René Magritte ha dipinto almeno cinque versioni del quadro La Memoria. In quattro di esse la testa scolpita di una donna è poggiata su un muretto, con lo sguardo rivolto verso di noi e le spalle - assenti - date a differenti paesaggi marittimi. Il contesto è sempre lo stesso: il ritratto di una natura umana, più che morta, ferita. Ciò che caratterizza il viso di quella donna sono i suoi occhi pacificamente chiusi e la sua tempia insanguinata. Un viso non tumefatto ma madido di sangue, memoria incarnata di qualcosa che è accaduto sul suo corpo, protagonista di un fatto, testimone silenzioso di se stesso.
Il proprio corpo ferito è ciò che espone Jorge Costa nel subbuglio del tunnel degli spogliatoi al termine della partita di Champions League tra Porto e Milan del 20 novembre 1996. Il capitano del Porto è stato appena colpito da George Weah con una testata violenta sotto lo sguardo della polizia. Rivolto verso la telecamera, Jorge Costa vuole depositare una memoria di quel presente: mentre indica il proprio setto nasale spaccato, un rivolo di sangue continua a colargli fino sulle narici tracimando sulla sua bocca. Le sue labbra sono sporche, il mento zuppo, la striscia bianca centrale della maglia del Porto è rossa, probabilmente utilizzata per pulirsi il viso dopo il colpo subìto quasi fosse un fazzoletto. È un quadro caotico, una testimonianza vivificata. I corpi intorno a lui come atomi impazziti, si muovono senza una destinazione chiara fino a che un compagno di squadra gli appare accanto. Anche lui urla verso la telecamera e indica la ferita; un dirigente pochi secondi dopo fa la stessa cosa, come se il naso rotto di Jorge Costa reclamasse tutta una serie di gesti che mostrino la necessità d'inquadrare in maniera ancora più selettiva gli effetti dell'aggressione: un evento violento richiede un'esposizione mediatica aumentata. A distanza di anni, di fronte a quelle mani che volteggiano in aria e a quelle facce furenti si ha la sensazione di guardare la cover di un videoclip hip-hop dell'epoca: un video di TikTok ante litteram per una denuncia istantanea. Alla fine del filmato Jorge Costa fa il pollice all'insù.
Dell'aggressione non si trovano ulteriori immagini. Nella conferenza stampa successiva alla partita Antonio Oliveira, allenatore del Porto, torna sull'accaduto: «tutto il mondo deve sapere che c'è un assassino in libertà ed è un calciatore». Weah nel 1996 è all’apice della carriera: è il Pallone d'Oro in carica, il primo non europeo della storia, ed è anche un giocatore estremamente corretto, ancora mai espulso in carriera. Poche settimane prima ha segnato uno dei gol più iconici della storia del calcio. La sua narrazione, concepita sull'uscita dalla povertà e sul successo, è universalmente apprezzata. In un raptus di follia Weah rischia di rovinare la propria immagine.
In un articolo di Repubblica del 22 novembre l'episodio viene inserito all'interno di un'ipotetica deriva violenta del calcio contemporaneo. Le cause sarebbero un gioco sempre più spettacolarizzato e aggressivo, le offese in campo, la moviola come moda dell'esame autoptico delle partite e, per quanto riguarda l'Italia, di atteggiamenti fin troppo morbidi degli arbitri. Per il giornalista - l'articolo non è firmato - è come se fosse in atto una trasformazione antropologica degli atleti: da esemplari modelli di comportamento a barbari delinquenti, in un'interpretazione che vuole trasformare il campo da calcio in una protesi territoriale di una strada malfamata. Weah insomma come vittima delle provocazioni avversarie e icona corrotta dei tempi. Lo stesso articolo afferma che solo l'intervento di Adriano Galliani, qui ancora più calato nelle vesti dell'abile negoziatore, ha evitato un’immediata denuncia per lesioni che poi arriverà con qualche giorno di ritardo.
Come investigatori viene da chiedersi il movente del gesto di Weah. Fra lui e Jorge Costa c’è un residuo violento, lasciato dalla partita di andata giocata a San Siro più di due mesi prima, l’11 settembre.
È il 69’ quando, sull'1 a 1, Weah è posizionato al limite dell'area piccola di rigore. Sul cross dalla destra di Marco Simone il portiere Andrzej Wozniack si tuffa in ritardo e Weah, approfittando di una marcatura approssimativa di Jorge Costa, segna di piatto destro al volo il gol del 2 a 1. Subito dopo aver colpito il pallone Weah scivola a terra, vuole rialzarsi per esultare ma un dolore improvviso lo blocca sdraiato a terra. Le due mani si stringono, sul suo viso, c'è una smorfia di dolore mentre col braccio destro richiama l'attenzione dei medici del Milan e dei compagni di squadra. È successo qualcosa alla sua mano sinistra, precisamente al dito anulare, su cui è avvolta una piccola garza a protezione di un anello che Weah ama indossare anche durante le partite assieme ai suoi bracciali. A velocità naturale il motivo di questo improvviso dolore è difficile da capire; al replay e da un'angolazione più larga è invece chiarissimo. Nell'attimo in cui Weah cade a terra Jorge Costa arriva in ritardo dietro di lui, slitta leggermente sulle zolle dell’area piccola e, allargando il proprio piede sinistro come fosse la punta di un compasso, frena coi tacchetti sopra la sua mano: l’anello «con testa leonina di matrice “rasta”» di Weah si conficca nel dito provocandogli una ferita che verrà suturata con quattro punti. A bordo campo, mentre gli somministrano le prime cure, Weah è completamente preso dal dolore fisico. In ogni caso, nessuna manifestazione di rabbia viene espressa nei confronti di Jorge Costa. Weah un minuto dopo viene sostituito da Eranio. La partita di ritorno è distante circa settanta giorni.
Nelle cronache di venticinque anni fa successive alla partita giocata al Das Antas, l'idea che Weah possa aver consumato la propria vendetta con quella testata è una congettura vaga; l’ipotesi principale fu che avesse colpito Jorge Costa perché era stato vittima d'insulti razzisti, accusa sempre negata dal difensore. Galliani dopo l'accaduto aveva invece alluso a una serie di sputi. Sulla teoria degli insulti razzisti si basò anche la memoria difensiva del Milan di fronte alla Commissione UEFA: per l’avvocato Leandro Cantamessa «i falli in campo non c’entrano nulla», Weah era stato vittima, in realtà, del gorilla cry - verso del gorilla - «ripetuto trecento volte in faccia a George», l’ultima, quella che aveva fatto scattare la testata, proprio negli spogliatoi. Nessuna testimonianza di giocatori o dirigenti supportò però la tesi della difesa.
Di fronte alla volatilità delle parole e delle accuse di razzismo, rimane l’ipotesi della testata non come vendetta ma come effetto dei falli di gioco, un filo rosso che connette i protagonisti tra le due partite. In quella di ritorno Weah è in gran forma. Negli highlights del primo tempo lo vediamo toccare un pallone d'esterno spalle alla porta con cui prepara un tiro da dopo la metà del campo che esce poco sopra la traversa. Nel secondo tempo due azioni ravvicinate, che premiano entrambe l’inserimento di un centrocampista, ci danno l'idea di quale sensibilità avesse nel colpo di testa. Nella prima appoggia l'assist per il gol dell’1 a 0: la sponda è leggermente lunga ma di una naturalezza inesorabile, con la testa che esce leggermente dal collo per calibrare al meglio il passaggio. Davids controlla di esterno destro il pallone prima di entrare in area e segnare con un tiro al volo di sinistro che sembra colpire per fisica e violenza d'impatto una pietra più che un pallone. Nella seconda azione Weah appoggia sulla trequarti, di prima, un pallone a mezz'altezza a Baggio dopo un passaggio di Donadoni. Un rimbalzo a terra e Baggio, sempre di prima, gli ripassa il pallone con un pallonetto che Weah prolunga favorendo l'inserimento di Eranio, chiuso all'ultimo da due difensori del Porto. Qui l’ultimo passaggio sembra un meccanismo a scatto: la testa s’incassa nel collo per frustare il pallone con la giusta forza per farlo cadere davanti al compagno. Infine è coprotagonista del gol del pareggio di Edmilson, una mischia in area successiva a un calcio d'angolo in cui con aria sufficiente non allunga il piede per respingere il tiro dell'avversario.
Tra lui e Jorge Costa non sembrano esserci contatti degni di nota fino all'87’, quando, su un rinvio dalla difesa di Desailly, Weah va incontro al pallone nella metà campo del Milan. Jorge Costa lo segue con una ferocia difensiva al di sopra del normale, non vuole lasciargli spazio e lo colpisce da dietro all'altezza della coscia, facendolo rotolare almeno tre volte sul campo. Su questo fallo fischiato dall'arbitro Grabher l'espressione composta di dolore della partita d'andata è completamente sparita, ha lasciato il posto a un atto d'accusa. L'estrema vicinanza dei corpi non fa che evidenziare le due differenti posture: Jorge Costa è seduto a terra, in uno stato di calma quasi inerte, mentre Weah, che gli è sopra con una gamba, è furente, gli punta l'indice contro fino a mettergli per un istante il dito nell'occhio. Sembra dirgli “sei stato tu, ancora tu!”. A quel punto, con la stessa quiete, Jorge Costa rivolge il viso verso l'arbitro e alza il braccio destro, come se volesse segnalare timidamente un fallo di reazione di Weah. Forse è stato questo processo additivo, fatto di falli, dolori e paure a far straripare la rabbia di Weah, che negli spogliatoi attende Jorge Costa, lo punta e lo attacca. Anche Tabarez interpreta l’eccessiva e prolungata aggressività della marcatura come causa della testata: «questo Costa è stato coinvolto in molte cose successe a Weah, anche nella partita d’andata […] se c’è stata aggressione da parte di Weah non la giustifico ma la comprendo». I falli di gioco hanno la capacità sia di lasciare segni tangibili sul corpo dei giocatori sia di marchiare la loro mente, di accumularsi nelle pieghe delle partite fino a far esplodere i nervi.
Dopo aver ascoltato Vitor Baia, Hilario e il massaggiatore del Porto, Rodolfo Moura, la Commissione UEFA squalificò Weah per sei turni da scontare in qualsiasi competizione europea. «Se gli hanno dato sei giornate vuol dire che quello era il giusto», questo fu il commento minimo di Jorge Costa dopo la sentenza.
In una sorta di cortocircuito spazio-temporale, la squalifica per atti violenti venne comminata solo qualche settimana dopo che Weah ricevette a Lisbona il FIFA Fair Play Award del 1996. Come motivazione del premio si può leggere: «a dimostrazione del suo vero amore per il gioco e per aver proiettato il messaggio del fair play al pubblico più ampio possibile». Fu lo stesso Joao Havelange, presidente della FIFA, a difendere la scelta di dare il premio a Weah, considerando vere le accuse di razzismo nei confronti di Jorge Costa, ed ergendolo così ancora di più a simbolo universalmente riconosciuto. Il Portogallo diventa per Weah una terra paradossale in cui viene riconosciuta la sua sportività, il suo vero amore, e in cui si è esibito il suo eccesso antisportivo, un atto di odio.
La stagione di Weah e del Milan sarà priva di gioie. La sconfitta col Rosenborg - la partita del ritorno di Sacchi in panchina concomitante con la prima giornata di squalifica di Weah - sancisce l'eliminazione del Milan da quella Champions League nella prima delle due stagioni fallimentari berlusconiane della seconda metà degli anni Novanta. Scontata la squalifica, Weah torna in Champions League soltanto tre anni dopo, all'Ali Sami Yen di Istanbul contro il Galatasaray, in una sfida da dentro/fuori che decreta l'eliminazione del Milan. Weah segna il gol del vantaggio ma il Milan è sconfitto per 3 a 2.
A distanza di venticinque anni, l'episodio è una macchia sgrassata, il ricordo di un inciampo nella carriera straordinaria di Weah. Solo tra ottobre e novembre alcune testate hanno ricordato quel raptus principalmente perché Milan e Porto non si sfidavano in Champions League proprio da quella partita. Nel frattempo i due protagonisti hanno preso strade completamente diverse: Weah è entrato in politica ed è diventato nel 2017 il Presidente della Repubblica di Liberia, mentre Jorge Costa al momento è l'allenatore della Farense, club che milita nella Segunda Liga portoghese. In un'intervista di tre anni fa, Jorge Costa ha confermato la sua irruenza giustificandola come l’unico mezzo per fermare Weah: «ho dovuto aumentare un po' la mia aggressività. Era forte, veloce, era un animale. […] Non c'era altro modo per fermarlo». Allo stesso tempo per ricordare ciò che accadde negli spogliatoi ha usato le parole “vigliaccheria” nei confronti dell'agguato e “menzogna” nei confronti delle accuse di razzismo.
Tornando indietro nel tempo alla conferenza stampa in cui Oliveira definì Weah un “assassino”, vediamo Jorge Costa seduto sul lato destro del palco della sala. Davanti a lui ci sono cinque/sei microfoni, le tracce di sangue sul suo viso sono diminuite, si tocca le tempie, sembra avere dei giramenti di testa, due medici lo soccorrono. Che il tutto sia stato costruito ad arte o meno poco importa; la scena sembra lavorare per sottrazione rispetto ai momenti ripresi dalla telecamera negli spogliatoi: meno slancio vitale, meno sangue, meno ira. Una rappresentazione di un corpo ferito, provato, vittima di un'aggressione fuori controllo in una notte d'autunno di Oporto, quella in cui Weah, primo Pallone d'Oro non europeo, per insulti razzisti o per un fallo di gioco perse la testa.