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Emanuele Atturo
L'eterno ritorno del Real Madrid di Ancelotti
16 gen 2024
16 gen 2024
La Supercoppa di Spagna ha dimostrato che il Real Madrid di Ancelotti è lontano dal finire.
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Emanuele Atturo
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Foto IMAGO / eu-images
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In una giornata luminosa del 1881, Friedrich Nietzsche se ne stava seduto su una roccia del lago di Silvaplana, in Engadina. Guardando il paesaggio alpino attorno ha un’improvvisa intuizione: il mondo è fatto di elementi finiti che non si creano e non si distruggono, e che eternamente sono destinati a tornare. È l’idea dell’eterno ritorno, di un tempo non lineare ma circolare, in cui l’universo muore e rinasce costantemente. Sicuramente ne avrete fatto esperienza.

La perdita momentanea delle coordinate storiche attorno, che per un attimo sembrano inadeguate al tempo dell’esperienza. Dentro questo abisso, in cui il fiume del passato e quello del futuro confluiscono, potete chiaramente vedere la faccia di Carlo Ancelotti che alza il sopracciglio, entra su un campo da calcio con le mani in tasca e, sorridente, alza l’ennesimo trofeo della sua carriera da allenatore del Real Madrid.

Così, ancora, ancora e ancora.

Domenica sera lo abbiamo visto quasi disinteressato, scettico, mentre i suoi giocatori festeggiavano ritualmente la Supercoppa di Spagna. Una vittoria roboante in finale contro il Barcellona che in fondo ha assunto una forma burocratica. Dani Carvajal ha alzato il trofeo e abbiamo avuto quella vertigine abissale: quante volte lo abbiamo visto, con quella faccia media e indistinguibile, alzare una coppa con la maglia del Real Madrid? In che anno siamo?

Sono dieci anni che Carvajal gioca nel Madrid e nel frattempo ha vinto 24 trofei. Probabilmente in questo tempo voi vi siete laureati, avete trovato lavoro, avete fatto dei figli, la percezione del vostro posto nel mondo è cambiata diverse volte. Sullo sfondo dei vostri cambiamenti Carvajal ha continuato ad alzare trofei, insieme a Carletto, Modric, Kroos e al resto del presepe madridista che arreda la nostra vita da quando eravamo ragazzini. Un presepe in cui, a un certo punto, Lucas Vazquez entra sempre dalla panchina, perenne scudiero di giocatori più talentuosi di lui.

Se il calcio serve anche a scandire il tempo, il tempo delle nostre vite, il Real Madrid invece non fa che confonderci e farci sentire in un eterno presente.

Eppure sembrava tutto finito, appartenente al passato, pochi mesi fa. Ancelotti sembrava aver firmato un pre-accordo per diventare CT del Brasile e sarebbe rimasto solo un altro anno sulla panchina del Real Madrid per pigrizia, o per mancanza d’alternative, o solo perché il Real Madrid è diventato una di quelle istituzioni a cui non serve nessuno alla guida, che avanzano nella storia seguendo solo il peso della tradizione. Dotate di un potere indipendente da ogni contingenza. Allora tanto valeva tenere Ancelotti, che conosce le stanze e i corridoi del Real Madrid come un antico monarca asburgico conosce le vaste sale di Schonbrunn. Per la stessa ragione era stato chiamato a tornare al Real Madrid due anni fa, mentre aveva appena fallito al Napoli e poi all’Everton, e la sua carriera sembrava in declino.

Il Real Madrid stesso sembrava in declino, pronto ad attraversare un periodo di transizione prima di completare l’acquisto di Mbappé, trovare un allenatore alla sua altezza, rilanciarsi in un modo o nell’altro. Del resto aveva vinto talmente tanto che Florentino poteva ragionare senza i tempi isterici del calcio, ma con quelli lenti e pesanti dei grandi imperi che si proiettano in un tempo storico. Consapevole che tutti i club vivono di alti e bassi, assecondando i cicli di rotture e ricostruzioni che appartengono alla fisiologia del calcio. Il suo, però, è l’impero su cui non tramonta mai il sole.

E così, nell’anno che avrebbe dovuto essere di ricostruzione, il Real Madrid ha vinto la Champions League, i vecchi giocatori, con l’aiuto dei nuovi, hanno continuato a esercitare la propria aura sapienzale nelle notti europee, piegando il calcio verso territori poco razionali.

Una delle campagne europee più travagliate e folli, eppure Carlo Ancelotti sul pullman con Rodrygo, Militao e Vinicius, sigaro e occhiali da sole, sembrava aver ottenuto quel risultato senza il minimo sforzo.

Nella scorsa stagione abbiamo notato un piccolo logoramento nel Real Madrid, sempre lo stesso, ancora capace di ribaltare le eliminatorie di Champions, ma incapace di fronteggiare la brutalità competitiva del Manchester City, o la solidità difensiva del Barcellona. A fine stagione sono stati solo trofei minori: una Coppa del Re, un Mondiale per club, una Supercoppa europea.

A gennaio del 2023 il Real Madrid aveva perso la finale di Supercoppa di Spagna contro il Barcellona e sembrava un momento di avvicendamento, tra un Madrid in lieve declino e un Barcellona in grande ascesa. Tra una squadra troppo poco strutturata per il calcio contemporaneo, e con la maggioranza dei migliori talenti in deperimento, e una con un tecnico giovane e che stava riabbracciando la propria antica gloria di palleggiatori di centrocampo. Aveva segnato Gavi, e poi Pedri, e i due si erano abbracciati dopo il terzo gol. Il Real Madrid sembrava il passato, il Barcellona il futuro.

Dodici mesi dopo i ruoli si sono ribaltati, o forse le squadre hanno solo recuperato lo stato naturale delle cose. Il Barcellona è in tilt: Lewandowski ha smesso di segnare, ter Stegen è infortunato e la guida tecnica di Xavi sta mostrando le prime crepe. La squadra è rigida, poco brillante col pallone, il Real Madrid invece, beh, ha vinto 4-1. La squadra è virtualmente prima nella Liga, non perde una partita da fine settembre, ha superato il girone di Champions a punteggio pieno ed è passata sopra Atletico e Barcellona nella Supercoppa (9 gol in 2 partite). Tutto questo con una lista di infortunati che continua a crescere come una torta di Pasqua: Arda Guler, Militao, Courtois, Alaba e Vinicius Jr., rientrato pochi giorni fa. Il calcio sembra troppo semplice per il Real Madrid.

I ventidue giocatori sono concentrati su una trincea strettissima di campo, e Jude Bellingham la rompe con una verticalizzazione geniale di sinistro che manda Vinicius Jr. a segnare il primo gol della partita. Jude Bellingham che a inizio stagione è stato il singolo fattore in grado di trascinare il Real Madrid nonostante un gioco involuto, gli infortuni, la stanchezza fisica. La difesa del Barcellona resta pericolosamente alta, troppo indifferente a questa capacità del Real Madrid di trovare momenti di splendore tecnico in transizione. Indifferente alla velocità e al talento mercuriale di Rodrygo e Vinicius Jr. Nei Clasico passati, Xavi aveva usato una contromisura elementare ma efficace, schierando Araujo terzino destro per giocare in uno contro uno con Vinicius. Nel 4-3-1-2 del Madrid, però, i due brasiliani hanno calcato zone più centrali, alternandosi nell’attacco della profondità e dimostrando un affiatamento eccezionale. Nel gol del 2-0 ammiriamo il movimento a uncino di Rodrygo, che torna indietro e poi scatta in avanti per evitare il fuorigioco del Barcellona.

I tre giocatori del tridente del Real Madrid sono tutti nati dopo il 2000. Il più anziano, Vinicius Jr, ha 23 anni. Lui e Bellingham sono nei discorsi sul miglior giocatore al mondo. Non avevano questo status prima di andare al Real Madrid, è il Real Madrid ad averglielo dato. Jude Bellingham anche al Borussia Dortmund era un giocatore dal talento oltraggioso, con un eccezionale abbinamento di qualità tecniche e fisiche, eppure è da quando al Real Madrid che sta mostrando un tipo di talento diverso, eterno, intangibile, profondo. Qualcosa che ha a che fare con la classe, con una capacità di dominare il gioco che va oltre la semplice somma delle proprie qualità. Rodrygo Goes era arrivato come un’aletta flebile che dribbla sul binario, mentre ora è un attaccante completo, che conosce tutti i segreti del ruolo, e che pare giocare sollevato a qualche centimetro da terra. Vinicius Jr. è quel tipo di giocatore capace di segnare in finale di Champions League, e di segnare una tripletta in un Clasico che assegna un trofeo.

È come se la maglia, lo stemma, la tradizione finissero per contagiare questi giocatori donandogli un talento più vasto e complesso, diverso da quello degli altri. O forse è la capacità alchemica di Ancelotti di avvicinarli e farli associare tra loro scatenando reazioni chimiche. E così mentre Xavi sembra già antico e superato, troppo rigido, troppo ossessionato dalla propria traiettoria storica, Ancelotti ha da poco rinnovato il suo contratto col Real Madrid, non andrà ad allenare il Brasile, perché come disse una volta Mourinho, nessuno sano di mente lascia il Real Madrid. Xavi parla di “DNA”, di “sistema cruyffiano”: «La nostra idea non cambia se giochiamo con un centrocampo a tre o a quattro. Il nostro calcio riguarda lo scaglionamento, le triangolazioni, la superiorità numerica. È il DNA che Johan Cruyff ha instillato trent’anni fa. Nella vittoria in Supercopa dello scorso anno siamo stati molto orgogliosi del Barcellona, fedele al Cruyffismo». Dall’altra parte Ancelotti scansa queste grandi impalcature ideologiche: «Il calcio è semplice, i portieri parano, gli attaccanti devono far gol, i centrocampisti correre». Qualcuno sostiene che il calcio è semplice se hai tutto quel talento, ma è difficile stabilire quanto c’entri la sua mano invisibile, nel ricoprire questo talento di ricami d’oro, di gloria eterna. Non è nemmeno chiaro quanto ci creda, Ancelotti, a queste cose, e quanto invece voglia far apparire la sua dote innata, aristocratica, impenetrabile a chi non ha il suo pedigree. Il calcio è semplice per Ancelotti, perché lui è Ancelotti, sembra volerci dire implicitamente - perché in fondo solo a lui riescono queste cose. Il modo più efficace per apparire insostituibili.

Fino a qualche mese fa sembrava inevitabile un avvicendamento con Xabi Alonso in panchina. Alonso che ha il sangue madridista, ma anche idee d’avanguardia. Eppure il Real Madrid non sembra pronto ad abbandonare a questa monarchia ancelottiana. Una monarchia comunque discreta, in cui il monarca ha un ruolo tutt’al più di garanzia - forse più un funzionario che un re. Come se solo lui conoscesse l’antica ricetta per riuscire a mandare avanti questo vecchio ma inossidabile impero. Come se allenare non avesse a che fare con idee e innovazione ma con una sapienza millenaria che si regge su principi semplici: prendere i migliori talenti al mondo, mescolare giovani e anziani, avvicinarli fra loro e aspettare che si crei una reazione chimica.

L’allenatore, allora, come una specie di sofisticato custode, di maggiordomo geniale, maestro dell’arte invisibile del mantenere tutto cosi com’è, di non lasciare che il tempo corrompa la grandezza dell’impero, che ingiallisca le pareti e ossidi l'argenteria. Un allenatore che non si dedica alla creazione ma alla cura. Eppure viene da riconoscergli un potere magico, a turbare la realtà con un’alzata di sopracciglia. Ancelotti uomo dalle azioni minime e gli effetti massimi, custode di un impero su cui non tramonta mai il sole.

Come ogni stagione del Real Madrid, anche questa si deciderà in Europa, dove sappiamo che il calcio diventa un affare di margini minimi. Il Madrid ha spesso dimostrato di saperli governare meglio di altri, e oggi è difficile pensare a una squadra che possa partire favorita con lei in un doppio confronto. Anche dovesse andare male, non importa, perché il tempo del Real Madrid non è il nostro tempo. Chissà dove sarete, che vestiti indosserete, se i vostri capelli saranno già bianchi, quando tra dieci anni Carvajal alzerà un altro trofeo con la maglia storica del Real Madrid.

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