Da quando è allenatore del Real Madrid, Zinedine Zidane ha vinto otto titoli (sui dieci disponibili) in meno di due anni, di cui ben cinque nel 2017: praticamente un titolo ogni 14 partite disputate dalla sua squadra. Numeri pazzeschi per un allenatore che, prima di cimentarsi alla guida del club più titolato al mondo, aveva allenato per solo 57 partite la squadra B dei "Blancos". Non esiste al mondo un allenatore con lo stesso tasso di successo.
Ernesto Valverde nelle sue tredici stagioni da allenatore prima di arrivare a Barcellona ha vinto solo sei titoli, per circa 600 partite, di cui ben cinque in Grecia, all’Olympiakos. Il massimo risultato ottenuto in Liga è stato il quarto posto del 2014, alla guida dell’Athletic. Conosciuto da giocatore con il soprannome di “Formica” per la sua capacità di svignarsela da ala piccola e tecnica, l’ha mantenuto da allenatore per la sua abilità nel costruire sistemi di gioco solidi, con pazienza. Il suo arrivo a Barcellona sembrava in qualche modo un ritorno alla realtà per una squadra che aveva perso il terzo giocatore più forte del mondo, Neymar, e che doveva ricostruirsi e ritrovare un’identità di gioco.
Alla guida di Real e Barça, i due allenatori si erano già incontrati ad agosto, nelle sfide di andata e ritorno della Supercoppa di Spagna: vinse "la Casa Blanca" entrambe le partite, in modo nettissimo, in un modo che sembrava evidenziare una distanza così netta da non lasciar troppe speranze ai blaugrana.
Quattro mesi dopo, al primo Clásico di campionato, la situazione era già totalmente ribaltata, con il Barça primo in classifica e avanti di 11 punti: per il Real la partita del Bernabeu diventava importante quasi quanto la finale del Mondiale per club, vinta pochi giorni prima contro il Gremio.
E da campione del mondo (per il secondo anno di fila), quindi, Zidane si presentava al Bernabeu: nel corso della partita avrebbe imparato il significato del proverbio “La experiencia no anda a prisa, ni tampoco se improvisa”. Zizou sta andando molto di fretta, ma l’esperienza no, e non si può improvvisare.
L’azzardo di Zizou
La prima grande sorpresa della partita è nelle formazioni: Zidane ha deciso di schierare Kovacic a centrocampo, lasciando in panchina l’uomo della provvidenza del 2017 madridista, cioè Isco, per quello che in linea teorica dovrebbe essere un 4-3-1-2 e che invece in campo sarà tutt’altro. Il centrocampista croato è stato scelto per le sue ottime prestazioni nelle due partite di Supercoppa di agosto, quando si dedicò a un lavoro specifico su Messi, e per le sue abilità, anche fisiche, nel recuperare palloni. Per ottenere maggior controllo sull’argentino, Zidane era disposto quindi a perdere anche la magia del Madrid, cioè la capacità di dominare il pallone nelle zone centrali del campo e dettare il ritmo della partita: Kovacic è il centrocampista meno associativo tra tutti quelli in rosa.
In fase di attacco posizionale il Real si schierava con una linea di quattro attaccanti, grazie alla posizione altissima dei terzini, finendo in 1 vs 1 contro la difesa avversaria. Qui sotto però si nota la confusione di Kovacic nel proprio posizionamento.
Kovacic si appiccica a Modric e inizia a spostarsi verso il pallone. L’idea del Madrid è quella di far ruotare continuamente le mezzali, che però finiscono per capirci poco. Nell’immagine sopra si vede chiaramente anche il 4-4-2 del Barça senza palla. È evidente come il nuovo schieramento svuoti la trequarti e quasi imponga al Real di passare per le fasce: no Isco, no party.
Dall’altra parte, Valverde ha riproposto il rombo di centrocampo nella versione da battaglia, con Paulinho finto trequartista, Messi seconda punta, e Sergi Roberto terzino destro, scelto soprattutto per la sua conduzione palla al piede e le sue capacità associative: l’abilità del canterano nel posizionarsi anche dentro il campo avrebbe dovuto aiutare Messi a non abbassarsi troppo. Una scelta rischiosa è stata invece la sostituzione dell’infortunato Umtiti con Vermaelen, che ha giocato la sua quarta partita consecutiva a quasi quattro anni di distanza dall’ultima volta.
I primi 15 minuti di partita sono stati un manifesto del piano gara del Real Madrid: attaccare in pressione alta l’inizio azione del Barça, mantenendo la linea difensiva altissima, costringendo così il rombo blaugrana ad abbassarsi e disconnettere Suárez da Messi. In fase offensiva, attaccare in ampiezza grazie alla posizione da vere ali dei terzini, oppure cercare immediatamente la transizione offensiva sfruttando il mismatch di velocità in fascia tra Cristiano Ronaldo e Sergi Roberto.
Tutte soluzioni che riescono perfettamente, e che sembrano immediatamente inclinare la partita dalla parte dei "Blancos", che anche a livello di intensità sembrano superiori.
A livello di modulo, il Real adotta una sorta di 3-3-4 con il pallone, e un 4-1-3-2 senza palla: decidendo quindi di spostare il suo abituale gioco tra le linee sulle fasce, per colpire il Barcellona sfruttando uno dei difetti strutturali del rombo: la difficoltà nel difendere l’ampiezza.
Difensivamente invece il Real Madrid ha messo in pratica un sistema di pressione orientato all’uomo su inizio azione del Barça: Kovacic su Busquets, Casemiro su Messi, e 1 vs 1 a tutto campo. Qui sotto, nella seconda immagine, vediamo come il Real è stato capace di mandare in tilt l’inizio azione del Barça spingendo il rombo troppo in basso: c’è solo Suárez nella metà campo avversaria e Ter Stegen proverà un inutile lancio proprio verso l’uruguaiano. Da notare, anche, Kroos che tranquillizza Kovacic (deputato a marcare Busquets) invitandolo a rimanere lì su Rakitic, che scambia spesso posizione con Busquets.
Il piano di Valverde, invece, sembrava improntato a un sano realismo: il Barça ha usato il possesso come arma di rallentamento del gioco, per ridurre i ritmi del Real Madrid e provare a ordinare posizionalmente i propri giocatori. Anche i Blaugrana vogliono sporcare l’inizio azione madridista, ma tendono ad accorciare sul portatore soprattutto quando è in fascia, facendosi aiutare dalla linea laterale. Il problema di questa strategia è che, nel primo tempo, il Barça sembra quasi non avere possibilità di attaccare: Messi è costretto ad abbassarsi per aiutare a far risalire il pallone, isolando così Suárez, mentre Paulinho vaga per il campo quasi astenendosi dalle fasi di controllo del pallone. In ripiegamento il Barça si posiziona in un semplice 4-4-2 con linee molto strette, correndo il rischio di lasciare il lato debole scoperto e di andare in uno contro uno con la linea offensiva del Real.
Nel primo tempo il Real riesce a disconnettere il trio offensivo del Barça, spingendo Messi ad abbassarsi: qui Suárez è disperatamente solo e corre verso il fuorigioco.
La capacità del Real di recuperare palla in alto (ben 9 volte sulla trequarti avversaria) ha determinato il piano tattico del primo tempo: il sistema di pressione orientato all’uomo visto sopra ha permesso al Real di disattivare il Barcellona, sia privandolo di soluzioni in mezzo al campo (tranne per i soliti illuminanti passaggi del portiere Ter Stegen), sia eliminando ogni connessione tra l’unica vera punta, Suárez, e il resto della squadra. La linea difensiva molto alta dei Blancos concedeva molto spazio alle proprie spalle, ma con consapevolezza: la difficoltà nell’attacco della profondità è uno dei difetti di questo Barça di inizio stagione. Così facendo, i "Merengues" riuscivano ad attivare l’attacco sulle fasce, la loro opzione di giornata, ma non riuscivano a rendersi davvero pericolosi, come il dominio del contesto tattico gli avrebbe dovuto permettere.
In questo caso, è stato un difetto strutturale del Real Madrid ad emergere in tutta la sua evidenza: gli scarsi movimenti dei suoi attaccanti dentro l’area, e in particolare le grandi difficoltà di Benzema, e la stranissima tendenza di Cristiano Ronaldo a sbagliare grandi occasioni (quel liscio al centro dell'area di rigore, da un’azione paradigmatica del Real, grida ancora vendetta). Nell’unica occasione in cui Benzema si è ricordato delle sue capacità, ha bruciato nettamente Vermaelen (che non è mai stato un buon marcatore), colpendo il palo esterno con un colpo di testa. L’altro problema del Real era sulle posizioni dei suoi centrocampisti, che ruotavano spesso, forse troppo, e che ne riducevano l’importanza nel gioco: l’unico davvero in controllo era Modric, che però riuscirebbe ad elaborare il contesto tattico anche di una partita a flipper.
La densità del Barça in zona palla, con la linea difensiva altissima, impongono a Modric di scappare all’indietro.
La bontà della strategia di pressione del Real nel primo tempo era confermata dall’insolita imprecisione di Busquets, che a metà del primo tempo registrava una percentuale per lui preoccupante di precisione dei passaggi (circa il 70%), e alla ricerca del lancio lungo, sia per Suárez che per Paulinho, ben coperti dalla velocità di Varane e Ramos nello spazio. Valverde non è rimasto a guardare e ha cominciato a muovere le sue pedine: abbassando Rakitic nell’inizio azione, quasi a formare un doble pivote, e avanzando invece Paulinho all’altezza di Suárez, mentre Messi, quasi naturalmente, si era già abbassato, e si era spostato sulla fascia destra, dove poteva trovare molti più spazi vista la propensione offensiva di Marcelo.
Paulinho centravanti occulto del Barça: si lancia in profondità sull'assist delizioso di Messi, che Kovacic marca a un metro di distanza.
Con questi piccoli aggiustamenti, il Barça è riuscito comunque a creare l’occasione più nitida del primo tempo, grazie all’incredibile senso dello spazio di Paulinho e alla visione di gioco di Messi, a cui ha risposto Keylor Navas con una grande parata. Il primo grande scricchiolio del sistema liquido del Real, a cui nessuno poteva immaginare cosa sarebbe seguito.
Immarcabile
I compiti di Kovacic durante il primo tempo sono stati effettivamente sorprendenti: il croato aveva il compito di pressare alto su Busquets in fase di inizio azione avversaria, e di marcare Messi in fase di difesa posizionale. Tutto il Real Madrid si delineava come un sistema di pressione con l’avversario come primo riferimento, una mossa rischiosissima contro il Barça: ci andò a sbattere persino Guardiola in una semifinale di Champions League, quando allenava il Bayern nel 2015.
Nel primo tempo, però, aveva funzionato molto bene perché si basava interamente sui difetti dei blaugrana: mancanza di attacco alla profondità, disconnessione tra Messi e Suárez e conseguente mancanza di fluidità nel gioco.
In realtà, già da fine primo tempo gli accorgimenti di Valverde avevano dato l’impressione di aiutare il Barça. In particolare, lo spostamento di Messi in fascia lo aiutava sia a trovare più libertà, sia a liberare il centro del campo per riabilitare Busquets, che è il vero termometro dei blaugrana.
Al rientro in campo, il contesto tattico appare stranamente differente: nei primi 6 minuti, il Barça occupa la metà campo avversaria con lunghe fasi di attacco posizionale, che lasciano al Real solo due mezze transizioni con Cristiano Ronaldo. Gli uomini di Zidane sono incredibilmente passivi, e sono quelli di Valverde che riescono a recuperare in alto il pallone: la gestione del possesso consente al Barcellona di ordinarne le posizioni e di mantenere il controllo della partita. In questo modo, il Barça riesce persino ad attivare la sua giocata preferita, cioè l’attacco alla profondità in fascia di Jordi Alba, con cross rasoterra a centro area per la punta: Suárez però spreca.
Il Real Madrid è tutto sotto la linea del pallone, il sistema di marcature è già in tilt, con Kovacic ormai posizionato a caso.
Il vantaggio del Barça arriva circa un minuto dopo, e sottolinea crudelmente i difetti del piano gara di Zidane: Kroos ha solo lo scarico in fascia o la giocata verticale per il movimento di Benzema, su cui però puntualmente chiude Sergi Roberto. In quel momento dovrebbe iniziare la transizione difensiva del Madrid, tra l’altro uno dei punti di forza della squadra in questo 2017 di vittorie, inizia invece un momento di confusione. Kroos pressa Busquets, che si libera con un dribbling magistrale e con un passaggio taglialinee serve Rakitic, che si era mosso alle spalle di Modric: una mini sintesi di che cos’è il gioco di posizione, cioè generare superiorità alle spalle della linea di pressione avversaria.
A quel punto, il disastro è servito: sulla conduzione di Rakitic palla al piede, tutti rientrano lentamente, e l’unico che potrebbe fermare quella corsa è Kovacic: ci pensa un attimo, ma poi decide di non intervenire e riavvicinarsi a Messi, l’uomo di cui deve occuparsi. Qui è evidente che la mossa di Zidane ha sortito degli effetti disastrosi: era un azzardo, non una mossa conservativa. Si sapeva, cioè, che sistemare un uomo in marcatura su Messi avrebbe potuto determinare nefasti effetti a catena. Allo stesso tempo, però, i calciatori non sono degli automi che eseguono pedissequamente i compiti a loro impartiti: qui Kovacic è mancato in intelligenza tattica individuale, cioè la capacità del singolo di interpretare il gioco nelle varie situazioni.
Il gol di Suárez sblocca il Clásico e manda in tilt il Real Madrid, che attacca in modo disordinato, tanto da subire il secondo gol con una dinamica assurda: Casemiro, come se fosse Isco, attacca in conduzione palla al piede sulla trequarti e finisce per sbattere addosso a Piquè, ovviamente. A quel punto, ancora una volta, la transizione difensiva del Real è nulla e Messi può servire splendidamente Suárez (che però prenderà il palo e scatenerà una serie di ribatutte in area che porteranno al fallo di mano di Carvajal e al gol di Messi su rigore).
Sul 2-0, con un uomo in più, il Barça ha già vinto: lunghe fasi di "tikinaccio", cioè possesso palla per riposare e difendere il risultato, senza voler attaccare la profondità, irretiscono il Madrid. Zidane inserisce Asensio e Bale, mossa disperata che produce però qualche effetto in fase offensiva, a dimostrazione dell’enorme potenziale dei Blancos, e delle rivedibili scelte del proprio allenatore.
Solo la scarsa vena realizzativa di alcuni giocatori blaugrana, in particolare André Gomes, impediscono la goleada: il 3-0 finale è opera di Aleix Vidal, con la collaborazione di Keylor Navas, e soprattutto grazie all’ennesima magia di Messi che salta Marcelo e, senza scarpino destro, serve un assist di sinistro al suo compagno. Fine della partita, e probabilmente fine anche della Liga, a meno che l’Atletico Madrid non riesca davvero ad avvicinarsi al Barça. Per il Real Madrid i punti di distanza sono adesso 14, troppi anche per la squadra con più titoli negli ultimi due anni.
Il problema della liquidità
Il calcio liquido del Real Madrid è un esperimento che sembra venire dal futuro, quando potrebbe diventare molto difficile lavorare a fondo con gruppi di superstelle con un numero di partite fuori dall’ordinario: è un adattamento alla modernità del calcio, riuscito benissimo. Eppure proprio la liquidità è allo stesso tempo il lato negativo dei Blancos: la mancanza di un’identità chiara, di un solido background tattico cui fare riferimento nei momenti di crisi, la mancanza di reti di solidarietà interne, li ha fatti sciogliere alla prima occasione. Il Barça ha sofferto per 45 minuti, ha retto i colpi, e poi ha devastato l’avversario: una squadra che in qualche modo è sembrata quasi umile, a somiglianza del suo allenatore, che ha anche indovinato la mossa di Sergi Roberto, decisivo in entrambi i gol (nel primo in fase offensiva, nel secondo in quella difensiva).
La fragorosa vittoria nel Clásico, però, non deve nascondere i diversi difetti strutturali di questa squadra, che sembra basarsi su un equilibrio “second best”: questo è il meglio che si può fare, in questo momento, ma potrebbe non essere abbastanza in Champions League. Messi è quasi sempre troppo lontano dalla porta, Suárez anima in pena si isola, Paulinho diventa fondamentale per attaccare gli spazi ma disordina la squadra e rende poco fluida la manovra. È un sistema che sembra quasi sacrificare il talento di Messi, redistribuendolo nel gioco di squadra: è più quello che l’argentino garantisce al collettivo, che quanto ne riceve. E una situazione in cui il talento di Messi non è pienamente valorizzato ed esaltato è sicuramente una situazione instabile.
Tuttavia, la prestazione di Messi nel secondo tempo è stata ancora una volta di un’altra dimensione: e quella di Zidane si è rivelata alla fine quasi una profezia auto-realizzante. Per controllare il miglior giocatore del mondo ha dovuto stravolgere il sistema, e alla fine non solo non ci è riuscito, ma è stata proprio quella mossa a determinare la sconfitta. Dall’altra parte, il miglior realizzatore del mondo, Cristiano Ronaldo, sta vivendo una fase critica: cosa resta di un finalizzatore se smette di realizzare, a volte commettendo anche errori molto goffi?
Per misurare la forza di una squadra di calcio, siamo costretti a usare il numero di titoli vinti: il fatto che solo una tra tante possa vincere, potrebbe in fondo indicarci la sua capacità competitiva, la sua forza mentale e le sue abilità tecniche. Il numero di titoli del Real ha in qualche modo consentito di chiudere gli occhi su tutte le sue enormi debolezze, dimostrate praticamente in tutte le partite e in tutte le competizioni di questi due anni.
Il fatto che il Real, la squadra campione del mondo, abbia deciso di cambiare quasi completamente il suo modo di giocare solo ed esclusivamente per contrastare Messi, ci dice che in fondo neppure i titoli riescono a darti delle sicurezze. In qualche modo, però, sembra anche evidenziare una certa subalternità di cultura calcistica dei "Blancos" nei confronti del Barça, come se neppure le vittorie riuscissero davvero a colmare un gap sia tattico che mentale: in questi 23 mesi di trionfi del Madrid, il Barça ha sempre vinto al Bernabeu (tre vittorie consecutive), dando in qualche modo l’impressione di essere la squadra migliore, anche quando invece era messa male, e con l’individualità migliore al mondo, Messi, anche quando a vincere il Pallone d’oro è stato Cristiano Ronaldo.
Se fosse un manager di un’azienda, Zidane avrebbe abbondantemente raggiunto i suoi obiettivi e sarebbe saldissimo al comando del suo gruppo di lavoro. Invece è un allenatore di calcio ed è soggetto a valutazioni profondamente differenti: al rientro dalla pausa natalizia saranno passati esattamente due anni dalla promozione del francese ad allenatore della prima squadra. Gli fece posto l’esonerato Rafa Benitez, che aveva perso un Clásico in casa in modo forse persino più spettacolare (0-4), ma che era a soli 4 punti dalla prima in classifica. Si tratta di due gestioni tecniche completamente diverse, e Zidane ha il credito di ben 8 titoli in 23 mesi dalla sua parte: ma in questo esperimento del futuro che è il Real Madrid, l’allenatore è una figura tutto sommato debole, che deve gestire uomini e legami, e che può essere sostituita continuamente al fine di riattivare i processi di intelligenza tattica/emotiva del gruppo.
Con una Liga ormai difficilmente recuperabile, la stagione di Zidane (e forse anche il suo futuro) dipendono in modo massiccio dagli ottavi di finale contro il PSG: ma se c'è una cosa che il Real sa fare, è quella di dominare i momenti decisivi della stagione. Dimostrarsi invincibili per quei 4 mesi che determinano i risultati finali di una stagione: la vera cifra del Real liquido, come una squadra di NBA che decide di fare sul serio solo nei play-off.