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Raúl González Blanco: l’icona del Real Madrid
07 mar 2017
07 mar 2017
In occasione dei 115 anni del Real Madrid, rendiamo omaggio al giocatore che ne rappresenta meglio la storia recente.
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In occasione del 115° compleanno del Real Madrid, avvenuto ieri, ripubblichiamo questo pezzo di Valentino Tola, uscito in una versione leggermente differente sul blog Calcio Spagnolo.

Iniziare in maniera autoreferenziale non è mai elegante, ma devo farmi perdonare. All’indomani dell’ennesima delusione spagnola al Mondiale del 2006, sono stato tra coloro i quali hanno parlato e scritto di Raúl come di un giocatore declinante, difendendo a spada tratta la decisione di Aragonés di non portarlo all’Europeo 2008, ponendo fine alla sua carriera internazionale.

Ma non era una questione personale. È che in questo brutto mondo la cronaca fa a pugni con la Storia, e se giorno per giorno è la prima ad avere sempre ragione, quando ci fermiamo un attimo ci accorgiamo che è la seconda a possedere una dignità superiore.

Quando saremo tutti morti, gli archeologi nei loro scavi non reperiranno il 5 in pagella di una partita con il Levante, ma consegneranno al museo la rete nel primo derby con l’Atlético, il gol da torero nella finale di Champions 2000, l’altro gol nella finale di Champions del 2002, lo sgorbietto che piegò il Leverkusen, quel dito che zittì il Camp Nou, le prestazioni contro il Manchester United nel 2000 e nel 2003… troveranno gol segnati in tutte le maniere, migliaia di diagonali a fil di palo, di tocchi di prima di limpida intelligenza, di corse sempre utili per i compagni, di “cucharas” e “vaselinas” (la nobile arte del pallonetto, specialità della casa, prima che Totti la facesse diventare “er cucchiajo”)… troveranno 323 gol in 741 presenze (recordman di presenze e secondo massimo goleador nella storia del club, dietro a Cristiano Ronaldo, ma davanti a Di Stefano e i suoi 307; quinto goleador assoluto nella storia della Liga con 228, dietro solo a Messi, Cristiano, Hugo Sánchez e Telmo Zarra), 6 campionati, 3 Coppe dei Campioni, 2 Intercontinentali, 1 Supercoppa d’Europa e 4 Supercoppe di Spagna.

Troveranno Raúl González Blanco, uno dei migliori giocatori spagnoli della storia.

Parte I. Wonderkid

“Il giorno prima del suo debutto gli sottoposi una questione per metterlo alla prova: Sto pensando di farti giocare titolare, ma ho paura che possa sentire troppo la pressione.” Mi guardò con una faccia sbalordita, ma capì immediatamente quello che volevo sentirmi dire: “Se lei vuol vincere, faccia giocare me. Se vuole perdere, scelga pure uno qualunque”, rispose. Alcuni giocatori sanno giocare a calcio fin dalla nascita, alcuni giocatori sono uomini prima di uscire dall’adolescenza; alcuni giocatori sono vincenti senza ancora aver vinto nulla; alcuni giocatori continuano ad imparare dopo aver avuto successo. Tutti questi casi rari si fondono in Raúl, un tipo che, tra l’altro, appare assolutamente normale. Sono sul punto di esaurire le parole. Primo: sa fare tutto bene. Secondo: lo fa ogni giorno meglio.”

Jorge Valdano su Raúl, nel suo “Il sogno di Futbolandia”. I corsivi che trovate sparsi in questo pezzo sono quasi tutti tratti da questo libro; diversamente, verranno indicati l’autore e la fonte.

Il bello di tutta questa storia è che la leggenda madridista non è altro che un colchonero fallito. Raúl González Blanco nasce infatti il 27 giugno 1977 a Madrid (Colonia Marconi, quartiere umile in periferia) da María Luisa Blanco, casalinga, e Pedro González, elettricista ma soprattutto tifosissimo dell’Atlético Madrid. Ma è lo stesso Raúl, nei suoi primissimi anni di calciatore, a vestire la maglia biancorossa, negli Infantiles dell’Atlético, con prestazioni che presto richiamano l’attenzione generale.

Il suo primo "campo d'allenamento", e le immagini della partita d'esordio a Saragozza.

Dopo gli inizi nel San Cristóbal de Los Ángeles, una squadra di quartiere, dal 1988 al 1990, ricorrendo ai classici mezzucci dei talenti così precoci da dover giocare già coi più grandi (nel cartellino si chiama Dani, e nella foto porta gli occhiali per sembrare più grande…), Raúl entra infatti nel settore giovanile dell’ Atlético. L’Atlético Infantil fa notizia anche oltre i confini della propria categoria (queste immagini hanno anche su di voi lo stesso effetto straniante? E perchè, questo dove intervista il suo futuro allenatore Schuster?), vince il campionato nazionale senza perdere una gara e Raúl, giocando centrocampista a sinistra, segna 65 gol. Promosso di categoria, nell’Atlético Cadete, vince di nuovo il campionato, ma la sua vicenda colchonera finisce qui, bruscamente.

Prima di partire in quarta con la retorica sul Destino, sui capricci del caso, sulle svolte stile “Sliding Doors”, bisogna chiarire che la sorte di Raúl è frutto di scelte responsabili. Anzi, irresponsabili, visto che parliamo di un personaggio come Jesús Gil y Gil . Questi, vivendo con la massima invadenza il presente, decise che del futuro non sapeva che farsene: quindi taglio netto, con una dubbia giustificazione finanziaria vengono eliminate tutte le formazioni inferiori dell’Atlético.

Raúl è libero, e Papà Pedro deve accettare che passi proprio al nemico: nel 1992 inizia la carriera merengue di Raúl, prima col Cadete (71 gol in 33 partite), poi promosso nel ’93 nel Juvenil B. Un anno ancora e passa al Real Madrid C, dove segna cinque gol nella partita d’esordio e totalizza 13 reti in sette partite. Troppo per passare inosservato, e quindi non solo scala subito al Real Madrid B (all’epoca in Segunda), ma comincia ad unirsi agli allenamenti della prima squadra, che lo schiera in due amichevoli, contro l’Oviedo e il Karlsruhe, entrambe concluse con Raúl a segno.

I tempi sono maturi per l’esordio in prima squadra, anche se il 29 ottobre 1994, sul campo del Zaragoza, Raúl ha solo 17 anni.

Sensazioni ambivalenti: il Madrid perde 3-2, Raúl fornisce un assist ad Amavisca ma sbaglia un gol a porta vuota dopo aver dribblato il portiere, qualche tifoso storce il naso per la trovata di Valdano, però tutto sommato l’esordio ha successo presso la critica. Poi Valdano non ha alcun dubbio, e lo conferma anche nella gara successiva, la prima al Bernabeu della carriera, nientepopodimenoche il derby con l’Atlético.

È una Teofania: Raúl segna un gol, piazzandola all’incrocio con classe e sangue freddo, in controtempo sul movimento del portiere, e inoltre procura un rigore e fornisce un assist a Zamorano. Decisivo per il 4-2 finale, e pure coperto da un’ovazione all’uscita dal campo, al 60’. Una sorta di passaggio di consegne, perchè in quella partita Butragueño, il "7" ed idolo del Bernabeu prima di Raúl, esce dalla lista dei convocati.

“Raúl si è inventato da solo. Io non sono il suo scopritore perché Raúl si scopre da solo. È di un altro pianeta.” (Jorge Valdano, "Gazzetta dello Sport” 23/8/2007.)

Poi, come si fa coi giocatori così giovani, Valdano lo rimanda qualche settimana al Real Madrid C, per tenerlo coi piedi per terra, ma sarà comunque consistente la partecipazione di Raúl nella vittoria finale della Liga. Il bottino è di 9 gol in 28 presenze (19 dall’inizio) nella Liga, 1 su 2 in Copa del Rey.

La stagione successiva, ‘95-’96, è già di piena titolarità, brillante sul piano individuale ma non priva di dispiaceri. Prende contatto con la Champions League, e i due si piacciono da subito: una tripletta con il Ferencvaros, ma il Real Madrid in generale stenta. Nel girone si becca al Bernabeu una lezione monumentale dall’Ajax “totale” di Van Gaal, e poi esce ai quarti con la Juventus, a nulla vale il gol proprio di Raúl nell’1-0 dell’andata (6 reti su 8 partite il totale della sua Champions). Prima ancora però una delusione personale per Raúl è rappresentata dall’esonero di Valdano: il mentore, al quale Raúl resterà così riconoscente da chiamare Jorge il primo figlio.

Al posto di Valdano subentra Arsenio Iglesias, il tecnico del primo SuperDepor che la storia ricordi, quello che si fermò a solo un rigore sbagliato dalla vittoria del campionato nel ’93-’94. Tecnico più difensivo di Valdano, comunque Raúl non la smette di segnare, e alla fine saranno 19 gol in 40 partite (tutte dall’inizio) di Liga, e 1 in 2 di Copa del Rey. La squadra però non riesce a piazzarsi nemmeno per la Coppa Uefa: sacrilegio.

Una tappa importante nella maturazione di Raúl la stagione seguente, quella del primo Capello. Il diretto interessato dichiarerà fondamentale per la propria carriera l’incontro con il tecnico italiano, che avrebbe portato al Madrid nuovi metodi d’allenamento e un diverso modo di vedere il calcio (come è noto Don Fabio porta gli occhiali).

Al di là delle solite critiche, spesso fumose, sull’aspetto estetico, è un grande Real Madrid, a maggior ragione quando riesce a relegare in seconda posizione un Barça che trovò il gol in 102 occasioni, vantando un Ronaldo onnipotente.

Parte II. Maturo

Capello ritaglia per Raúl una posizione già intravista con Arsenio Iglesias, non più di punta (primo o secondo attaccante che fosse) ma esterno sinistro a centrocampo nel 4-4-2. Esterno sui generis, posto che Raúl fedele alle proprie caratteristiche più che cercare il fondo taglia in diagonale verso l’area di rigore, alle spalle dei due attaccanti, Šuker e Mijatović. Questo micidiale trio totalizza circa il 75% delle reti stagionali del Madrid, e per Raúl sono 21 in 42 partite (41 dall’inizio; invece 1 in 5 partite di Copa del Rey), con alcune prove d’autore, come quella sul campo dell’Atlético, ancora una pugnalata a suo padre, anzi due, doppietta con uno dei gol più belli della carriera , forse quello con la maggior quantità di dribbling considerato il suo stile di gioco solitamente scarno.

“Raúl è la grande stella e il miglior gregario, il cittadino Stachanov e, allo stesso tempo, un poeta di periferia con due gambe di filo di ferro che si piegano, si arrestano e scelgono per il pallone un destino che si chiama gol: liberando un compagno davanti alla porta o centrando l'angolino più invisibile. Accontenta le statistiche e l'intelligenza". (Jorge Valdano)

Capello lascia dopo una sola stagione, e per Raúl il ‘97-’98 rappresenta una delle annate più difficili della carriera: non ci sono problemi col nuovo tecnico, Jupp Heynckes, che ne modifica il ruolo, perché il centrocampo passa al rombo e Raúl fa il trequartista sempre dietro il duo serbo-croato (ma proseguendo la stagione Šuker perderà il posto e Raúl avanzerà), ma il canterano trova i primi ostacoli.

La pubalgia è insidiosa, perché non impedisce di giocare ma mina il rendimento, che nei primi mesi è molto deludente. Raúl si ferma un mese, ma le insidie non finiscono: ora è la chiacchiera un po’meschina che, come sempre succede in questi casi, al cattivo rendimento in campo accompagna le insinuazioni su quello che succede fuori. Così arriva qualche fischio, uscire la notte diventa una colpa, e sulla stampa scandalistica Raúl si trasforma in bevitore e addirittura drogato. Il diretto interessato accusa il colpo e si chiude in sé al punto da entrare in silenzio stampa. Reagisce male a un paio di sostituzioni, e dopo poco più di un mese rompe il silenzio convocando una conferenza stampa nella quale chiede scusa al tecnico, ai compagni e ai tifosi, impegnandosi a maturare.

Le prestazioni continuano a non essere le più brillanti, anche se si ha un progresso con l’avvicinarsi della fine della stagione. Intanto, il Real Madrid si laurea campione d’Europa battendo la Juventus ad Amsterdam (Raúl gioca trequartista dietro Morientes e il match-winner Mijatović). Il bottino personale però è uno dei più magri della carriera, solo 10 gol in Liga (su 35 gare tutte dall’inizio), la miseria di 2 su 11 in Champions e nessun gol nell’unica presenza nella coppa nazionale.

Dopo la delusione del mondiale (la prima di una lunga serie con la maglia della nazionale), Raúl ricarica però le batterie: stagione nuova, allenatore nuovo (Guus Hiddink) e un nuovo importante successo. È lui il mattatore nella Coppa Intercontinentale col Vasco Da Gama: è suo il gol decisivo, uno dei più belli, “più raúleschi” che si ricordino, con quel caratteristico tocco di genialità applicato a finalizzazioni chirurgiche.

L'aggancio sul lancio di Seedorf è chirurgico, geniale è l'attesa, l'esitazione con la quale manda a vuoto il ritorno del difensore brasiliano, prima di un'altra piccola pausa davanti al portiere che assicura la stoccata finale col destro.

Sul piano individuale è un’annata magnifica, 25 gol in 37 partite (tutte dall’inizio), primo titolo di capocannoniere, davanti a Rivaldo, in un Real Madrid un po’ più alterno invece, secondo in Liga ma a ben 11 punti di distanza dal Barça, e in mezzo c’è stato l’esonero di Hiddink, sostituito da John Toshack. In Champions il Madrid esce ai quarti con la Dinamo Kiyv, e Raúl si ferma a 3 gol in 8 presenze (0 su 2 in Copa del Rey).

Nei primi mesi del 1999-2000 la polarità si accentua: Raúl encomiabile, Real miserabile. Il talento madridista da seconda punta ha ormai consolidato una grande intesa con Fernando Morientes, e regala un momento epico nel Clásico al Camp Nou, finito 2-2 con due reti di Raúl, uno dei quali è un’altra perla marca de la casa: in corsa, senza la possibilità di dare forza alla conclusione, col portiere Hesp subito addosso, Raúl pizzica appena il pallone, il tanto giusto per scavalcare il portiere e farlo rotolare lento e beffardo in fondo al sacco.

Il successivo dito davanti alla bocca, a zittire l'arena blaugrana, è una delle istantanee degli ultimi venti anni di calcio spagnolo.

Però il Madrid resta un pasticcio, Toshack litiga con tutti, a novembre l’esonero, e così sulla panchina approda Vicente Del Bosque, uomo del club, tecnico delle squadre giovanili, fin lì utilizzato come traghettatore un paio di volte, prima nel ’94 dopo Benito Floro e poi nel ’95, fra Valdano e Iglesias.

Proprio con Valdano e Capello, Del Bosque può essere considerato il terzo allenatore fondamentale di Raúl. Non per quello che aggiunge al bagaglio tecnico di un fenomeno conclamato, ma per il suo lato umano, elogiato fino alla noia: “Lo conobbi quando avevo 15 anni, era il coordinatore delle giovanili. Lo vedevo passeggiare, osservare, parlare col mio tecnico di allora ma mai con me. Mi incuteva rispetto e timore. Me lo ritrovai sette anni dopo. Un uomo stupendo, perché ha evitato ogni protagonismo, lasciando a noi giocatori ogni vetrina, ha evitato ogni attrito”.

Beh, a dire il vero non è che le cose vadano subito a meraviglia, se è vero che anche con Don Vicente il Madrid arriva a toccare il fondo di una sconfitta casalinga per 5-1 con il Zaragoza, e a stazionare in zone di classifica inusualmente basse. Alla fine arriverà solo quinto, ma a portare il bilancio ampiamente in attivo c’è la Champions League, la coppa del Madrid, la coppa di Raúl (il massimo realizzatore nella storia della competizione, 66 gol davanti ai 60 di Van Nistelrooy; il conto totale delle coppe europee invece lo vede a quota 67, secondo a due gol da Gerd Mueller). I merengues passano due fasi a gironi a fari spenti. Ci arrivano così, ma una volta lì la camiseta e il talento riacquistano il loro peso, e te la giochi tutta.

Il quarto di ritorno, a Old Trafford, contro lo stratosferico Manchester United del centrocampo Beckham-Keane-Scholes-Giggs è una delle più belle partite della storia recente, per intensità e livello tecnico. E a sorpresa la vince il Real Madrid, che addirittura si porta su un triplo vantaggio prima del 2-3 finale.

Del Bosque ha virato sui tre difensori centrali (con l’infortunio di Hierro, Iván Campo, Helguera e Karanka) accentrando Steve McManaman vicino a Redondo, mentre Raúl è sobrio, leggero ed affilato come nelle sue migliori versioni, gioca in appoggio a Morientes ma in quel suo indefesso sguazzare fra trequarti e area di rigore è irrintracciabile per il sistema difensivo avversario. Poi mette i due gol che tagliano le gambe allo United: il primo una perla, per il controllo in corsa con l’esterno a seguire e il sinistro a girare piazzato sul secondo palo, il secondo idem, ma per meriti esclusivamente di l’arcinoto tunnel di tacco a Berg prima di smarcare a porta vuota Raúl.

Finisce impronosticabilmente in gloria: superato anche il Bayern in semifinale, e poi regolato il Valencia di Cúper, rivelazione entusiasmante ma evidentemente ancora poco scafata. Raúl finisce la Champions da trequartista, alle spalle di Morientes e dell’ingestibile indigeribile Anelka, e in finale segna un altro dei suoi gol, classe+freddezza, freddezza+classe=Raúl. Una rete semplice semplice, ma con le modalità avvincenti di un western di Sergio Leone: contropiede con la metacampo spalancata, prima del colpo finale Raúl e Cañizares hanno tutto il tempo per guiardarsi in faccia e pensare alle rispettive mosse, e questo tempo può giocare anche a sfavore di Raúl, tante possibili opzioni possono generare alla fine imbarazzo e indecisione, invece sterzata decisa verso destra, portiere dribblato e conclusione defilata nella porta vuota, con l’angolazione astuta che beffa il ritorno di Djukic.

Con questo fanno 10 in 15 partite, capocannoniere della Champions, mentre in campionato il bottino è più contenuto, 17 gol in 34 gare (32 dall’inizio; ormai consueta la scena muta nelle 4 partite di Copa del Rey; mentre arrivano 2 gol nelle 4 gare dell’improvvisato Mondiale per club disputato in Brasile).

“Nessuno ha mai capito da dove abbia tirato fuori, questo magrolino con le gambe di filo di ferro e la faccia da uomo qualunque, la sua sicurezza quasi insolente. Nato con una intelligenza portentosa per il calcio, accetta ogni sfida, si adatta a tutte le posizioni, e risolve i problemi in modo ogni giorno più semplice. È un giocatore di sostanza, capace di distinguere con tanta chiarezza le cose importanti da quelle secondarie che non lo vedremo mai perdersi in chiacchiere, fare grosse sciocchezze o lasciarsi distrarre da polemiche assurde. Sa bene quali sono l'importanza e lo sforzo che merita ogni partita, qual è il momento chiave per dare il colpo del knock out, quando bisogna trasmettere un messaggio emozionale per contagiare il pubblico e i compagni." (Jorge Valdano)

Parte III. Galáctico

L’estate successiva segna l’inizio di una nuova pagina: la discussa era dei Galácticos, che a una prima fase ricca di successi farà seguire un finale quantomai distante dal buonsenso e dalle vittorie.

Florentino Pérez, il nuovo presidente che succede a Lorenzo Sanz, farà dell’acquisto di un campionissimo strapagato a stagione la propria bandiera. Il primo, nell’estate 2000, è Figo. Ma il protagonista resta Raúl. Reduce tanto per cambiare da un Europeo negativo con la Spagna, ha un’altra delusione con la Coppa Intercontinentale, persa col Boca e giocata francamente male, però fra le mura domestiche risulterà per la seconda volta in carriera Pichichi, con 24 gol (36 partite, 34 dall’inizio) che impreziosiscono un titolo ottenuto in relativa scioltezza.

Merengues favorite anche in Europa, ma il Bayern di Hitzfeld ed Elber stavolta gioca lo scherzetto al Bernabeu. Non basta un nuovo titolo di capocannoniere continentale per Raúl (7 reti in 12 gare). È un Raúl pienamente maturo nell’anno in cui, secondo un parere assai diffuso, meriterebbe quel Pallone d’Oro che invece viene discutibilmente assegnato a Michael Owen. Altrettanto discutibile è il terzo posto nel Fifa World Player, dietro a Figo e Beckham (!).

“Il calciatore dispendioso, che correva dietro a tutto ciò che si muoveva con l'ansia di un affamato, comprese i benefici del dosare gli sforzi, e adesso si muove con la precisione di un chirurgo. Anche quando lo feci debuttare in prima squadra a diciassette anni, non mostrava mai neanche l'ombra di un dubbio, e quando qualcosa non gli riusciva i suoi gesti non lasciavano trasparire alcun disappunto. Non che i suoi errori si cicatrizzassero immediatamente, sembravano piuttosto non causargli alcuna ferita. Oggi ha perfezionato molte altre qualità. Una su tutte: ha semplificato tanto le sue azioni che un giorno riuscirà nel prodigio di giocare non più con due tocchi o uno soltanto, ma con mezzo tocco". (Jorge Valdano)

Pazienza, altra stagione e altra nuova compagnia galáctica: Zinedine Zidane. È una stagione di aspettative smisurate, l’anno del Centenario nel quale il Madrid è chiamato a vincere tutto. Due obiettivi però li fallisce: c’è il famoso “Centenariazo”, la finale di Copa del Rey giocata nel Bernabeu nella quale secondo i piani il Deportivo dovrebbe fungere da vittima sacrificale. Invece i galiziani non sono proprio una squadretta, e, guidati da un maestoso Valerón, Sergio e Tristán assestano un uno-due nella prima mezzora che vanifica il consueto gol d’astuzia di Raúl nella ripresa.

Anche il campionato sfugge (14 in 35 gare, 34 dall’inizio; un gol a partita invece in Copa del Rey, 6 su 6), nelle ultime giornate il primo Valencia di Benítez opera il sorpasso. La nona Coppa dei Campioni però finisce a Chamartín: tutti rammenteranno la finale col Leverkusen per l’opera d’arte di Zidane che decide il risultato, però va ricordato che l’inguardabile sinistro strozzato di Raúl (sesto gol, dodicesima presenza) a inizio match vale ugualmente 1 punto sul tabellone.

Importante era stato anche il sinistro all'incrocio, questo sì un golazo, nel ritorno della semifinale contro l'arcinemico blaugrana.

Il 2002-2003 è l’ultima annata “sostenibile” del progetto-Galácticos, l’ultima di Florentino con vittorie importanti ed è anche l’ultima davvero grande di Raúl. Arriva Ronaldo, arriva la Coppa Intercontinentale contro l’Olimpia Asunción e arriva anche la Liga col sorpasso a fil di sirena sulla Real Sociedad rivelazione (Raúl ne fa 16 in 31, 30 da titolare; nessun gol nelle 2 presenze in Copa del Rey) . Però non arriva la decima Coppa dei Campioni, alla quale il Madrid sembrava destinato dopo aver brillantemente eliminato il Manchester United ai quarti. Qui c’entra parecchio proprio Raúl, ancora una volta in evidenza contro i Red Devils. Quella dell’andata al Bernabeu potrebbe essere anche considerata la massima espressione della carriera di Raúl(primo tempo, ripresa) una doppietta e una partita stratosferica, nella quale il suo gioco sobrio assume una ricchezza e profondità tali da spingere lo stesso Alex Ferguson a proclamarlo miglior giocatore del mondo in conferenza stampa.

"Conosciamo bene Raúl, però Ferguson e io ieri abbiamo scoperto un nuovo Raúl, un Raúl diverso. Perchè? Perché non è facile leggere così bene una partita, esibire tanta intelligenza. La sua capacità di sviluppare il proprio calcio al fianco di tanta gente creativa come Figo, Zidane e Ronaldo è alla portata solo di un eletto. I movimenti di Raúl sono fantastici. La sua padronanza del gioco gli consente di saper scegliere sempre l'opzione adeguata. Se Figo cambia fascia, lui copre l'altra, se Ronaldo entra, lui esce, e la sua intesa con Zidane è formidabile. La sua virtù si basa sullo stare sempre vicino a tutti, e con ciò il Madrid conserva equilibrio ed efficienza. E questo non è semplice. Nel primo tempo ci ha dato una lezione di magia calcistica."(Carlos Queiroz dopo Real Madrid - Manchester United, “AS” 10 aprile 2003.)

Forse Raúl non ha mai pesato così tanto (ricordiamo anche la bella doppietta contro il Milan nella seconda fase a gironi), ed è probabilmente la vetta di un giocatore che da lì in poi si allontanerà progressivamente da tali livelli, purtroppo prematuramente perché all’epoca ha solo 26 anni (ma per un giocatore che ha cominciato a 17, alla massima intensità e pressione, il logorio tende ad arrivare anche prima). Raúl pesa (9 gol in 12 partite), e pesa anche l’infortunio che lo costringe a saltare il ritorno a Old Trafford e soprattutto gran parte della semifinale contro la Juventus che costerà l’eliminazione: Raúl viene raccolto col cucchiaino per dargli qualche minuto nel ritorno di Torino, una scoppola memorabile anche se proprio sulla testa di Raúl nel finale capita l’occasione per qualificarsi.

La notte della vittoria del campionato è anche la Notte dei Lunghi Coltelli nella quale vengono purgati in un colpo solo Hierro e Del Bosque. Florentino non ha più freni, e sbanda di brutto: per la stagione 2003-2004 compra Beckham, liquida la classe media dei Makelele, Cambiasso & C., affida una rosa cortissima a Queiroz estremizzando il concetto dei “Zidanes y Pavones”: megastelle da una parte, canterani inesperti dall’altra, nessuna via di mezzo.

L’inizio è entusiasmante, perché il Real Madrid primeggia nella Liga, segna valanghe di gol (da ricordare un 7-1 al Valladolid con tripletta spettacolare di Raúl), ma inoltrandosi nella stagione la mediana Beckham-Guti non regge più e anche Raúl si appanna in un campionato perso di slancio dopo la figuraccia-spartiacque col Monaco in Champions. È un Raúl in progressivo appannamento, solo 11 gol in Liga (35 partite tutte dall’inizio; bene invece nella Copa, 6 gol su 7), ancora meno l’anno dopo, 9 reti per un Real Madrid a mani vuote, in pieno tramonto galáctico, che con la Juventus inaugura la clamorosa serie negativa, ancora non terminata, di uscite agli ottavi di Champions.

Parte IV. Declino

Peggio ancora la stagione dopo, se possibile: il Barça di Rijkaard e Ronaldinho continua il suo dominio, in Spagna e in Europa, e Raúl non ha nemmeno la possibilità di battersi sul campo, visto l’infortunio al ginocchio occorsogli proprio nel Clásico del Bernabeu (quando il pubblico di casa tributò un’ovazione a Ronaldinho), che lo tiene fuori 5 mesi consentendogli a malapena di tornare per i mondiali in Germania. Alla fine 26 presenze (solo 20 dall’inizio) e 5 gol, magro bottino (una sola presenza e zero gol nella Copa; 4 su 10 in Champions).

Qualcuno motiva questo scadimento nelle prestazioni con un presunto allontanamento di Raúl dall’area di rigore, man mano che con gli anni arrivavano nuovi galácticos, ma in realtà né Figo né Zidane né Ronaldo hanno mai spostato Raúl dalla sua posizione preferita di seconda punta. Semplicemente (per modo di dire, perché resta un mistero) Raúl perde quel non so che… chi scorge i filmati dei suoi gol col passare degli anni li nota persino più brutti, banali: diminuita la reattività, son basati più sul mestiere che su quella concisa brillantezza che caratterizzava il suo gioco negli anni migliori.

Nemmeno il ritorno di Capello lo risolleva del tutto. Il secondo Madrid di Don Fabio è la bruttissima copia di quello del ‘96-’97, ma vince comunque la Liga grazie al suicidio del Barça e a un orgoglio smisurato, al quale partecipa, come no, anche Raúl con qualche gol importante come quello che contribuisce all’incredibile rimonta casalinga con l’Espanyol. Sette gol in 35 partite (32 dall’inizio; 1 presenza e 0 gol nella Copa; buoni invece i 5 gol su 7 in Champions) però sono pochissimi, ancora una volta.

Con Schuster, ancora, il Madrid non supera lo scoglio degli ottavi di Champions, ma si conferma campione di Spagna, e le statistiche di Raúl migliorano sensibilmente: 18 gol in 37 partite (36 dall’inizio; 5 su 8 in Champions; 0 su 1 in Copa del Rey). Anche se non si può dire che le prestazioni tornino in tutto e per tutto quelle dei tempi migliori, ed esagerata appare la pressione dei media madrileni per un suo ritorno in nazionale.

Nemmeno fra i tifosi il consenso è più indiscusso, e qualcuno maligna su un suo eccessivo peso nello spogliatoio, che incidendo anche sulle scelte di mercato (come la discutibile cessione di Robinho nell’agosto 2008) avrebbe impedito al Real Madrid di puntare decisamente su un’accoppiata Robinho-Robben ai lati di Van Nistelrooy, posto che sulla destra del tridente (posizione solo teorica, con totale libertà di movimento a ridosso di Van Nistelrooy) Raúl non lascia alcuna possibilità.

Comunque, Raúl è tornato goleador affidabile, con 18 gol in 37 partite proprio come della stagione precedente (35 però dall’inizio; tripletta nell’unica presenza nella Copa; 3 su 7 in Champions), anche se forse la miglior prestazione la fornisce quando non riesce a segnare, nel Clásico del Camp Nou perso 2-0, la prima di Juande Ramos dopo le dimissioni di Schuster. L’ultima stagione è cronaca: Pellegrini riesce a sfilarlo dall’undici, gradualmente e senza usare scortesia, facendone una sorta di mostro sacro da usare soprattutto a partita in corso, senza eccessive pressioni, talvolta impiegato anche come cambio per Kaká o Van der Vaart sulla trequarti nel 4-3-1-2. Infatti sono solo 8 le presenze dall’inizio sul totale di 30, e 5 i gol (0 su 2 nella Copa; 2 su 7 in Champions).

È l’epilogo della sua carriera madridista, e non manca un tocco di romanticismo: l’ultimo gol ufficiale in maglia merengue Raúl lo sigla alla Romareda, sul campo del Zaragoza. Dove tutto era cominciato.

“Piace a tutti perché sa fare tutto. Conosce l'essenza del gioco, ha la capacità di semplificare le cose e va verso il gol imboccando sempre la scorciatoia. È in grado di giocare di spalle o fronte alla porta, di svariare sulle fasce o venire a cercare palla indietro, di muoversi davanti o dietro la linea immaginaria del pallone. Fa pressing, ruba palla o interrompe l'azione quando il gioco è in mano all'avversario, si fa vedere sempre se invece è la sua squadra a gestirlo, e quando riceve il pallone punta, finta, dribbla, passa e tira." (Jorge Valdano)

Parte V. Come giocava

Cos’è un campione? Un giocatore capace di scartare avversari come caramelle e buttare giù i pali con bordate da trenta metri? Un giocatore più tecnico, più potente e più veloce di tutti gli altri?

Quello che segna di più?

Non necessariamente. Necessaria per un campione oltre alla capacità di trattare il pallone è una conoscenza superiore del gioco. E questa conoscenza può passare per gesti non immediatamente visibili, ma non per questo meno determinanti. Per fare gol bisogna compiere un gesto visibile, calciare il pallone in rete, ma sulla strada verso quel gol ci sono un’infinità di altri gesti. Provate a calcolare quanti minuti a partita in media un singolo giocatore mantiene il possesso del pallone. Due-tre minuti? E nei restanti ottantasette-ottantotto cosa fa? Ha lo stesso peso sui destini della squadra, però in tv non passa.

Questo è stato un po’ il problema di Raúl, un giocatore che spesso sembra fuori dal gioco, poco portato alla giocata spettacolare, e talvolta anche poco portato a toccare il pallone, per lunghi minuti. Ma sempre in partita, come pochi. E non solo in area di rigore. Non ha gli squilli, i soprassalti di genio di altri giocatori, il suo è un talento che si estende uniformemente su tutto il terreno di gioco e su tutti i novanta minuti, garantendo soluzioni efficaci anche quando non ha il pallone. Regolarità, metodo, sacrificio, senso tattico, visione di gioco (che non è solo quella del regista che fa il lancio di 40 metri), intuito. In una parola, intelligenza calcistica, qualcosa di molto più grande del semplice “fiuto” al quale in alcune analisi viene tristemente ridotta l’essenza di Raúl, quasi fosse una specie di Inzaghi iberico…

Per quanto riguarda le qualità tecniche, la definizione di Raúl come giocatore straordinario in nessun fondamentale particolare, ma buono praticamente in tutti, coglie nel segno. Raúl non ha un tiro potente, difficile segni fuori dall’area, però bene o male trova sempre l’angolo. Raúl non è uno che mette la palla dove vuole, che taglia traiettorie velocissime o effetti sbalorditivi alla Roberto Carlos, però in carriera ha sfornato più di un capolavoro in pallonetto.

"Raúl è uno dei miei giocatori prediletti perché ho sempre preferito attaccanti che possono muoversi negli spazi come facevamo con Éric Cantona… Raúl fa questo per il Real Madrid e lo sta facendo in tutta la carriera. È un cervello calcistico meraviglioso. Non è rapido come un lampo, ma ha un cervello rapido che compensa qualsiasi carenza di velocità- ed è un finalizzatore meraviglioso”) Alex Ferguson, 19/04/2002 su Planet Football.

È uno dei pezzi forti del suo repertorio, insieme all’”aguanís” (quello del gol al Vasco Da Gama) per scartare l’avversario: anche qui, Raúl non ha mai posseduto quel dribbling secco, partendo da fermo, che aveva uno come Figo, però giocando sul controtempo ha mandato culo a terra un’infinità di difensori, e inanellato così gol meravigliosamente inconfondibili. Raúl non ha mai avuto la colla sulla pianta e sulla suola del piede come Zidane, però ha domato lanci lunghi con perfetti controlli a seguire, preparandosi per conclusioni il più delle volte essenziali ma talvolta anche di una spettacolarità quasi barocca.

“È un attaccante colossale che sa fare benissimo ciò che i difensori soffrono maggiormente: uscire dalla giocata e poi rientrarci. Così la squadra dispone, allo stesso tempo, di un centrocampista e di un attaccante." (Jorge Valdano)

Raúl non è mai stato veloce come Ronaldo (occhio però, una cosa è la reattività e rapidità dei suoi anni migliori, un’altra l’andatura arrancante delle ultime stagioni), però arriva sempre prima sul pallone. Raúl non ha mai avuto un grande colpo di testa come Morientes, però ha fatto tanti gol così, facendo valere la scelta di tempo. Raúl non è mai stato un visionario dell’assist come Guti, però si è sempre esaltato nelle triangolazioni di prima, smarcando il compagno con perfetti palloni nello spazio.

Ma come detto, ciò che nobilita il calcio di Raúl è l’intelligenza nel muoversi per il campo che valorizza tutte queste qualità in una misura superiore alla loro semplice somma. Quanto scritto da Valdano poco sopra rende l’idea. Uscire dalla giocata e poi rientrarci, con la massima intensità e le peggiori intenzioni, sempre. Ci sono molti attaccanti in circolazione che vengono incontro per appoggiare la manovra con un centrocampista: alcuni di questi però tendono a rimanere lì, talvolta a far ristagnare un po’ l’azione. Speciale nel Raúl dei tempi d’oro era la continuità e la frenesia con cui interpretava questo movimento, sapendo alternare alla costante proiezione verticale del suo gioco momenti di pausa in cui favorire e conservare il possesso-palla della propria squadra. E tutto questo, senza pausa, se mi passate l’apparente contraddizione. Uscire dalla giocata e poi rientrarci, uscire dall’area per andare sulla trequarti e poi rientrare in area, sfuggendo al radar avversario, liberandosi per la giocata fronte alla porta, per andare con la triangolazione (il suo vero “dribbling”) o tirare.

Non è mai stato un contropiedista, il paradosso è che quasi dà l’impressione di trovarsi più comodo di fronte a una difesa schierata piuttosto che in spazi ampi. Abile anche ad agevolare i compagni senza neppure toccare il pallone, coi movimenti a portare via il difensore, o ad aprire il campo offrendo in sovrapposizione, uscendo dalla giocata centralmente e rientrandovi esternamente, tanto per confondere le acque nelle difese avversarie. Notevole anche la capacità di sacrificio a palla persa, pressando ma talvolta anche abusando, va detto, della corsa demagogica spesa in situazioni non così necessarie ma utili a gasare il pubblico.

Tatticamente, ho sempre pensato che queste qualità di Raúl potessero esaltarsi maggiormente nella posizione di seconda punta. Quattro i ruoli ricoperti in carriera: seconda punta, prima punta, falso esterno a sinistra o a destra. Da unica punta se l’è cavata in più di un’occasione grazie al talento, ma i movimenti non sono così agevoli. Siccome parte dallo stesso punto dei centrali avversari, deve necessariamente giocare più sul corpo a corpo e sulla velocità, e come detto Raúl non è mai stato un prodigio di qualità naturali. Se deve prendere un pallone aereo può trovarsi a staccare da fermo con un centrale che magari lo sovrasta; per rubargli metri poi deve andare più veloce, per mantenere il possesso del pallone deve resistere a cariche di gente più grossa e attrezzata, costretto a muoversi anche spalle alla porta. Non può giocare quanto vorrebbe sulla scelta di tempo e sulla lettura dello spazio, non può arrivare a fari spenti e sorprendere. Non può uscire dalla giocata e rientrarci, torniamo sempre lì.

Da trequartista può partire e arrivare alla conclusione più libero, però non è un rifinitore. Deve permettersi di poter uscire dalla giocata, e quindi non può essere il giocatore su cui imperniare una manovra, da sollecitare in continuazione per scegliere la direzione e i tempi del gioco. Devono esserci altri con queste caratteristiche, e Raúl li supporta “ronzando” alla sua maniera, dando costantemente l’appoggio (“sempre vicino a tutti”, come diceva Queiroz) e inserendosi per la conclusione. Mai stato un numero 10, chiaro. Anche partire da esterno gli garantiva l’effetto sorpresa, con i tagli senza palla, però la posizione migliore resta quella di seconda punta, perché non lo allontana eccessivamente dall’area e al tempo stesso non lo schiaccia sui centrali avversari, oltre a preservarne maggiormente le energie in fase di ripiegamento.

Parte VI. La nazionale

È opinione comune che la Nazionale spagnola rappresenti la pagina “nera” della carriera di Raúl, quella che ne ridimensiona la figura. Questo in parte è vero, ma puntualizzazioni, contestualizzazioni e sfumature sono più che mai necessarie.

Anzitutto va ricordato che González Blanco resta pur sempre il secondo massimo goleador della storia della nazionale (qui trovate tutti i gol), con 44 reti in 102 presenze (solo Villa con 59 gli è sopra). Però resta evidente il fallimento nelle grandi competizioni, europei (2000, 2004) e mondiali (1998, 2002, 2006). Sebbene sia andato in gol in ciascuna di queste manifestazioni (tranne Euro 2004) Raúl non è mai riuscito a trascinare di peso la Roja oltre l’ostacolo. Non è stato decisivo, è rimasto intrappolato in quella spirale d’impotenza che ha afflitto la nazionale spagnola prima dell’attuale ciclo vincente. Con la buona compagnia dei Hierro, Guardiola, Luis Enrique e simili.

Insuccessi innegabili, ma relativi: da sempre sostengo l’ingiustizia delle valutazioni tarate solo su competizioni come i mondiali, che col loro valore simbolico (per il fatto di essere le più seguite a livello planetario) sembrano quasi rendere più significativo ciò che i giocatori fanno ogni quattro anni, in un mesetto scarso, rispetto a ciò che producono nel lasso di tempo fra mondiale e mondiale, magari in competizioni di spessore tecnico indiscutibilmente superiore come la Champions League. E la Champions League, ricordiamolo, è il regno di Raúl.

Un’obiezione particolarmente malefica alla tesi del Raúl dominante in Champions che sovrasta quello negativo della nazionale è che il Raúl di club ha potuto godere dell’ausilio di mostri come Figo, Zidane, Roberto Carlos etc… e insomma, così sono bravo anche io, con la pappa pronta. La contro-obiezione però è che Raúl si è dimostrato decisivo già prima dell’era dei Galácticos, già prima dell’estate 2000, in dei Real Madrid che già contemplavano fuoriclasse come Hierro, Redondo e Roberto Carlos, ma nel quale comunque sul piano offensivo la “figura” restava lui, indiscutibilmente. Insomma, in nazionale è andata male, peccato. È una macchia, ma può capitare.

“Quando Raúl entra in trance, torna ad avere otto anni e torna a giocare in un parco. Non importa se intorno a lui ci sono migliaia di spettatori, è talmente dentro la partita che stacca la spina dal mondo. Corre, cade, si rialza, tira, corre di nuovo, cerca la palla, la vuole, pressa, si smarca, gli arriva la palla, fallisce la conclusione, cade, si rialza, poi corre di nuovo e di nuovo la vuole." (Jorge Valdano)

Il prologo è nelle nazionali giovanili: ai 4 gol in 2 partite con l’Under 18, ai 2 in 5 con l’Under 20 seguono le 8 reti (9 presenze) nell’Under 21, con la quale però non riesce a vincere l’Europeo di categoria, giocato in casa, arrestandosi di fronte all’Italia di Cesare Maldini. In quel 1996 fanno seguito le Olimpiadi di Atlanta, in una Spagna però troppo inferiore (0-4) alla fortissima Argentina poi medaglia d’argento. Il ’96 è anche l’anno dell’esordio ufficiale nella nazionale maggiore, allora governata dall’eternamente discusso Javier Clemente. Raúl debutta il 9 ottobre a Praga contro la Repubblica Ceca, in una gara valevole per le qualificazioni mondiali. Il primo gol non tarda ad arrivare, alla terza presenza, contro la Jugoslavia (2-0). L’inserimento di Raúl avviene in una nazionale più che mai convinta delle proprie possibilità: non più l’outsider rognosa dei primi due tornei con Clemente (USA ’94 e Inghilterra ’96), ma una formazione che punta ad arrivare in fondo ai mondiali francesi, in virtù dell’organico e di una lunga striscia di imbattibilità che comprende tutto il girone di qualificazione.

Nell’undici di Clemente Raúl parte esterno sinistro, come faceva con Capello al Real Madrid, con funzioni simili perché l’interessantissimo quartetto offensivo spagnolo è basato tutto sulla mobilità e la mancanza di punti di riferimento, con Luis Enrique sulla fascia opposta e Kiko e Alfonso di punta, sempre pronti a incrociarsi, scambiarsi le posizioni e tagliare in zona gol. L’inizio sembra incoraggiante, la Spagna aggredisce la Nigeria con autorevolezza, si porta due volte in vantaggio, Raúl gioca bene e al volo su un perfetto lancio di Hierro segna un golazo da posizione defilata. Però quella con gli africani si rivela ad un’attenta analisi tecnico-tattica una partita dannatamente balorda: un po’ di rilassamento, di conservatorismo e il resto lo fa l’arcinota papera di Zubizarreta (parte della leggenda nera della Roja assieme alla gomitata di Tassotti a Luis Enrique e all’arbitraggio coreano). Il panico porta a sbattere contro il muro dei maestri della difesa paraguaiani anche nella seconda partita, e così non serve a nulla nemmeno il 6-0 alla Bulgaria, perché il Paraguay batte la Nigeria ed elimina ingloriosamente la Spagna.

Clemente tocca il fondo con la sconfitta di Cipro nella prima gara delle qualificazioni europee, e così comincia un nuovo ciclo, guidato da Camacho, che modifica lo stile (più palleggio) rispetto a Clemente e riporta su anche le quotazioni di Raúl, scoppiettante in un girone invero un po’ facile (con Israele, Austria, Cipro e San Marino), 11 gol in 9 partite, con tanto di quaterna in un esagerato 9-0 all’Austria. Ma di nuovo, con i favori del pronostico ancora più pronunciati di due anni prima, arriva la stecca. Dopo la sconfitta all’esordio con la Norvegia, la Spagna riesce a salvare capra e cavoli nel girone battendo la Slovenia (splendido gol di Raúl, sinistro da fuori che si insacca all’incrocio) e la Jugoslavia, una partita nella quale Raúl passa abbastanza inosservato pur succedendo di tutto, con la Spagna costretta a fare due gol a un quarto d’ora dalla fine, e qualificata al quinto minuto di recupero con il gol di Alfonso (partner in attacco di Raúl) che fissa il 4-3 finale. Ma nei quarti con la Francia non ci sono storie: i bleus trascinati da Zidane sono chiaramente superiori. Nonostante ciò, proprio a Raúl capita l’irripetibile occasione per portare la gara ai supplementari. Calcio di rigore, e il diretto interessato ricorda: “Se qualcuno mi avesse detto “ora sbagli”, gli avrei dato del pazzo. Ero sicuro di segnare” Talmente sicuro che sceglie la soluzione più rischiosa ma l’unica fisicamente imparabile, mirando all’incrocio. La traiettoria però è alta.

Un finale che più triste non si può per una partita nella quale Raúl non è mai riuscito a incidere come sperato.

Altro biennio e approdo senza patemi al mondiale nippo-coreano. Ecco, questo davvero poteva essere il mondiale di Raúl. Non che la Spagna fosse particolarmente convincente, ma procedeva, e Raúl finchè c’era rispondeva. Tipico del suo repertorio il bel gol alla Slovenia (controllo, finta e pallone pizzicato di punta fra le gambe del difensore, prendendo in controtempo il portiere), poi una doppietta nella terza gara col Sudafrica. Camacho, deluso da Tristán nella prima gara e mezza, si affida là davanti alla coppia storica madridista con Morientes, ma Raúl si fa male nel soffertissimo ottavo contro l’Irlanda, esce e si perde pure il quarto con la Corea del Sud.

Ora, non si può dire che la Spagna esca in questa gara per l’assenza di Raúl (sarebbe bastato che guardalinee e arbitro ci vedessero bene) però il nostro si vede negare la più ghiotta delle opportunità per lasciare finalmente il segno anche con la maglia della nazionale.

Dopo il mondiale, viene affidato un nuovo ciclo a Iñaki Sáez. Un biennio idealmente diviso a metà per Raúl, che seguono fedelmente il percorso col club. Una prima parte, fino a tutto il 2003, nel quale Raúl conferma anche con la Roja quel livello che aveva fatto arrendere Sir Alex in Champions League: il 12 febbraio, in un’amichevole contro la Germania al Son Moix di Maiorca, la brillante doppietta (gran gol il secondo) portando a 30 il conto totale gli vale il sorpasso su Hierro e il record di marcature che tuttora detiene; inoltre, i suoi tre gol (1 all’andata e 2 al ritorno fuori casa) nello spareggio con la Norvegia sono determinanti per la qualificazione all’Europeo.

Questo fino al 2003 però: col nuovo anno i Galácticos sprofondano e Raúl ne segue fedelmente la traiettoria anche in nazionale. L’Europeo portoghese è forse il peggior torneo internazionale disputato in tutta la sua carriera: zero gol, prestazioni impalpabili (anche se è palpabile il gol che si mangia contro il Portogallo nell’ultima fatale gara del girone) e subito a casa. Comincia a vedersi quel Raúl contratto, appannato e spesso in ritardo sul pallone degli ultimi anni.

Non meno triste è il suo ultimo torneo, il Mondiale 2006: Raúl ci arriva probabilmente fuori forma, non pienamente recuperato dai 5 mesi di infortunio, e infatti non parte titolare. Nel 4-3-3 di Aragonés giocano Villa, Torres e Luis García senza posizioni fisse, e danno spettacolo nel 4-0 d’esordio con l’Ucraina; Raúl ha però il merito di sfruttare la prima occasione. Contro la Tunisia entra nella ripresa, segna un gol facile, un tap-in sottomisura, però è il gol che avvia la rimonta spagnola, e un credito che gli vale la titolarità nell’ottavo contro la Francia.

Pagina quantomai ingloriosa: Raúl gioca con Villa e Torres, ma è un corpo estraneo, praticamente un giocatore in meno, e tutto l’attacco ne risente, perdendo la fluidità di movimenti delle prime gare. Non gli va comunque addossata tutta la responsabilità: quella era una Spagna ancora immatura, e a posteriori quella impartita da Zidane, Vieira e Ribery risulterà una lezione molto preziosa.

Raúl però non potrà più raccoglierne i frutti: il 6 settembre a Belfast, qualificazioni europee con l’Irlanda del Nord, giocherà la sua ultima partita con la maglia della nazionale. È il punto più basso della gestione Aragonés, e dopo questa figuraccia (sconfitta 3-2) il Sabio volterà pagina avviando una serie positiva per la quale passerà anche la vittoria dell’Europeo 2008 in Austria e Svizzera. In mezzo, una serie interminabile di polemiche fra Aragonés e la stampa (la stampa madrilena, sostanzialmente) che gli rimprovera incessantemente la mancata convocazione di Raúl.

Polemica dalla quale Raúl si tiene nobilmente fuori (unica “rivendicazione”, l’esultanza indicandosi nome e numero sulla maglietta, alternata al consueto bacio all’anello con pugni sul cuore, dedicato alla moglie Mamen), ma che si rivela francamente sgradevole per la logica campanilistico-commerciale e l’ossessività che tendono a far dipendere i destini della nazionale da un “Raúl sì-Raúl no” anche poco rispettoso nei confronti della nuova generazione di talenti spagnoli. Pure lasciando da parte le voci sull’incompatibilità fra le pretese di leadership di Raúl e il resto dello spogliatoio della Selección, tecnicamente ci sta tutta l’esclusione di Raúl.

Nemmeno la nomina di Del Bosque, cuore madridista ma ancora di più gestore di buonsenso (il gruppo vincente non si tocca), riporterà Raúl nel giro della nazionale.

E la Spagna vincerà tutto senza di lui. Anche questa purtroppo è Storia.

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