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Alessandro Ruta
Rafinha: come convivere con il dolore
14 nov 2019
14 nov 2019
Il calciatore brasiliano ha raccontato in un documentario la sua predisposizione dolorosa agli infortuni.
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Alessandro Ruta
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Secondo il dizionario della Treccani la resilienza, nella tecnologia dei materiali, è la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto. In psicologia, invece, si intende la capacità di reagire di fronte a traumi o difficoltà. Questa parola, resilienza, è tatuata, in italiano, sul polso destro di Rafinha, tornato in prestito al Celta Vigo, dove era cresciuto all’inizio della sua carriera, nella stagione 2013/14.

 

A fine settembre Rafinha ha giocato una partita intera dopo quasi un anno e mezzo di problemi al ginocchio. Novanta minuti al Wanda Metropolitano composti, secondo la fredda testimonianza delle statistiche, dall'87% dei suoi 54 passaggi tentati, di tre falli subiti, di due contrasti vinti e di sei dribbling riusciti.

 

0-0 il risultato finale tra l’Atletico Madrid e il Celta – un risultato grigio che per Rafinha ha significato molto. Ha dato senso alla parola “resilienza”, per l’appunto.

 



"

" è anche il titolo del bel documentario a lui dedicato, uscito di recente in Spagna e disponibile sulla piattaforma Movistar, in cui forse per la prima volta uno sportivo si mette a nudo davanti alle telecamere mostrando cosa significhi essere e come si possa convivere con l’essere "

" – quel termine preso a prestito dal dizionario sportivo anglosassone che serve a indicare quegli atleti che hanno una predisposizione a infortunarsi molto superiore agli altri.

 

Dopo quella prima buona stagione al Celta nel 2013/14, Rafinha ha giocato appena 105 partite nei successivi cinque anni (comprese le 17 all'Inter che noi tifosi italiani ricordiamo). Anche "

" comincia con un infortunio. Non il primo nella carriera di Rafinha, ma quello del 24 novembre del 2018, forse il più doloroso.

 

Si parte da un corner, l'incontro è con l'Atletico Madrid al Wanda Metropolitano - lo stesso stadio in cui il brasiliano ha “debuttato” per la seconda volta con il Celta. Finirà 1-1, con gol di Diego Costa e pareggio di Dembelé in extremis. All'inizio del secondo tempo sugli sviluppi dell'angolo Rafinha, che è entrato dopo l'intervallo per l'infortunato Sergi Roberto, riceve il pallone sulla trequarti e intelligentemente, per evitare la trappola del fuorigioco dell'Atletico, si affida al vicino Messi, sulla sinistra. È una giocata tipica del suo repertorio, molto cerebrale e poco appariscente. Un passaggio corto col mancino, su cui piomba Rodri, attuale pilastro del Manchester City: il contrasto non sembra particolarmente duro, ma la gamba del brasiliano, forse troppo rilassato, si pianta nel terreno e il ginocchio si gira.

 



 

L'azione prosegue e Rafinha inizia a zoppicare: «Ho sentito come una puntura. Per tre minuti ho provato a camminare, sapevo che mi ero fatto male, ma non capivo», spiega nel documentario. Il brasiliano continua a giocare sul dolore, non esce dal campo, e la diagnosi due giorni dopo è spietata: rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro, stagione finita. Come nel settembre 2015, quando invece l'infortunio era stato molto più evidente e doloroso, seppur all'altra gamba: un'entrata dura di Radja Nainggolan durante un Barcellona-Roma di Champions League, salta il crociato anteriore destro, stagione compromessa, sei mesi fermo.

 

O come nel 2017, menisco del ginocchio destro con ricaduta, otto mesi fuori complessivamente prima di andare in prestito all'Inter, dove invece è riuscito nell'impresa di non infortunarsi. Da quando è tornato in pianta stabile al Barcellona, Rafinha ha saltato 137 partite: praticamente quasi tre stagioni su quattro e mezzo, se contiamo, appunto, la parentesi nerazzurra.

 



Il documentario su Rafinha dura tre quarti d'ora. Il protagonista è il dolore, ma al contempo la volontà quasi sovrumana e testarda di superarlo, di andare oltre. «Mi sono alzato, e se succederà di nuovo, mi rialzerò ancora», dice quasi gridando il brasiliano verso la fine, come se questo mantra potesse farlo stare meglio anche fisicamente. O forse sperando semplicemente che non gli ricapiti.

 

Intorno a lui una ridda di preparatori, mental coach, compagni di squadra e familiari: tutti a sostenerlo in qualche modo, dando la loro opinione. Colpiscono in particolare le parole di Thiago Alcantara, il fratello, quasi un gemello in realtà: «Appena ho visto il contrasto di Rodri ho capito che ti eri fatto male, infatti sul gol dell'Atletico ti ho visto saltare in maniera strana, senza forza nelle gambe», gli dice, seduto a un tavolo apparecchiato. Poco prima è comparsa una bella foto in cui i due si danno un bacio sulla guancia in campo.

 

Anche Thiago ha avuto pesanti guai fisici al ginocchio e una serie continua di piccoli problemi muscolari: «Ciò che ho notato quando ti succedono questi infortuni è che inizi a dare molta più importanza a ciò che ti circonda, specialmente extra-calcio: il sonno o l'alimentazione ad esempio. E questo poi si ripercuote nel tuo gioco, quando torni», gli confida.

 



 

Papà Mazinho, più laconico, la mano sul mento, lo sguardo un po' perso, invece dice: «A me non è mai capitato nulla del genere al top della carriera, più verso la fine. Però questo è il calcio, è complicato, l'infortunio è una cosa che non ti aspetti, una doccia fredda, ma può succedere a tutti e quando succede, succede e basta. Tu sei forte e giovane, hai molta vitalità, la testa sulle spalle. Certo, in famiglia eravamo preoccupatissimi al momento dell'incidente». La famiglia, quindi. Non solo gli Alcantara, che appaiono come un blocco compatto e molto unito, ma il Barcellona nel suo complesso, il club, la squadra. «Ci si vede tutti i giorni per mesi, è naturale che si crei un certo tipo di rapporto», spiega Arthur, compagno di reparto e connazionale di Rafinha, dopo un pomeriggio passato a giocare a ping pong in casa, in un salotto con finestrone che danno sulla città. Con loro c'è pure Coutinho, che però non parla: «T'ho invitato cinque volte e vieni solo ora», lo rimbrotta scherzosamente Rafa all'ingresso.

 

Oppure alla festa di compleanno, al locale La Carioca: qualcuno del Barça è lì, si riconoscono Cillessen e Sergi Roberto, mentre i big non compaiono mai, se non quando Rafinha entra in un Camp Nou deserto e vede i faccioni delle bandiere blaugrana all'ingresso, Busquets, Suarez, Messi, Piqué e Sergi Roberto. «Mi guardo intorno e mi ripeto quanto sono fortunato per come e dove vivo», ripete Rafinha di continuo. Anche quando il Barcellona conquista la Liga e lui fa il giro di campo coi compagni, in lacrime, pur non avendo più giocato da quella partita al Wanda: «Ho vinto tre volte il campionato, cazzo, sono fortunato».

 

Poi, però, ripensando al tempo passato in infermeria, delle ombre tornano a oscurare il suo linguaggio. I momenti dove si è sentito più a disagio? «Lì, nel box degli infortunati o dei non convocati, vedi i tuoi compagni giocare e non puoi essere lì con loro: è frustrante, quasi preferisco rimanere in casa», borbotta mentre passa tra ali di folla con il suo suv guidato da un amico.

 



Ad accompagnare perennemente il brasiliano nel documentario è senz'altro il dolore, fisico ma non solo. Quando gli levano i punti dal ginocchio dopo l'operazione sembra proprio il reduce del Vietnam che si cuce da solo le ferite al braccio dopo la caduta, stringe i denti per il male, per il fastidio, è come se la gamba fosse quella dello spettatore, soffriamo con lui; oppure dopo una corsa in salita, siamo già nella fase del recupero, sono passati alcuni mesi dall'intervento, in cui arriva in cima a una montagna attorno a Barcellona. Sembra di essere dentro un film alla Rocky Balboa quando alza le braccia al cielo.

 

Però Rafinha non è un attore di Hollywood e tanto meno un supereroe, e d’altra parte fa di tutto per non apparire così: «Il primo mese dopo l'operazione è il peggiore, non sei per nulla autosufficiente, hai bisogno sempre di qualcuno anche per andare in bagno», si lamenta. Passo dopo passo, qualcosa migliora, ma il dolore non se ne va: «La gamba sembra un palo, se la piego mi fa ancora male».

 

C'è poco spazio per il divertimento, qualche strimpellata di chitarra in casa (non suona male), all'inizio è concentrato solo sul recupero, anche se sa che sarà lungo: «Non ho fretta, questa stagione (la scorsa, ndr) l'abbiamo data già per persa». Una prima camminata fuori dalla palestra, «per liberare un po' la mente», qualche passo in piscina, una lavagna con tante scritte tra cui un enorme "

" al centro, il colloquio col mental coach, Javier Enriquez, che lo segue da un anno. «Quando arrivano le difficoltà, si cerca una maniera di superarle, e quindi le avversità rafforzano la personalità», spiega il medico.

 



 

È questa, quindi, la resilienza? Rafinha dice di essersela voluta tatuare sul polso destro, perché è «una parola in cui mi sono identificato molto, e per questo ho deciso di metterla nel mio corpo».

 

È il 6 giugno scorso. Il dottore che l'aveva operato, Ramon Cugat, gli dice che è guarito: «Ora vai a giocare e a fare gol, perché ce n'è bisogno», lo rincuora con una pacca sul petto, è probabile che sia un tifoso del Barcellona. Nel frattempo Rafinha però è andato a Vigo – città in cui ha vissuto da piccolo seguendo gli spostamenti del papà e dove vive sua madre, a cui è molto legato. Nel frattempo, però, ha rinnovato il contratto con il Barcellona, che scadeva nel 2020, per altre due stagioni. La sua non è una resa, insomma, ma il tentativo, l'ennesimo, di reagire al dolore.

 

 

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