento delle entrate, diventano il 51 in Inghilterra (con quattro volte, però, l’ammontare delle entrate italiane), il 48 per la Spagna, il 44 in Francia e solo il 32 in Germania (dove la prima voce sono i ricavi commerciali). Il secondo è quello della spesa per il costo del lavoro: in Italia incide per il 71 per cento, quasi 3 euro in stipendi ogni 4 incassati, in Francia per il 65, in Germania, Spagna e Inghilterra per percentuali comprese tra il 50 e il 60. Francia e Italia sono gli unici due sistemi (dei cinque) che generano perdite (102 milioni in Francia, 324 da noi), mentre gli altri sono in attivo (196 milioni in Inghilterra, 176 in Spagna, 48,6 in Germania (48,6). Pur provandoci, non ci sono numeri che incoraggiano.

 

 



 

In alcuni punti il Report della Figc sembra quasi un’approfondita analisi della scoperta dell’acqua calda. Non è colpa del rapporto, ma di malanni del pallone ormai fin troppo noti. Gli stadi, ad esempio, e la loro bassa frequentazione. Se, come detto, i ricavi dalle partite sono cresciuti del 15,3 per cento, tutto il resto riconduce a una realtà amara. A partire dall’affluenza media: in Germania è di 43.526 spettatori a partita, in Inghilterra di 36.179, in Spagna di 26.835, in Francia di 22.251, da noi di 21.586 (il dato peggiore degli ultimi cinque anni

. Restando sui numeri, prima di andare su cifre ancora più graffianti, c’è persino una questione buffa da tenere in considerazione: la serie A, per affluenza media, è quarta persino in Italia. Prima ci sono la Champions (44.240), la Nazionale (41.188) e l’Europa League (24.545).

 

Come sempre a essere ancora più impietosa è la percentuale di riempimento degli stadi, che in Italia è solo del 54 per cento, in Francia del 68, in Spagna del 70, in Inghilterra e Germania del 92. Per farci un’idea di quello che si perde basti pensare che nel 2014-2015 in Italia sono rimasti invenduti 8,4 milioni di posti, rispetto agli 1,3 della Bundesliga e agli 1,4 della Premier League. Il Report fa i conti e lo dice con crudezza: «Nell’ipotesi di riempimento della capienza dell’80% degli impianti (rispetto al 55% attuale), i club della Top Division italiana sarebbero in grado di ottenere quasi 100 milioni di euro di ricavi da gare aggiuntivi, dato che sale a quasi 178 milioni nel caso di utilizzo del 100% dei posti disponibili». Succede, quando andare in uno stadio vuol dire entrare in un impianto che, in media, ha 64 anni, l’età che a un essere umano fa pensare che sia vicina la pensione. Invece gli stadi non sono nemmeno ipoteticamente pronti a essere sostituiti, o resi funzionali, o migliorati.

 

Così, nel confronto mondiale che comprende anche gli altri sport la serie A è sedicesima, più in basso del cricket indiano, del baseball giapponese e anche dei campionati di calcio indiano e messicano. La Bundesliga, ormai campionato di riferimento, cede solo al football americano, distante dalla Nfl e a un passo, però, dal secondo posto della Ncaa. E non regge la motivazione del costo del biglietto, perché calcolando l’incidenza del prezzo del tagliando sul salario medio giornaliero l’Italia ha una percentuale più bassa (39,3 per cento) rispetto a Inghilterra (61,5), Spagna (61,1) e Germania (49,5) e il costo medio è di 22,4 euro contro i 49,2 della Premier League.

 

 



 

La gestione dei club italiani e la loro organizzazione dei ricavi ha dei riscontri anche quando si mettono a confronto le società che negli ultimi cinque anni hanno avuto accesso alla Champions League. Le italiane in cinque anni hanno incrementato l’incidenza di ricavi da stadio (del 3,6 per cento) e da diritti TV (5,8), perdendo invece in ricavi da sponsor e commerciali (-9,4 per cento): leggendo i numeri appare chiaro come naturalmente aumentino le presenze allo stadio e i diritti tv (ci sono più partite) e invece si perda l’occasione per commercializzare la propria partecipazione e ricavarne utili maggiori. Cosa che non accade in Spagna, visto che le iberiche aumentano i ricavi da sponsor e commerciali dell’8,3 per cento, ma ovviamente a dare lezioni da questo punto di vista è l’Inghilterra, visto che le partecipanti della Premier alla Champions League incrementano i loro ricavi commerciali dell’11,8 per cento. Le francesi (effetto Psg) fanno crescere quei ricavi addirittura del 14 per cento in cinque anni nonostante il calo dell’ultima stagione.

 

L’Europa, se può salvarci, al momento può farlo solo spontaneamente: nel senso che in modo naturale c’è più gente che va allo stadio e quindi si ricava di più dai biglietti (solo nell’ultima stagione si è passati da 1,13 milioni a 2,5, con un incremento del 120 per cento), ma dove serve un lavoro manageriale e qualche intuizione per aumentare altri tipi di ricavi le italiane cominciano a fingersi morte.

 

 



 

Curioso, in questo quadro fosco, come continui a funzionare invece la Nazionale: genera ricavi da diritti tv per 3,2 milioni ogni partita, è vista mediamente in tv da 6,6 milioni di spettatori (con uno share del 26,8 per cento) e riesce anche a farsi mercato all'estero. Infatti l'82 per cento del merchandising ufficiale è venduto all'ester

, soprattutto negli Stati Uniti, dove il dato è superiore a quello dell’Italia (il 22 per cento contro il 18).

 

Sembra, messa così, la Nazionale azzurra sia una cosa che riguarda gli altri, ma all'interno del Report c'è anche un dato (ricavato da  interviste effettuate su un campione rappresentativo di età compresa tra i 16 e i 69 anni) che dice che l'interesse per gli azzurri sia al 58 per cento, secondo solo alla Spagna (62) e meglio della Germania (54). L'Inghilterra, quella del campionato ricchissimo, interessa al 29 per cento degli inglesi. La percentuale di riempimento degli stadi per le partite di qualificazione all'Europeo è di poco superiore a quella della serie A (55,5 contro 54 per cento).

 

Anche qui, ma non dal punto di vista economico almeno, un dato che non fa sorridere c'è: la nostra Nazionale è quella con l'età media più alta delle Top Divisione europee, con 28,4 anni che sono un dato pari a quello del Portogallo e inferiore solo a Ungheria (prima), Russia, Ucraina, Cile e Slovacchia. L'Inghilterra ha un'età media di 25,6 anni (la più bassa, con l'Olanda), mentre la Germania non va oltre i 26 anni tondi. Del resto non poteva esserci un dato diverso, se il campionato di serie A è il più vecchio dei cinque maggiori: 27,3 anni contro i 26,8 dell’Inghilterra, i 26,2 della Spagna, i 25,9 della Germania e i 25,8 della Francia. Ed, sempre il nostro campionato, quello con la più bassa percentuale per impiego di calciatori provenienti dalle giovanili (nel calcolo sono considerati tali quelli tra i 15 e i 21 anni tesserati per almeno tre stagioni nelle giovanili del club): il 9,5 per cento contro il 13,8 dell’Inghilterra, il 16,8 della Germania, il 22,2 della Spagna e il 24,4 della Francia.

 

Curioso come la Nazionale sia un veicolo paragonabile a quei partiti che, nella pura tradizione italiana, nessuno diceva di votare e poi avevano sempre ottimi risultati alle elezioni. Gli ascolti di ogni partita sono molto più buoni (il massimo è stato per Bulgaria-Italia di qualificazione all’Europeo: 7.537.000 di telespettatori per uno share del 29,96 per cento), ma è il calcio che ancora – almeno dal punto di vista televisivo – rende: nei venti programmi più visti del 2015 sulle tv in chiaro le partite sono l’unica cosa che interrompe il dominio del festival di Sanremo, con otto incontri (sette dei quali sono della Juve, l’ottavo è Barcellona-Bayern Monaco di Champions). Il numero di più alto di telespettatori è per la semifinale di ritorno di Champions Real Madrid-Juventus (11.620.280), lo share migliore è per la finale Juventus-Barcellona (46,7 per cento).

 

Le tv danno, in diritti e visibilità, le tv incassano (con numeri auditel da vendersi bene e abbonamenti già venduti), ma si continua a dire che non possono bastare. Ogni volta, però, il calcio gira la testa dall’altra parte. Adesso, se la gira, vede che quei numeri lì in fondo sono debiti. Tanti debiti.

 

 

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