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Il momento di eternità di Redondo
20 apr 2020
20 apr 2020
Vent'anni fa Redondo inventava il "taconazo".
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C’è una foto di quel 19 aprile del 2000 che riesce a esprimere la presenza di Fernando Redondo sul prato quella sera. Siamo in un momento comune della partita. Redondo sta correndo in mezzo al campo, leggermente defilato sulla destra. Non corre come gli altri: è leggero, aereo. Ha appena superato Scholes che è alle sue spalle, basso, tozzo, con i muscoli tutti tesi. Redondo sembra averlo appena evitato senza nessuno sforzo, solo calcolando meglio il tempo e lo spazio per passargli davanti. Cruyff diceva: «La velocità è spesso confusa con l’intuizione. Quando inizio a correre prima degli altri, appaio più veloce».

 

Redondo indossa la fascia da capitano sopra una maglietta nera del Real Madrid che somiglia a un abito da sera. A dire il vero non sembra neanche un calciatore. Piuttosto una specie di visione onirica, di sogno folle di come dovrebbe essere un centrocampista argentino tecnico ed elegante. L’immagine del tanguero, capace di domare la sensualità attraverso i codici della danza. I capelli lunghi si alzano e si abbassano al ritmo della sua corsa; ha la spalla sinistra in avanti, la bocca leggermente aperta, gli occhi che guardano lontano. Sembra sbilanciato in avanti, ma la corsa di Redondo è così composta che quando si sbilancia sta solo giocando con una forma più complessa di equilibrio. Sta per toccare di nuovo il pallone col suo sinistro, che ha la sensibilità delle mani di uno scultore, e quando lo farà terrà la testa alta. Continuerà a

il campo davanti a sé per continuare a capire il tempo e lo spazio meglio degli altri. In greco il verbo “oida” si usa sia per dire “io so” che “io ho visto”: vedere e conoscere hanno significato equivalente per i greci.

 



 

Il momento che definirà la partita, e poi la sua intera carriera, arriverà al minuto 52. Il Real Madrid è già avanti per 2-0 ed è praticamente sicuro della qualificazione alle semifinali di Champions League. Redondo riceve una palla leziosa da Savio, uno scavetto con l’esterno sinistro che ha mandato a vuoto la pressione dello United con pigra astuzia. Redondo può ribaltare il campo verso la porta dello United: Morientes e Raul corrono accanto a lui, a distanze diverse. C’è un attimo in cui Redondo può passare la palla a Morenties e magari lanciarsi nello spazio, oppure accentrarsi per stringere il campo e cominciare a far parlare la tecnica. Invece, per qualche ragione, si imbottiglia sulla fascia sinistra, dove è ben marcato da Berg.

 

Il fatto è che il calcio di Redondo nasceva dai piedi e non dalla testa. Se sembrava avere un controllo razionale sull’agonismo di una partita di calcio, era perché riusciva a esercitare la sua particolare forma di intelligenza calcistica, che nasceva dal corpo. Una forma a metà tra l’istinto e il pensiero vero e proprio, che in quel momento lo ha portato a fare la scelta meno razionale.

 

Redondo accelera e rallenta accarezzando la palla con l’esterno sinistro, fino al momento in cui nessuno si sarebbe aspettato quello che stava per arrivare. In cui il pensiero dei ventidue in campo e dei milioni di spettatori allo stadio e sintonizzati era lontano dai territori in cui la giocata di Redondo li avrebbe portati poco dopo. Colpisce la palla col tacco sinistro, forse vuole mandarla a lato del difensore, ma finisce per fargli addirittura tunnel. Guardando e riguardando le immagini, la finestra di tempo in cui la palla sarebbe potuta passare tra le gambe di Berg si è aperta e richiusa in uno battito di palpebre, e Redondo ci si è infilato con una specie di preveggenza magica.

 

Poi corre a recuperare il pallone prima che finisca fuori; non si scompone più di tanto, quando lo riprende alza la testa e può vedere il movimento di Raul, che nel frattempo si è portato sulla linea di porta.

 



Torniamo alla questione della visione come conoscenza. Fermando i fotogrammi come nelle scene di un crimine, c’è un momento in cui la differenza di sguardi riassume il rapporto di potere fra Redondo e Berg, fra un giocatore tecnico e uno che non lo è, tra controllore e controllato. La sua violenza implicita. La palla gli è già passata sotto le gambe e Berg guarda in un punto in cui ormai non c’è più niente, mentre Redondo sta già visualizzando il pallone con la coda dell’occhio. Van der Gouw dopo la partita ha detto che «quel colpo di tacco ha praticamente ucciso Berg».

 




 

È un gesto tecnico fatto di capovolgimenti. Redondo corre verso l’esterno mettendosi il campo dietro solo per ribaltarlo alle spalle di Berg, senza mai girarsi, usando il dorso del piede; lo invita negli spazi stretti per fargli sentire l’impaccio del suo corpo e batterlo. Sembra aver preparato l’inatteso.

 

C’è dell’ironia, ovviamente, nel fatto che un calciatore famoso per la sua lentezza venga poi ricordato in un gesto tecnico del genere, in cui si è fatto tre quarti del campo di corsa. Ma è sotto gli occhi di tutti che quella messa in atto da Redondo era l’attività fisica sublimata per eccellenza, ovvero una danza.

 

Il contesto è importante: la partita d’andata, al Bernabeu, era finita 0-0 e in molti, a Old Trafford, davano il Real spacciato. Il Manchester United non perdeva in casa da due anni. Prima della partita

aveva ricoperto la prima pagina di scritte come: “Il Manchester non ci spaventa”. Anni dopo Ivan Helguera avrebbe ammesso: «La verità è che eravamo piuttosto spaventati».

 

Del Bosque aveva messo in campo una formazione molto offensiva. Tre difensori, due esterni offensivi come Salgado e Roberto Carlos; due trequartisti come Savio e McManaman e poi due punte pure come Morenties e Raul contemporaneamente assieme. Per il centrocampo aveva deciso di accentrare tutti i poteri nei piedi e nella testa di Redondo.

 

Davanti la difesa del Real Madrid, quella sera, Redondo è solo. Deve coprire una porzione di campo immensa, gestire l’atletismo di Keane e Scholes e quello, più in generale, di una squadra che nei suoi momenti migliori sembrava semplicemente saltarti addosso. Per Redondo il calcio era sostanzialmente controllo del caos. Lo è a dire il vero per tutti i centrocampisti che devono ordinare il gioco davanti la difesa. Pochi, però, hanno cercato di farlo diventare un lavoro aristocratico come Redondo, che contrastava, scivolava e dribblava senza mai sporcare il bianco immacolato del completo del Real Madrid.

 

Era un calcio in cui il contrasto di stili fra scuole calcistiche era ancora più forte. Il Manchester United era intenso, falloso, fisico ai limiti dell’intimidazione; il Real Madrid cercava di imporre quel controllo tecnico calmo e compassato che rivedremo anche con Zidane in panchina. La squadra giocava al ritmo di Redondo, che usava la tecnica per domare l’agonismo dello United.

 


L’azione della foto che descrivevamo prima.


 

Alla fine della partita Ferguson commentò la prestazione di Redondo dicendo: «Cos’ha quel giocatore, le calamite nei piedi?».

 

Quella vittoria segnerà il passaggio di testimone dal Manchester United al Real Madrid, e “

” di Redondo sarà un modo elegante di danzare sul cadavere dell’avversario. Un modo che riusciva a riassumere lo spirito freddo e aristocratico del Real Madrid, che in quel momento coincideva con quello di Redondo. Con la fascia da capitano, il numero 6, al centro del campo a governare da Re Sole.

 

Sarà la Champions League del "Taconazo": lo ricorderemo più della vittoria del Real, del 3-0 inflitto al Valencia in finale, persino di quell’eliminazione del Manchester United. «Lo ricorderemo anche tra 100 anni» ha detto Savio. Quello di Redondo è uno dei pochi gesti tecnici riusciti a rompere il velo dell’oblio collettivo, sempre così spietato nel dimenticare tutto ciò che non è gol, che non determina direttamente un risultato.

 

Il "Taconazo" è riuscito però a bucare il nostro immaginario con una potenza inedita. La verità è che pochi gesti tecnici sono riusciti a imprigionare in modo così preciso le qualità di un calciatore: l’eleganza rarefatta della corsa di Redondo, il suo senso del tempo e dello spazio, il guizzo di puro genio e il senso di improvvisazione con cui aveva elevato ad arte il lavoro del centrocampista. Redondo soprannominato “El Principe”; Redondo il borghese; che leggeva Borges e le riviste di moda, definito da Maradona “un bambino viziato”; che era stato portato al Real Madrid da un esteta come Jorge Valdano. Aveva saltato Italia 90 per dare gli esami di Economia all’università; poi aveva saltato Francia 98 perché si era rifiutato di tagliarsi i capelli su ordine del CT Passarella. Quando poi compariva con l’Albiceleste - appena 29 presenze - indossava la maglia numero 5: «Tutto quello che succede in campo passa per i piedi di chi gioca in quel ruolo. Se Gesù Cristo avesse giocato a calcio, avrebbe scelto la maglia numero 5» diceva.

 

La potenza di quel gesto è alimentata dal mito di Redondo. Dalla sua fragilità. Non c’è niente di più appropriato per racchiudere la sua carriera breve e intensa di un singolo gesto tecnico che non è neanche un gol.

 

Oggi Redondo ha preso il patentino da allenatore in Spagna. Ieri è stato intervistato da

per l’anniversario del "Taconazo". Ha una brutta tinta di capelli e gli occhiali. Parlando di quell’azione chiede di concentrarsi su un dettaglio che può sfuggire: cioè il momento che alza la testa per guardare il movimento di Raul. «Il "Taconazo" è stato un momento di ispirazione» dice Redondo, come per volerlo declassare. Come se i gesti dettati dall’ispirazione siano meno significativi di altri che sono nel DNA del giocatore, e quella pausa era la cosa che ai suoi occhi lo definiva più di quel lampo di genio.

 

Dopo quella partita Berlusconi decise di portarlo al Milan, come si fa con le opere d’arte. Scenderà in campo solo per altre 16 volte, con in mezzo due anni in cui non ha giocato e ha chiesto di non venire pagato. In mezzo un infortunio al ginocchio che ha di fatto chiuso la sua carriera. Si è ritirato a poco più di 30 anni, come un artista morto da giovane.

 

 

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