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Dario Saltari
La storia di Bebé è troppo bella per non essere vera
29 gen 2024
29 gen 2024
Dall'inverosimile passaggio allo United fino ad oggi.
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Dario Saltari
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IMAGO / Shengolpixs
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«Non riesco a chiamare “Bebé” un uomo alto un metro e novanta», dice Jorge Jesus in conferenza stampa, tra le risate dei giornalisti. Dalla panchina del Benfica urla “Tiagooo”, utilizzando il suo nome di battesimo: Tiago Manuel Dias Correia. Al suo arrivo gli aveva chiesto di cambiare il nome sulla maglia, provando a cancellare quel soprannome che gli aveva dato suo fratello maggiore e che «siccome era qualcosa di diverso, mi è rimasto attaccato per sempre». «[Jorge Jesus] Diceva che con tutto quello che avevo passato nella vita non potevo chiamarmi “Bebé”». L’ironia spietata di quel soprannome non si nascondeva nella sua altezza, e nemmeno nel suo viso immalinconito dai doveri della vita adulta o nelle mani enormi da pugile, ma nel fatto che fosse orfano, abbandonato sia dalla madre che dal padre, e cresciuto da un istituto religioso dall’età di 12 anni. Bebé è tale o non lo è stato mai da quando ha ricordi lucidi.

Quando arriva al Benfica è già, circa, a metà della sua carriera. È l’estate del 2014. Tre anni prima ha avuto uno dei due gravi infortuni al crociato del ginocchio che ne comprometteranno definitivamente la mobilità.

Aveva cominciato a giocare a calcio tra i professionisti nel più strano dei modi. Nel 2009 insieme ad altri sette ragazzi del suo orfanotrofio viene selezionato da un’associazione benefica portoghese per partecipare al Festival Europeo del Calcio di Strada, che quell’anno si tiene a Foca, in Bosnia. Su quel torneo, a cui Bebé dice di aver partecipato «per scherzo», si scrivono resoconti inverosimili. These Football Times parla di 40 gol in sole 6 partite giocate, forse per errore, dato che il Portogallo non riesce a passare nemmeno al secondo turno. Il Guardian all’epoca lo confonde con il ben più importante Homeless World Cup, il Mondiale per senza tetto, a cui Bebé invece non partecipa, nonostante il Portogallo volesse includerlo all’ultimo secondo dopo i favolosi racconti che arrivavano dalle lande balcaniche. Il dettaglio tratteggia intorno a lui un’aura di disperazione di cui forse non aveva bisogno ma che sul mercato funziona. L’Estrela da Amadora - Serie C portoghese - senza alcun preavviso gli offre il miglior contratto della rosa nonostante sia sommerso dai debiti - di fatto è l’unico che continua a pagare senza interruzioni nonostante le difficoltà.

In una stagione segna 4 gol in 26 partite: nulla per cui strapparsi i capelli eppure il suo nome continua a circolare. La sua storia è irresistibile, altrimenti come spiegarsi l’interesse del Vitoria de Guimarães, una delle più importanti squadre del Portogallo? L’Estrela da Amadora non riesce nemmeno a finire la stagione che è già fallito e Bebé è libero di firmare con chi vuole. A gestire il passaggio è il suo primo agente, Gonçalo Reis, che oggi parla da padre disconosciuto. Dice di avergli comprato le scarpe e i vestiti, di averlo accompagnato alle partite, a volte di averlo ospitato a casa sua. «Dopo gli allenamenti lo riaccompagnavo all’orfanotrofio, dove aiutava a pulire e a sistemare. Poi tutti insieme, a fine giornata, pregavano, era un obbligo». Reis gestisce il suo passaggio al Vitoria de Guimarães, con l’ingenuità di poter entrare nel feudo di Jorge Mendes senza lasciare nulla in cambio. Tredici anni prima il padre della Gestifute era diventato chi è oggi gestendo il passaggio di Nuno Espirito Santo dal Vitoria de Guimarães al Deportivo La Coruña con metodi pirateschi, e di certo nel frattempo non aveva dimenticato come si faceva. Bebé arriva nella sua sua nuova squadra, segna cinque gol in sei amichevoli pre-campionato e smette di rispondere al telefono a Reis. Nel frattempo, sospettosamente, il Vitoria de Guimarães alza la clausola rescissoria prevista dal suo contratto da tre a nove milioni di euro.

Solo pochi giorni dopo si scoprirà l’arcano. Il Manchester United attiverà la clausola pagando i nove milioni pattuiti e pochi giorni dopo il povero Reis riceverà una lettera da Bebé stesso che gli comunicava l’interruzione di ogni rapporto professionale. Il contratto iniziale di Bebé con il Vitoria de Guimarães prevedeva che il 30% dei suoi diritti economici fossero di proprietà di una terza parte, che allora in Portogallo erano ancora legali. Secondo quanto riportato da David Conn sul Guardian, mentre Reis stava provando a negoziare un accordo che trasferisse questo 30% nelle mani dello stesso Bebé, Mendes lo aveva comprato per 100mila euro. Al trasferimento al Manchester United, quindi, l’agente portoghese intasca circa 2,7 milioni di euro per i diritti economici sul suo cartellino più un altro milione circa come commissione da agente. Al Vitoria de Guimarães quindi, dei 9 milioni iniziali rimangono poco più della metà (5,4), che comunque non erano male per un giocatore che aveva acquistato a zero solo poche settimane prima. A parte Reis, non c’erano sconfitti.

«La sua storia è una favola», dice Sir Alex Ferguson alla conferenza stampa di presentazione, ammettendo che Bebé era il primo giocatore che acquistava senza averlo mai visto giocare prima. «A volte devi agire di impulso e alla fine sappiamo come sviluppare i giovani talenti».

Bebé era il sogno che la mistica portoghese, tenuta in vita dallo stregone della periodizzazione tattica Carlos Queiroz, potesse continuare a far viaggiare il Manchester United tra i più importanti club del mondo. Cristiano Ronaldo aveva lasciato per il Real Madrid solo un anno prima e i “Red Devils” avevano provato a evocare il suo simulacro attraverso altri giocatori portoghesi. Prima Nani e Anderson, e adesso Bebé, che tra loro, ancora più di loro, rappresentava quell’immaginata purezza del calcio di cui il Manchester United si sente custode. Un giocatore uscito fuori dal nulla, che non aveva mai giocato una partita in una massima serie tra i professionisti, che adesso era al “Teatro dei Sogni”. «Oggi tutti i calciatori sono cresciuti dai club ma lui non è così», disse Jorge Paixão «Ha imparato a giocare per strada e ha quella creatività naturale, quell’irriverenza, che fa tutta la differenza». Nel club in cui la vittoria sembra comparire per magia, dove aleggia il mito del “ho scovato un genio”, Bebé era una storia troppo bella per non essere vera.

Con la prima squadra giocherà sette partite segnando due gol, e oggi è difficile farsi un’idea su questi numeri, se sono davvero il segno di un fallimento o se comunque un miracolo è avvenuto. Certo, Bebé non ha incarnato la favola inverosimile che prometteva, ma la carriera normale che poi ha percorso, con la sua lunga lista di prestiti, a vederla bene è comunque una notizia. Quanti altri giocatori orfani conoscete, senza alcuna formazione giovanile, con una carriera ai massimi livelli del calcio europeo? Forse è questa consapevolezza a non far trasparire nemmeno un’ombra di rimorso nelle sue parole. Bebé ha segnato un gol in Champions League, su assist di Paul Scholes, pur avendoci giocato solo quattro volte. Ha indossato la maglia della sua squadra del cuore, il Benfica, segnando un rigore nella lotteria finale che ha portato alla vittoria della Supercoppa di Portogallo nel 2014. «Ho chiesto con insistenza all’allenatore di essere uno dei tiratori. Accentando, Jorge Jesus ha propiziato uno dei momenti più belli di tutta la mia carriera». Complessivamente, Bebé ha giocato con il Benfica appena sei partite.

Bebé ha attraversato la sua carriera come il contadino soddisfatto del suo piccolo orto, nonostante gli innumerevoli prestiti e i due infortuni al legamento crociato del ginocchio. Nella seconda parte della sua vita da calciatore è diventato un dio minore della tifoseria del Rayo Vallecano, la più popolare tra le squadre di Madrid. 182 partite per 24 gol, la ferita della retrocessione e la redenzione della risalita, l’incredibile doppietta segnata al Leganés all’inizio dei playoff del 2021 che hanno permesso alla squadra di tornare nella massima serie. Una punizione larga a sinistra sulla trequarti, premonizione di quella segnata in questa Coppa d’Africa da ben più lontano; un tiro di sinistro da fuori area dopo aver superato un avversario con un tunnel, e averne tenuto un altro con una finta di destro. Dopo quest'ultimo gol vediamo Bebé trattenere a stento le lacrime.

Solo nel 2019, quando di anni ne aveva già 29, ha deciso di rappresentare Capo Verde, «il Paese della mia famiglia che in parte è anche il mio». Bebé aveva avuto qualche presenza con le selezioni giovanili del Portogallo all’inizio della propria storia e la decisione di rappresentare Capo Verde ha il gusto dell’uomo che è venuto a patti con la propria storia. Per via della pandemia, degli infortuni e di alcuni ostacoli burocratici, però, ci ha messo circa tre anni ad esordire, e questa Coppa d’Africa è la prima competizione ufficiale in cui può davvero indossare la maglia della sua Nazionale, se non consideriamo le partite giocate per le qualificazioni mondiali. “Le belle cose arrivano sempre a loro tempo”, come ha scritto nel post con cui annunciava la sua decisione di rappresentare Capo Verde.

Oggi Capo Verde affronta la Mauritania, dopo essere arrivato primo a sorpresa in un gruppo che conteneva l’Egitto e il Ghana. È una delle storie di questa Coppa d’Africa, quella di un atollo vulcanico di circa 600mila persone rappresentato da una Nazionale composta quasi del tutto da giocatori figli della diaspora. Il CT, Pedro Brito detto “Bubista”, ha rimesso insieme i pezzi con una cura certosina, a volte contattando i suoi giocatori su LinkedIn, e c’è una certa gravità simbolica nel fatto che al suo centro tecnico e geometrico abbia messo Bebé, il cui passato capoverdiano è assente e presente al tempo stesso. “Ora i fantasmi sono qui, doppi, inquietanti e ambigui come tutti i fantasmi”, ha scritto Pietro Citati ne L’armonia del mondo “Eppure questi fantasmi parlano la nostra lingua: entrano in rapporto con noi, vivono con noi, abitano le nostre giornate, e possiamo rivolgere loro le domande che vorremmo rivolgere a noi stessi”.

Prima dell’inizio di questa Coppa d’Africa, prima della punizione da 40 metri contro il Mozambico che ha fatto riemergere la sua storia nella stampa internazionale, Bebé ha avuto un breve periodo di grazia in Spagna tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, in cui ha segnato quattro gol a distanza ravvicinata tra campionato e Coppa del Re, tra cui uno alla Real Sociedad al 97esimo che è valso un punto d'oro al Rayo. Il nome di Bebé è riemerso sulla superficie della stampa una prima volta, con una lunga intervista su Relevo.

Forse bisognerebbe dire due punizioni, visto che Bebé ci aveva provato solo pochi minuti prima da una distanza simile prendendo la traversa.

A un certo punto gli intervistatori gli hanno chiesto di tornare sull’incipit della sua storia - la decisione di sua nonna di lasciarlo in orfanotrofio all’età di 12 anni - ma nemmeno in quel momento Bebé ha deciso di abbandonarsi al rimorso. «Vivevamo con mia nonna e i miei fratelli cominciavano a prendere strade pericolose. E così ha pensato che, essendo io il più piccolo avrei potuto seguire il loro stesso cammino, e che quindi che era meglio mandarmi a Casa do Gaiato [così si chiama l’orfanotrofio, nda]. È una storia molto carina perché mia nonna mi disse che sarei rimasto solo quel fine settimana». Bebé racconta dell'adattamento, delle lacrime, delle difficoltà ma non cede mai all'occhio pietista del pubblico, che pure un ruolo nella sua carriera potrebbe averlo avuto.

«È stata la migliore decisione per me. So che se mia nonna non mi avesse portato lì, oggi io e te non staremmo parlando qui».

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