Per una parte del pubblico l’andata dei quarti di finale di Champions tra Real Madrid e Manchester City è stata una partita da ricordare, uno spettacolo riconciliante con la dimensione di puro intrattenimento del gioco, un’espressione fedele del livello più alto del calcio contemporaneo.
C’è anche chi, però, non ci ha visto tutto questo. Per alcune persone si è trattato di una partita eccessivamente caotica e con troppi errori per poter essere considerata di alto livello, o quantomeno non degna del livello massimo che due squadre qualitative come City e Real, con i loro allenatori pluridecorati, potessero offrire. Per certi versi è bello che sia così, cioè che la stessa partita possa essere vista con occhi diversi e suscitare emozioni differenti: la divergenza di esperienze e gusti è ciò che dà più vita al dibattito intorno al calcio, venendo solo dopo al senso di appartenenza e rappresentanza legato al tifo.
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Sono dell’idea che non bisognerebbe mai rinnegare il gusto, le preferenze estetiche. Anche per gli allenatori sono cose che contano. Le varie preferenze di “forma”, anzi, alimentano la differenza di “contenuto”, contribuendo a sviluppare delle identità di gioco, ma soprattutto modi diversi di risolvere i problemi in campo. Ha poco senso, quindi, dare una connotazione negativa, di parzialità, alle preferenze di gioco, così come avrebbe poco senso contestare a un regista o a un musicista di preferire un genere anziché un altro per esprimere meglio ciò che ha dentro, la sua arte.
Non ha senso rincorrere un’ideale tecnico puro, semplicemente perché non può esistere un’applicazione tecnica di qualsiasi natura senza un’obiettivo da perseguire e senza un’influenza soggettiva da parte di chi agisce.
Il che significa anche che il forzato dualismo tra pragmatismo ed estetica, presente da parecchio tempo nel dibattito, non si può applicare veramente ai processi che guidano le scelte e definiscono i risultati di chi opera nel calcio: l’aspetto pragmatico non è mai oggettivo, e la preferenza formalistica non è mai del tutto astratta, anzi.
Io, ad esempio, sono tra coloro che hanno trovato la partita tra Real e City uno spettacolo di altissimo livello, anche tenendo conto degli errori che si sono visti, e soprattutto del modo in cui le due squadre e i singoli reagivano a quegli stessi errori. Un esempio: il grandissimo gol di Gvardiol arriva dopo un controllo che non era andato proprio come voleva, col pallone che si è allontanato troppo e lo ha costretto a una rincorsa tempestiva, che però gli ha aperto la possibilità (e lo spazio) di tirare in porta, tra l’altro non col suo piede preferito.
Ma torniamo all’opposizione di vedute sulla qualità della partita: dopo aver premesso che la differenza di preferenze è il sale del calcio e l’uniformità di gusto (oltre che impossibile) non sarebbe comunque auspicabile, dobbiamo anche dire che è problematico arrivare a sostenere la partita tra Madrid e City non sia stata un granché poiché oggettivamente poco “tattica”.
Prendo solo a titolo di esempio questo post di Fabrizio Biasin.
In questo caso il vero problema è la connotazione del termine “tattica”. Una parola a cui spesso in Italia si danno sfumature deterministiche e che tendiamo a separare dall’esecuzione pratica.
Un utilizzo, questo, che forse nasce dalla sovrapposizione equivoca con la parola “strategia” - che può dare un’idea più precisa, per esempio, degli accorgimenti specifici preparati dagli staff per una partita in particolare o in generale. La questione non è puramente terminologica: usando la parola “tattica” come un aggettivo - e quindi dicendo che una partita può essere più o meno tattica - la si trasforma in unità di misura dell’organizzazione, implicitamente sottintendendo che la tattica sia un qualcosa da applicare all’esecuzione e non, piuttosto, qualcosa che emerga dall’interpretazione pratica.
È parte di quella tipica visione per cui il calcio è scomponibile in elementi, come se fosse possibile separare la tecnica dalla tattica, la motivazione dall’abilità, e così via. Ho già scritto del perché questo approccio non mi convince, ma vale la pena ripetersi in breve: se intendiamo il calcio come un fenomeno complesso – dove la complessità non è sinonimo di complicazione, ma definizione di ricchezza e intreccio degli elementi che lo compongono, e della relativa imprevedibilità che ne scaturisce – allora non possiamo adottare questa visione riduzionista.
Certo, a volte abbiamo bisogno di identificare una partita come particolarmente ricca di attenzioni strategiche, di mosse e contromosse degli allenatori più evidenti, e in generale magari caratterizzate da un equilibrio più statico, da situazioni di gioco più controllabili. Questo tipo di partite effettivamente esistono. Il problema, semmai, sta nel ridurre il concetto di tattica per come viene inteso realmente - cioè di preparazione e applicazione - a una sola dimensione pratica possibile: quella del controllo e della cautela. Mentre gli equilibri tra le due squadre in campo e le dinamiche collettive che le squadre provano a far emergere in campo possono concretizzarsi in moltissimi modi, in moltissime “forme”.
Real Madrid-Manchester City è stata un esempio di ciò. Per approfondire alcuni degli spunti “organizzativi” che hanno fornito Ancelotti e Guardiola, come la struttura asimmetrica dei padroni di casa con Rodrygo e Vinicius sulla sinistra, rimando all’analisi di Fabio Barcellona. Quanto è limitante considerare una partita con tutti quei contenuti come “poco tattica”, solo perché ci sono stati diversi momenti più frenetici e qualche errore?
Del resto, dovrebbero essere state proprio le partite del Real Madrid di Ancelotti a farci capire che, a certi livelli, in questo tipo di partite a eliminazione diretta, l’adattamento al caos e all’imprevedibilità del gioco è una qualità fondamentale.
Va notato, inoltre, un certo bias da risultato finale, in questo tipo di critiche: in fin dei conti, nonostante il 3-3 finale, le due squadre hanno totalizzato un numero abbastanza esiguo di grosse occasioni da gol. Le stessi reti realizzate avevano un coefficiente di difficoltà abbastanza elevato (il City, ad esempio, ha segnato con tre tiri da fuori aerea) insomma una cosa che ci dice molto sulle qualità dei giocatori in campo ma anche su una tenuta difensiva forse non così deficitaria come si dice.
Nonostante ciò, il caos (o presunto tale) in genere disturba, così come, spesso, un tabellino ricco di gol. Si ritiene più organizzato e “razionale” qualcosa che si può riconoscere, di familiare - come ad esempio una disposizione offensiva con giocatori ad altezze e distanze regolari; oppure un approccio difensivo più contenuto.
Allora può essere utile riflettere sul modo in cui viviamo questo gioco, che è da sempre una splendida espressione di danza ai margini del caos, nonostante i continui e comprensibili tentativi di razionalizzarlo e controllarne ogni piega. Persino gli allenatori e le squadre che hanno un approccio più capillare in questo senso sembrano sempre consci del peso dell’imponderabile, della preziosità di quei momenti che rompono gli equilibri, di quelle giocate meno convenzionali che risolvono dei problemi in modi inusuali.
D’altra parte non è per questo che guardiamo le partite di calcio, per rimanere sorpresi, per cavalcare l’andamento irregolare delle partite, sentendo addosso l’adrenalina di una serie di ribaltamenti di fronte a squadre lunghe, così il nervosismo di un lungo periodo di assedio posizionale di fronte all’area di rigore?
Come possiamo ritenere che ci siano delle partite e degli approcci più logici o pragmatici a priori? Perché dovremmo considerare più “tattici” alcuni atteggiamenti piuttosto di altri?
Questo non significa che non si possano poi rilevare delle difficoltà di campo (senza però avere la presunzione di individuare con certezza nessi di causa e effetto) né sostenere che Real e City non avrebbero potuto fare in alcun modo meglio di così. Quello che ci resta, alla fine, è la ricchezza del poter vivere partite del genere abbandonandoci al piacere della scoperta, consci delle nostre preferenze ed emozioni, ma senza appellarci a un’oggettività che non esiste.