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Rafinha e Thiago: fratelli prodigio
08 feb 2018
08 feb 2018
Storia del rapporto intimo tra il centrocampista dell'Inter e quello del Bayern.
(articolo)
8 min
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«Si è messo in porta per farmi esercitare sui tiri, mi sono messo in porta per far esercitare lui. Il calcio è sempre stato in cima all'amicizia e all'amore che proviamo l'uno per l'altro». Tra loro si dicono cose del genere, Thiago Alcántara e Rafinha.

San Pietro Vernotico (BR), Italia, 11 aprile 1991. San Paolo, Brasile, 12 febbraio 1993. C'è la carriera di un padre nell'intervallo che separa le loro nascite. Ventidue mesi, due continenti. Molto tempo dopo, diventati calciatori professionisti a loro volta, sceglieranno di rappresentare Paesi diversi. La Spagna, il maggiore, seppur dopo aver aspettato una chiamata dal Paese dei suoi genitori. Il Brasile, il minore, seppur dopo un percorso con la Roja a livello giovanile. «Parlavano di loro come dei figli di Mazinho. Oggi sono io, il padre di Thiago e Rafinha».

Entrambi furono rifiutati dal Celta Vigo, entrambi furono accolti dall'Ureca di Nigrán, qualche chilometro più a sud, accompagnati dal padre, un figlio per mano. Entrambi sono poi cresciuti nella Masia del Barcellona, lasciando casa giovanissimi («Uno dei momenti più dolorosi della mia vita» dirà la madre, «Fu più duro che bello» dirà Thiago). Nella stessa estate hanno lasciato il club per la prima volta, uno in prestito, l'altro a titolo definitivo. Negli stessi anni sono riusciti a strabiliare e a soffrire brutti infortuni, dispiacendo per come la loro solidità tecnica si accompagni alla fragilità fisica.

Thiago e Rafinha hanno anche la stessa altezza, 174 centimetri, nonostante una fisicità diversa. Sembrano giusti per il secondo, rapido e sgusciante, con i suoi lampi a volte troppo compiaciuti (“la Principessa” lo chiamano amici e compagni per la sua vanità anche fuori dal campo). Sembrano pochi quei centimetri per Thiago, solido e moderno, capace di spostare il baricentro della squadra e di rompere tanto quanto costruisce.

Fratelli.

Il giorno dell'esordio in nazionale di Thiago Alcántara do Nascimento, fu annunciato come la nascita di una stella. Era l'agosto del 2011, la Spagna era ospite dell'Italia in amichevole, al San Nicola di Bari, cioè nella regione dove lui era nato vent'anni prima. Perché è venuto al mondo in Salento, a San Pietro Vernotico, il paese dov'è cresciuto Domenico Modugno, e dove esercitava il medico sociale del Lecce. Nel 1990-91, infatti, il centrocampo del Lecce poteva vantare uno come Mazinho, che volle filmare il parto del primogenito e quasi svenne. Una stella, Thiago, la prossima certezza della Roja campione del mondo. Su di lui, in quel 2011 pesava già una clausola rescissoria di 90 milioni.

Rispetto al fratello, si è affacciato per primo sui grandi palcoscenici e da subito ha lasciato pochi dubbi sul suo valore. A ventidue anni, nel 2013, avrebbe seguito il suo maestro Guardiola da Barcellona al Bayern Monaco. «È l'unico che voglio» spiegò il tecnico in risposta a una domanda sul mercato. Se Thiago indossa la maglia della Spagna, non è stata una scelta sua. Piuttosto, la Federazione brasiliana lo ha snobbato: «È stata molto, molto ingrata con lui» si è lamentata la madre. Mazinho conferma la versione e ammette che avrebbe preferito vedere il figlio con la maglia verde-oro.

Rafinha e il padre, pochi giorni fa, a Milano.

A dodici anni, Rafael Alcántara do Nascimento gioca in porta («Soprattutto perché gli piaceva la tuta» secondo la madre). L'anno successivo, il Barcellona chiede di fargli un provino. Lui non vuole, ha paura di essere scartato. Suo padre lo porta al campo con una bugia: Andiamo a trovare tuo fratello. Così fa il il provino e lo supera. Il primo pensiero di Rafinha è la gioia di poter restare con Thiago. Va a vivere, studiare, giocare, alla Masia. Suo compagno di quegli anni sarà Mauro Icardi, che è nato sette giorni dopo di lui.

Per trovargli spazio, il Barça lo manda in prestito a Vigo, città cara. Il Celta è la squadra europea dove il padre si fermò più a lungo (lasciandosi però male con la società) e dove la famiglia si è fermata a mettere radici (insperatamente, visto che il primo giorno c'era la nebbia ed era estate: «Dove siamo finiti?» si allarmò la madre). Per Rafinha sarà una sola stagione, ma importante. Sulla panchina del club siede Luis Enrique, con cui si erano già incrociati nelle giovanili del Barcellona. E al Barcellona si ritroveranno subito dopo l'esperienza galiziana, senza che il ragazzo riesca ad affermarsi del tutto.

«Sono brasiliano, mi ci sono sempre sentito». «Mio padre ha sempre voluto vedermi con la Seleção». Quando è arrivata la convocazione del Ct Dunga, che proprio col padre ha vinto il Mondiale, per Rafinha accettarla è stata la «scelta più facile della mia vita». Un anno dopo, alle Olimpiadi di Rio, era lui a segnare uno dei rigori decisivi («Volevo entrare nel suo corpo» spiegherà Mazinho) e dare al Brasile la medaglia d'oro.

Iomar do Nascimento, “Mazinho”, classe '66, è nato in una città famosa per il taekwondo, Santa Rita, nel Nord-Est brasiliano. Tre volte campione del Brasile, ma soprattutto campione del mondo nel 1994, è stato un roccioso centrocampista difensivo. «Lo spirito battagliero è qualcosa che condividiamo e abbiamo voluto trasmettere ai nostri figli» dice la moglie Valéria Alcântara, giocatrice professionista di pallavolo, nazionale brasiliana, che per lui mollò la carriera e si trasferì in Europa.

Lecce, Fiorentina, poi Palmeiras, poi Valencia, Vigo, Elche, e infine gli ultimi mesi al Vitória. E dietro tutta la famiglia, che intanto è andata crescendo. Dopo Thiago in Italia e Rafael in Brasile, la terza figlia, Thaisa, è nata in Spagna. Lei, cestista, ha vinto il campionato nazionale di basket (da ragazzina giocava in squadra con la figlia di Valerij Karpin, María Karpina).

Nello stesso periodo in cui i due maschi fanno i bagagli per entrare nell'Academy blaugrana, Mazinho e Valéria avviano il loro divorzio. Andare a veder giocare i figli, ha spiegato Mazinho, è stata la chiave per lasciare il calcio giocato serenamente, con un gradevole senso di continuità. E addirittura di evoluzione: “Hanno entrambi qualcosa di me, ma mi hanno superato di gran lunga”.

In campo da bambini, come succedeva spesso, a margine delle partite del padre. «Volevo solo che si divertissero e mi facessero rilassare a casa, altrimenti avrei dovuto giocare con loro in garage»ricorda lui.

«È un padre, un fratello e un miglior amico. Una persona meravigliosa con un gran cuore, un carattere forte, determinato. Qualcuno di cui puoi fidarti e con cui puoi parlare di tutto». Così Rafinha racconta di Thiago. E invece così Thiago sosteneva il fratello, dopo il primo grande infortunio della sua carriera: «Ora capisco cosa intendeva mamma quando diceva: Vorrei che fosse il mio ginocchio, invece che il tuo. Perché è così che mi sento ora, pensandoti, e sono sicuro che anche mamma stia sentendo lo stesso. Le persone ci hanno sempre detto che dobbiamo lottare per i nostri sogni, ma non hanno detto che avremmo incontrato muri tanto alti e scivolosi. Eppure ne voglio scalare un altro con te».

A settembre 2015 Rafinha si era rotto il legamento crociato, per un fallo di Nainggolan. Era trascorsa una manciata di giorni dal suo esordio nella nazionale brasiliana. Perderà l'intera stagione. In quella seguente ritroverà spazio, prima di fermarsi di nuovo: infortunio al menisco, lunghi mesi di stop. Le ginocchia hanno tormentato anche Thiago (per il quale nell'area dedicata agli infortuni su Transfermarkt non basta una pagina). A colpi di ricadute ha perso un anno intero (marzo 2014-marzo 2015), e ha perso il Mondiale in Brasile. «Perché sempre io?» si chiedeva pubblicamente in un momento di sconforto.

Nella prima intervista tv in cui sono insieme, Rafinha appare timido e come preoccupato di non prendere luce al fratello, che invece dà risposte articolate e mostra il carisma del leader che fa scudo ai compagni meno esperti. Tra loro si guardano di continuo. Hanno appena giocato per la prima volta insieme nel Barcellona (dicembre 2011, contro il Bate in Champions). A ridosso della gara Thiago aveva inviato un messaggio alla madre: «Mamma, Rafa è titolare!».

Tra i due, Thiago è quello più serio, meno scherzoso, e crede dipenda dalla condizione di fratello maggiore. È uno che non perde la calma, se non quando c'è da esordire in maglia blaugrana contro il Real Madrid («Una delle poche volte in cui sono stato davvero nervoso nella mia vita»). A scuola Rafinha se la cavava sempre con fatica, mentre Thiago aveva ottimi voti e brillava nelle materie scientifiche. Secondo i genitori, caratterialmente Thiago somiglia al padre (e ne assume il ruolo, in sua assenza) e Rafinha alla madre. Calmo e riservato, il primo. Giocoso ed estroverso, il secondo, “più brasiliano”. A detta della sorella, Thiago è «un vecchio nel corpo di un giovane» e Rafa «un bambino nel corpo di un uomo».

Nel 2012 la mitica lista di «Don Balón» segnalava entrambi tra i migliori talenti Under 21 al mondo. In quella lista c'era anche un loro cugino, Rodrigo, che è nato pochi giorni prima di Thiago e oggi gioca nel Valencia (nella Champions League 2012/13 erano tutti e tre in campo per un Barcellona-Benfica).

Thiago, Rafinha e il cugino Rodrigo.

Il 6 maggio 2015 i due fratelli sono in campo da avversari nella semifinale d'andata di Champions, Barcellona-Bayern. L'intera partita per Thiago, appena 3 minuti per Rafinha. È finora il momento più alto degli Alcántara do Nascimento, un momento rarissimo per una coppia di fratelli calciatori. «Impossibile scegliere per chi tifare» alza le mani Mazinho. In finale ci andrà Rafinha, che però non la vivrà sul terreno di gioco. Da allora non ha raggiunto il fratello, che ha continuato ad alternare infortuni a grandi prestazioni con club e nazionale.

Lo scorso autunno, a fermare Thiago è stato un problema muscolare. Non è ancora rientrato. Saltare di nuovo i Mondiali, la prossima estate, suonerebbe come una beffa terribile. A diciannove anni Rafinha ha detto addio alla nazionale spagnola, nella speranza di essere chiamato dal Brasile. Ha scommesso su di sé, con un azzardo. E la chiamata poi è arrivata. Due sole presenze però, due anni e mezzo fa. Al momento di approdare all'Inter, in prestito con diritto di riscatto, ha scelto il numero 8 che portava sulle spalle nel 2016 col Brasile olimpico. L'obiettivo è chiaro: continuità nel club e nazionale brasiliana. «Vogliamo lottare per un posto al Mondiale» ha detto suo padre.

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