Domenica è iniziato il Roland Garros e, per la prima volta negli ultimi 10 anni, ovvero dalla sua prima vittoria sulla terra francese, Nadal non è il favorito. La sua vittoria è quotata 3 e 75, contro l’1 e 70 di Novak Djokovic. Per la prima volta Rafa arriva a Parigi senza aver vinto un titolo sulla terra europea e fuori dalle prime 5 posizioni in classifica ATP. Nelle ultime settimane non è riuscito a battere nessun giocatore di livello e si inizia a sussurrare di un declino inevitabile, di un ginocchio che non sembra destinato a guarire, di un fisico usurato. Dopo la sconfitta con Wawrinka ha dichiarato: «Se non vinco il Roland Garros la vita va avanti», quasi rassegnato a un ruolo di secondo piano nel torneo su cui ha costruito il proprio regno. Siamo pronti ad affrontare il declino del giocatore che ha portato il tennis nella contemporaneità?
La sorpresa
La prima volta che ho visto giocare Rafa Nadal non mi è parso granché. Era il terzo turno di Montecarlo 2003, Rafa giocava contro Albert Costa, specialista argentino della terra: rovescio a una mano, fisico premoderno, aria da aristocratico latino. Nadal a confronto sembrava uscito dalle caverne: la pelle molto scura, gli occhi piccoli e la bandana lo rendevano una versione volgare di Carlos Moya. Il suo gioco non mi entusiasmava: l’uso continuo delle palle corte, il dritto in top esasperato, il rovescio a due mani dal movimento breve e mozzo non mi sembravano nascondere niente di speciale. Al massimo si presentava come un promettente specialista della terra, una cosa di cui il tennis in quel momento non aveva certo bisogno.
Nadal batte Albert Costa in due set e a 16 anni arriva non solo a superare tre turni di un Masters Series, ma riesce anche a battere il campione in carica del Roland Garros.
Sul 6-5 30 pari servizio Costa tira un topspin incrociato in recupero incredibile. Ci sono varie cose nadalesche: le palle corte intelligenti, il gioco offensivo e difensivo ben costruito, un bozzolo di gioco a rete pragmatico.
Durante quel torneo di Montecarlo le mie attenzioni erano altrove. Richard Gasquet aveva esordito un anno prima battendo al primo turno Franco Squillari, stabilendo il record di giocatore più giovane ad aver vinto una partita di Masters (a 15 anni e 10 mesi); a fine partita Squillari dichiarò: «Da dove è saltato fuori questo qui?!». Gasquet rappresentava in quel momento la cosa più vicina a Roger Federer, che due mesi dopo avrebbe vinto il suo primo Wimbledon e stava già formando un preciso canone di talento. Gasquet giocava un rovescio a una mano più bello e armonico di quello di Federer e aveva una sensibilità di braccio commovente. Quell’anno il francese perse al primo turno, ma nessuno ci fece troppo caso, in fondo aveva 16 anni.
I telecronisti raccontavano una equilibrata rivalità a livello giovanile tra Nadal e Gasquet e mandavano in onda alcuni spezzoni dei loro incontri juniores. Nel video di una partita in Francia, nel 1999, quando i due avevano 13 anni, Gasquet sembra dominare Nadal. Il talento di Gasquet è così naturale che a 13 anni era un giocatore non troppo diverso da oggi: la pulizia e la profondità del rovescio è praticamente la stessa, in ogni colpo dà l’idea di uno nato per giocare a tennis. Nadal nel video non sembra neanche Nadal: ha una presenza sul campo completamente diversa. Lo scarso sviluppo muscolare ne mette in risalto l’altezza, 1,85, e gli dà un’immagine molto più slanciata di quella attuale. Non è ancora tormentato da tutti i tic che oggi definiscono la sua immagine nervosa, tira la seconda di servizio subito dopo la prima, senza prendere i suoi 30 secondi maniacali, sembra quasi svogliato.
A fine partita Nadal non stringe la mano all’arbitro. I suoi amici raccontano che ha un senso della competizione così morboso che dopo una sconfitta a golf è capace di non parlarti per tre giorni.
Per me non esisteva discussione: Gasquet era il talento cristallino e Nadal era il suo antagonista sfigato, quello che avrebbe vissuto di gloria riflessa, accontentandosi di vincere qualche torneo sulla terra. Ponevo l’attenzione sulle cose sbagliate, ma non ero pazzo. Fino a quel momento il tennis era uno sport con un concetto preciso di talento, c’era un’idea di come un campione doveva essere: Gasquet somigliava a un campione, degno continuatore della linea genealogica McEnroe-Sampras-Federer; Nadal sarebbe stato un Guillermo Coria, un Alex Corretja, o al massimo un Thomas Muster, il giocatore austriaco dominatore della terra rossa negli anni ‘90. Quando Moya ha dichiarato: «Credo abbia più potenziale di Gasquet e in due anni massimo sarà tra i primi 10», ho ricondotto la sua affermazione al campanilismo.
Rivedendo quella partita contro Costa è chiaro che Nadal non faceva cose meno fenomenali, ma la loro eccezionalità non era del tutto decifrabile. Il tennis in quel momento era uno sport diverso e non forniva le categorie per capire davvero Rafa Nadal.
Nadalesco (Nadal I)
La prima volta in cui mi è stato chiaro che Nadal non era un giocatore normale è stato durante la finale di Roma del 2005 contro Guillermo Coria, esattamente 10 anni fa. La partita dura 5 ore e 15 minuti e viene spesso ricordata dai nostalgici delle finali 3 su 5 nei Masters 1000. Nadal viene da due vittorie consecutive nei tornei ATP, tra cui una a Montecarlo proprio contro Coria.
Coria, soprannominato El Mago, in quel momento rappresenta già un’evoluzione del classico giocatore “terraiolo”. È tra i primi tennisti a giocare un tennis ibrido tra fase difensiva e offensiva: anche quando non controlla lo scambio riesce a mantenere una difesa aggressiva, grazie soprattutto a delle doti fisiche fuori dal normale. Coria sembra di gomma, i suoi movimenti sul campo sono un miracolo di leggerezza ed elasticità, l’opposto della muscolarità espressa da Nadal.
La partita è stupenda e ci sono diverse cose mirabili da appuntare, perché definiscono bene cosa fosse Nadal a 18 anni.
Innanzitutto Rafa colpisce in modo aggressivo ogni singola pallina, destituendo il concetto di “colpo interlocutorio”. La palla viaggia in modo completamente diverso rispetto a quello di Coria, al punto che in alcuni scambi sembra una partita tra un uomo e una donna. Il topspin di Nadal è una cosa mai vista fino a quel momento: è innaturale, brutale, anche riguardandolo più volte non si afferra precisamente la mistica del movimento. A rivederlo al ralenti risulta impossibile non immaginare dolore fisico in tutte le rotazioni, di torso, braccio, gambe, polso, che Nadal esercita.
In questo video si spiega che, attraverso il suo topspin, Nadal riesce a imprimere alla pallina una media di 3.600 rotazioni al minuto, con picchi di 5.000 (per intenderci, Agassi e Sampras arrivavano a 1.600). Significa che, prima di riatterrare sul campo, la palla ha compiuto già 8 giri e questo la farà scendere in modo più rapido, improvviso e provocherà un rimbalzo più alto. Sulla devastante forza di questo colpo Nadal ha costruito la propria ascesa nei primi anni, quando era un giocatore molto meno completo di quanto è riuscito a diventare in seguito.
Per massimizzare l’efficacia del colpo Nadal ha bisogno di una comprensione intuitiva della fisica del gioco. La costruzione del dritto vincente comincia 3 o 4 colpi prima, spesso lasciando volontariamente scoperta una porzione ampia di campo alla sua sinistra, sulla quale andrà a contrattaccare il tentativo di vincente dell’avversario. Sulla terra rossa questa costruzione diventa una forma d’arte grazie alla simbiosi tra Nadal e la superficie, che gli permette di “pattinare” sul campo piegando l’elemento naturale a suo favore. Affrontarlo sulla terra è come cercare di inseguire un pesce in acqua.
Uno dei momenti più nadaleschi della finale arriva al nono gioco del terzo set. Nadal è avanti 5 a 3 e serve Coria. In una partita 3 su 5, da principio, bisogna essere bravi a gestire le proprie energie fisiche e nervose, qualsiasi giocatore quindi avrebbe abbassato le marce in un game del genere, risparmiando le forze per il turno di servizio successivo, Nadal invece gioca al massimo anche quando non dovrebbe: del resto perché rallentare se si può giocare sempre al massimo senza stancarsi mai? La concentrazione agonistica che riesce a mettere in situazioni di partita che, teoricamente, potrebbe lasciar perdere mette l’avversario in una condizione di perenne pressione mentale. Coria in quel caso si è trovato costretto a dilapidare un’enorme quantità di energie mentali per restare aggrappato a un set che probabilmente avrebbe perso comunque.
Il suo amico e mentore Carlos Moya descrive la relazione di dominio psicologico che Nadal esercita sugli avversari: «Non lo ammetterebbe mai ma credo che intimidisca deliberamente i suoi rivali, sono spaventati da lui. I rituali che segue sono uno spettacolo di per sé. Nessun altro giocatore fa cose simili. Quando entra in campo sta già sudando, cosa che io non sono mai riuscito a fare, ma è la condizione ideale per cominciare una partita. Trasmette agli avversari sempre il messaggio che farà di tutto per batterli 6-0 6-0».
In quel momento Coria era il miglior giocatore sulla terra rossa, e quel giorno lo vidi giocare la miglior partita della sua vita, ma non bastò. Tra la seconda metà del quarto set e l’inizio del quinto, l’argentino tocca una vetta tennistica per lui inesplorata, lo si capisce dal modo in cui reagisce ad alcuni punti vinti.
Dopo uno smash vincente con cui va 2 a 0 nel quinto set, al termine di uno scambio estenuante e intensissimo, si ferma immobile per qualche secondo, con un’espressione del tipo «fermate il mondo, voglio scendere». Nel primo commento sotto il video si definisce, questa, la «miglior partita su terra di sempre».
Per avere un compendio di cosa fosse il primo Nadal al suo meglio si può andare direttamente agli ultimi nove minuti del video, quando inizia il quinto set. A un certo punto Rafa è sotto 3 a 0, a quel punto porta il tennis nel mondo parallelo a cui solo lui ha accesso, un universo fatto di recuperi in scivolata, sudore e dritti supersonici sparati da ogni angolatura. Le palline che tira iniziano a pesare come pietre: i dritti sono più profondi, il topspin più esasperato, il servizio più efficace, il timing sulla palla più preciso. Alla quarta ora di gioco. Nel quinto game esprime un’intensità di gioco talmente elevata che si riesce a percepirne la gravità fisica anche davanti al televisore, un assaggio di quello che saranno le sue partite (cioè, i bagni di sangue) con Novak Djokovic. Recupera i due break di svantaggio con la foga di chi sembra voler strappare lo scalpo di Coria.
Nel tie-break decisivo mette in piedi una fase difensiva oltre i limiti umani, mettendo in scena quei recuperi assurdi che in alcuni tratti della sua carriera ci hanno fatto pensare che l’unico modo per competere con lui fosse ampliare la larghezza del campo.
Coria appena due anni dopo, a soli 26 anni, si ritirò, forse consapevole che nell’era del cannibale non avrebbe mai più avuto la possibilità di vincere un torneo.
L’inizio di una tirannia
Quando Nadal arrivò al Roland Garros del 2005 aveva da poco vinto il suo primo torneo ATP, eppure era già considerato il favorito. Nessun ingresso di un giocatore nel circuito ha avuto un impatto paragonabile a quello di Nadal. Becker e McEnroe usarono termini come “freak” o “monster” per etichettarlo. Andre Agassi, all’epoca ancora in grande condizione, commentò così il nuovo arrivato: «In lui si nota bene l’evoluzione degli atleti, che diventano più grossi, forti, potenti, veloci ed esplosivi, e colpiscono la palla sempre più forte. Se metti a confronto me a 18 anni con Nadal io sembrerò averne 12»; Federer: «Si muove in modo completamente differente dalla maggior parte dei giocatori. È un atleta incredibile»; Roddick: «Vedo molti nuovi giocatori buoni nel circuito, ma lui è VERAMENTE buono».
A 18 anni Nadal ha una forza mentale e uno spirito competitivo che gli permettono di superare la pressione dei primi turni, quando ammette lui stesso che il braccio gli tremava e non si sentiva a suo agio. In semifinale, nel giorno del suo compleanno, batte Roger Federer in quattro set. Di quella partita, nella sua autobiografia, Nadal ricorda quanto lo svizzero fosse insolitamente nervoso, in ansia per completare il grande slam, forse consapevole che quello sarebbe stato l’ultimo anno da favorito al Roland Garros (lo vinse nel 2009 sfruttando l’unica sconfitta di Nadal, contro Robin Söderling).
In finale incontra Mariano Puerta, altro specialista argentino della terra e vince una partita complicata, al quinto set, come sempre alzando l’intensità del gioco nel momento in cui gli esseri umani iniziano a essere stanchi. «Se ripenso a quella partita ciò che mi viene in mente è la sensazione di non essermi mai fermato a respirare. Lottavo e correvo come se potessi andare avanti in quel modo per due giorni».
Chiude la stagione con 11 tornei vinti, 79 vittorie complessive e il record assoluto di 12 set vinti a zero.
Lo avevo dimenticato, ma Puerta era davvero un bel giocatore.
Al termine della finale del Roland Garros si arrampica sulle gradinate del centrale e corre ad abbracciare lo zio Toni, suo allenatore sin da quando aveva 8 anni. Toni è meno contento del previsto e tornando a casa gli mostra un foglio d’appunti dove sono segnate tutte le cose che non hanno funzionato. Alla fine lo ammonisce: «Puerta ha giocato molto meglio di te, sei solo stato fortunato a vincere i punti decisivi».
Whiplash
Il settore del mobilio è il cuore dell’economia di Manacor e i Nadal possiedono il più grande e antico mobilificio della città. La famiglia però è piena di atleti: lo zio, Miguel Angel, è un ex calciatore professionista, che ha giocato nel Barcellona e ha più di 50 presenze con la Nazionale spagnola. Lo zio, Toni, è un tennista professionista mancato, che ha dedicato la sua vita a forgiare Nadal come un campione. Anche quando la federazione spagnola ha chiesto a Rafa di spostarsi a Barcellona, nei centri tecnici federali, ha preferito rimanere a Manacor, ad allenarsi con lo zio: «Si è mai visto un ragazzo che sta meglio fuori casa?» disse Toni, riassumendo bene il perché Nadal vive tuttora con la propria famiglia nella cittadina di Mallorca. «Perché dovrei volere un posto per me? A quel punto dovrei preoccuparmi di cose come fare la biancheria o avere cibo nel frigo» disse anni fa.
Nella sua autobiografia i racconti degli allenamenti con lo zio Toni assumono toni simili a Whiplash, il film in cui un giovane batterista viene forzato a superare i propri limiti attraverso l’intimidazione e la violenza psicologica di un insegnante.
Toni lo costringeva a giocare sempre sul lato assolato del campo, quando notava un calo di concentrazione gli tirava la pallina addosso, se sbagliava colpi in modo grossolano gli urlava contro. Un giorno a un torneo dimenticò di portarsi dietro la bottiglia d’acqua e lo zio Toni si rifiutò di comprargliene una, «la prossima volta impari a essere responsabile di te stesso».
Quando nell’autobiografia racconta questi episodi, e le volte che tornava a casa a piangere, con i genitori preoccupati di una possibile violenza psicologica, lo fa con un tono di assoluta riconoscenza: «Toni sottolineava sempre l’importanza della parola ‘resistere’. Resistere, tollerare qualunque cosa ti capiti, imparare a superare la debolezza e il dolore, spingerti fino al limite senza crollare. Se non impari questa lezione, non riuscirai mai a essere un grande atleta, ecco che cosa mi insegnava. (…) Tutta quella tensione durante ogni allenamento mi ha permesso di affrontare i momenti difficili di una partita con maggiore autocontrollo».
Così come Mourinho, Toni tentava di replicare lo stress emotivo che esiste in partita nelle sedute di allenamento, per allenare i nervi a rimanere focalizzati sull’obiettivo.
Già a 10 anni Nadal aveva un senso della competizione innaturale. Giocava anche a calcio e si dice che, volendo, avrebbe potuto anche lì diventare un professionista: la mattina prima della partita si svegliava alle 6 e passava le ore che lo separavano dal match a caricarsi, lucidare gli scarpini e a immaginare le azioni che avrebbe fatto in partita.
L’estate dei suoi 12 anni la passa a divertirsi con gli amici: pescando, nuotando in piscina, giocando a calcio sulla spiaggia. A settembre arriva il primo torneo dell’anno, a Palma, e non si è allenato quasi per niente. Perde 6-3 6-3 e in macchina si chiude in un silenzio tetro, quando il padre accenna «non è niente» scoppia in un pianto disperato. Allora gli fa: «Non devi dispiacerti, hai passato un’estate fantastica, non sei contento?»; «Sì, ma tutto quel divertimento non può compensare il dolore che sto provando adesso. Non voglio più sentirmi così».
Il colibrì (Nadal II)
Capelli lunghi raccolti da una coda e aria da santone, Joan Forcades è il preparatore atletico di Rafa Nadal, uno dei principali artefici delle sue vittorie. Forcades è un grande appassionato di cinema e filosofia, oltre che un sofisticato preparatore. «Allenarsi come uno sprinter o un fondista non ha senso nel tennis, perché non è un’attività 'lineare'. Il tennis è un gioco intermittente, che richiede al corpo di sostenere un’esplosività discontinua, fatta di scatti e frenate che si alternano per lungo tempo. Un tennista deve prendere esempio dal colibrì, l’unico animale che racchiude in sé la capacità di resistenza e l’alta velocità, che è in grado di compiere ottanta battiti d’ali al secondo per quattro ore». Dai 16 anni in poi, durante le pause della stagione, lo fa allenare per molto tempo a un attrezzo ideato per gli astronauti, che devono prevenire l’atrofizzazione dei muscoli nello spazio privo di gravità. Nadal doveva tirare una corda attaccata a un volano di metallo, in modo da sviluppare la massa muscolare sulle braccia, e aumentare così la velocità di accelerazione del topspin.
All’inizio del video si vede l’esercizio citato. Su YouTube si trova anche quest’altro video in cui Forcades spiega il senso di diversi allenamenti.
Dopo la vittoria al Roland Garros gli viene diagnosticato un problema congenito allo scafoide tarsale del piede sinistro e uno specialista gli dice che potrebbe dover smettere di giocare a tennis. L’unica soluzione potrebbe essere una soletta ortopedica per la scarpa che riduca il più possibile le sollecitazioni al dito infortunato: iniziano a lavorarci, e la Nike gli prepara una scarpa più larga, che aiuti il piede nell’impatto traumatico con le superfici di gioco. Lentamente riprende ad allenarsi insieme a Forcades, ma non può muoversi molto: a livello atletico lavora ulteriormente sulla forza delle braccia; sul piano tecnico sperimenta allenamenti più vari e tecnici, principalmente sul servizio e la sensibilità. Quando ritorna a giocare, a Madrid, qualche mese più tardi, è un giocatore diverso: avevamo lasciato il servizio di Nadal a 170 km/h e lo ritroviamo a 200 km/h, per esempio.
Il Nadal che pian piano si emancipa dall’etichetta di specialista di una sola superficie ha un gioco meno dispendioso e più equilibrato di quello messo in mostra a Roma o a Parigi, anche se non tutti gli hanno riconosciuto un’evoluzione. «Se guardo il video della finale di Coppa Davis del 2004 contro Roddick, vedo un dinamismo veloce e goffo che ormai non esiste più nel mio gioco. Sono più controllato, faccio economia di movimenti e mi sono impegnato per migliorare il servizio».
Il fatto che Nadal sia il più grande atleta, difensore, contrattaccante, mai apparso su un campo da tennis fa dimenticare altre doti tecniche, o immateriali, che lo hanno portato a vincere anche oltre il proprio talento. Si fa per esempio poco caso a quanto sia bravo a rete, dove impiega uno stile brutto ma efficace, in grado di capitalizzare costruzioni eccellenti del punto.
Da ciascuna di queste volée traspare intelligenza e pragmatismo, non cade mai nell’autocompiacimento di Federer, che a volte quando arriva a rete si lascia prendere dalla voglia di “fare una cosa bella”.
Spesso inoltre si confonde il suo agonismo con l’emotività, non riconoscendo quanto Nadal sia in realtà un giocatore cerebrale, che raramente sbaglia la strategia di un match e che costruisce sempre i punti in modo impeccabile.
Ma, soprattutto, Nadal è stato il primo giocatore consapevole che una partita di tennis è innanzitutto una battaglia psicologica, e solo secondariamente tecnica e tattica. È con questo aspetto che Nadal ha cambiato il tennis, portandolo nell’epoca contemporanea, in cui le partite dei big four sembrano delle sedute di psicoterapia.
Quando nella sua autobiografia descrive le partite più importanti della sua carriera lo fa sempre a partire dal controllo della propria emotività: a precedere un punto di svolta c’è sempre una presa di coscienza psicologica. «Osservando il giocatore numero dieci e quello numero cinquecento della classifica mondiale durante l’allenamento, non è facile dire chi dei due si trovi più alto nel ranking. Senza la pressione della gara, si muoveranno e colpiranno la palla allo stesso modo, ma sapere davvero come si gioca non consiste solo nel colpire bene la palla, bensì nel fare la scelta giusta, nel sapere quando smorzarla o colpirla forte, alta, lunga, con backspin o topspin o piatta, e in che punto del campo indirizzarla».
L’insieme di queste doti immateriali è particolarmente evidente nel modo in cui ha dominato la rivalità con Federer, infinitamente più dotato di lui dal punto di vista tennistico. Nadal riesce sempre a imbrigliare Federer nella propria intelaiatura tattica, fino a farlo impazzire. In alcune partite lo svizzero ha dato l’impressione di anteporre l’affermazione di sé stesso al pragmatismo della vittoria: meglio perdere ma non corrompere l’idea di sé, che vincere snaturando il proprio gioco.
Federer ha, nel corso degli anni, sviluppato un complesso mentale nei confronti di Nadal, che da una parte lo ha aiutato ad esprimere un tennis migliore, e dall’altro lo ha reso un giocatore psicologicamente più fragile. Per fare un esempio, nella finale di Wimbledon del 2008 lo svizzero è riuscito a convertire solo una delle 13 palle break a disposizione. Forcades, sostenitore di una filosofia olistica, dice che «Nel tennis bisogna sempre risolvere delle emergenze, una dopo l’altra, per un periodo di tempo prolungato. (…) In questa frenesia di prendere decisioni, mantenere la mente fredda è fondamentale e la capacità di farlo dipende dal proprio benessere emotivo. Questo è l’unico attributo più importante che Rafael possiede. Il suo stato di allerta, sostenuto per tre ore ogni volta, è quasi sovrumano. Ed è la chiave di tutto».
La legacy
La superficie che maggiormente esalta l’insieme di queste caratteristiche è la terra rossa, dove è ancora possibile un gioco meno istintivo e più tattico, e dove è naturalmente richiesta maggiore resistenza fisica. Il 3 su 5 sulla terra è lo sport in cui Nadal è, fuori da ogni discussione, il miglior interprete mai nato.
Nadal ha vinto 9 degli ultimi 10 Roland Garros, producendo uno score quasi pugilistico: 66 vittorie e 1 sconfitta, con solo due partite arrivate al quinto set. Eppure, essere così dominante in un solo slam non lo ha aiutato nell’immagine che si è costruito. Il Roland Garros è, tra i quattro slam, quello forse meno “nobile”. La lentezza della superficie favorisce i giocatori “operai”, meno offensivi e questo si rispecchia in un albo d’oro meno prestigioso. Prima dell’arrivo di Nadal sono arrivati in finale specialisti puri come Puerta, Coria, Kuerten, Ferrero, Gaudio, Costa. Essere forti sulla terra, tuttora, non basta per essere considerati dei campioni assoluti, mentre essere competitivi solo sull’erba viene quasi considerato un segno ulteriore di nobiltà tennistica (pensiamo a Sampras). Agassi in Open definisce spregiativamente gli specialisti della terra come “ratti da fango”.
È per questo motivo che inizialmente faticavamo a interpretare l’eccezionalità di Nadal: in uno sport ancora molto legato a un’idea di purezza e classicità l’ultra-agonismo di Rafa ha messo in imbarazzo molti.
Per questo Nadal ha, quasi fin da subito, dovuto giocare per la propria legacy: vincere più slam possibili, battere Federer a Wimbledon, per affermarsi come uno dei migliori giocatori della propria epoca e non solo come un freak da terra rossa. Facendolo ha costretto il tennis a cambiare.
Se Federer ci aveva rassicurati che il tennis sarebbe rimasto un’oasi protetta dall’imbarbarimento dello sport moderno, Nadal lo ha trasportato in un territorio di intensità e atletismo estremo, costringendo lo stesso Federer ad elevare il proprio plateau di gioco, definendo di fatto una nuova estetica. Quando Brian Phillips in questo pezzo descrive una partita tra Djokovic e Nadal come un concerto heavy metal è per sintetizzarne la potenza, la brutalità, la violenza fisica che oggi è possibile vedere su un campo da tennis, e che è davvero uno spettacolo originale, per certi versi più interessante delle volée retro di Michaël Llodra o della cura del gesto di Grigor Dimitrov.
Martire (Nadal III)
Quando nel 2005 Nadal si è rimesso in piedi dall’infortunio congenito al piede non sospettava che quello sarebbe stato il più trascurabile dei suoi problemi fisici. Il corpo di Nadal è da sempre uno degli argomenti preferiti del discorso tennistico, da una parte per le accuse di doping che lo hanno accompagnato soprattutto a inizio carriera (il complottismo è sempre trovare spiegazioni semplici a fatti complessi: se avete visto i video con Forcades avrete capito doveNadal ha costruito il proprio corpo); dall’altra per il logoramento fisico inevitabile a cui lo avrebbe portato il suo tennis.
El Mundo ha elaborato questa infografica che rappresenta in modo impressionante il tormento che Nadal ha inflitto al proprio fisico.
I problemi più rilevanti sono quelli che colpiscono le ginocchia. Nel 2009, dopo la sconfitta a Parigi contro Söderling, decide di saltare Wimbledon, dove difendeva il titolo dell'anno precedente. Fermarsi. Dopo il ritiro da Londra Gianni Clerici dichiara: «Nadal si è ritirato da Wimbledon, e speriamo non dal tennis»; il chiropratico Alfio Caronti: «Per me, con tutte quelle contorsioni e soprattutto quelle smorfie indicative di squilibrio, Nadal dura poco». Nel 2013 il New York Times fa uscire un video sci-fi in cui si spiega perché lo stile di gioco di Nadal finirà per sgretolargli il ginocchio, una parte dopo l’altra. Il colpo più devastante in questo processo sarebbe il rovescio, in cui Nadal manderebbe il ginocchio sinistro in iperestensione.
Il video uscì al rientro di Rafa dall’ennesimo infortunio, appena prima di un Roland Garros che naturalmente vinse. Nadal è riuscito sempre a recuperare da questi problemi di consunzione fisica, ora però iniziano ad accumularsi e con l’età che avanza è sempre più difficile recuperare. È a partire da queste premesse che gli ultimi malanni fisici, e le scarse prestazioni al rientro, sono state interpretate come un segno di declino inconfutabile. Dopo l’eliminazione agli ottavi di finale a Wimbledon 2014 Toni ha dichiarato che «il ginocchio più o meno gli procura sempre un po’ di dolore. Se Rafael decidesse di ritirarsi oggi, non potrei dire che la sua carriera è stata breve. È stata una lunga carriera».
Nadal ha una pagina Wikipedia interamente dedicata ai suoi record personali, ma tra tutti quello che stupisce, per paradosso, è quello che riguarda il numero di settimane che è stato numero uno del mondo. Nadal è stato nº 1 della classifica ATP dal 18 agosto 2008 al 5 luglio 2009, dal 7 giugno 2010 al 3 luglio 2011 e di nuovo dal 7 ottobre 2013 al 6 luglio 2014 per un totale di 142 settimane. Un numero incredibilmente ridotto rispetto a quanto mi aspettassi: Federer lo è stato 302, e Djokovic lo ha già superato a 150.
Verso il Roland Garros
Ho visto giocare Nadal a Roma contro Stanislas Wawrinka e la situazione mi è parsa più drammatica del previsto. Rafa ha avuto un inizio di 2015 complicato, poi l’arrivo della stagione sulla terra ha nascosto in parte i suoi problemi. Quando però arriva a giocare partite di alto livello non sembra essere realmente competitivo: la sconfitta a Montecarlo contro Djokovic in un doppio 6-3 è la meno allarmante del quadro. Peggiori suonano le sconfitte contro Andy Murray (prima volta sulla terra), Fabio Fognini (!) e ora Wawrinka (prima volta sulla terra). Fino allo scorso anno il record di Nadal sulla terra era di 318 vittorie e 24 sconfitte.
Contro Wawrinka, Nadal ha mostrato problemi in ogni aspetto del suo gioco: fisico, tecnico, mentale. Cede ad alcuni momenti di nervosismo, a schiaffi sulla testa dopo errori, ad accenni di lancio di racchetta e ad atteggiamenti generalmente negativi, inediti per lui, sempre attento a mostrarsi onnipotente con l’avversario. Nei momenti importanti del match si scioglie: quando è andato a servire per il primo set non ha chiuso e ha convertito solo 2 palle break su 9.
Anche dal punto di vista tecnico sembra irriconoscibile: il suo topspin è fiacco, senza profondità e poche cose sono brutte quanto il dritto di Nadal che non funziona, Fabio Severo lo ha paragonato alla «sensazione che si prova lanciando con tutta la forza un pezzo di carta appallottolato». Contro Wawrinka, Nadal ha tirato colpi di almeno 15 km/h inferiori al suo avversario ed è arrivato a servire seconde palle a 140 km/h. Ogni tanto esce fuori un colpo nadalesco dal cilindro, ma è solo un’estemporaneità piacevole, come quando gli Oasis ai concerti suonavano "Wonderwall" in mezzo alle nuove brutte canzoni.
La mancanza di fiducia si riflette anche in un atteggiamento di gioco passivo, che lo ha visto eseguire il 65% dei colpi posizionato ben oltre la linea di fondo.
L’unico limite è la recinzione con i giudici di linea, Nadal si rifugia quattro metri fuori dal campo come una tartaruga.
Quello della passività non è un difetto nuovo per Rafa, che nei momenti di difficoltà tende istintivamente a rifugiarsi nella propria natura difensiva, regredendo e dimostrando di preferire affidarsi alle proprie doti fisiche che a quelle tecniche. Già nel 2008 Carlos Moya dichiarava: «In campo è più prudente di quanto si possa pensare. È sempre stato accorto riguardo alla seconda di servizio, per questo non colpisce il primo tanto forte quanto potrebbe, considerata la potenza del suo fisico. Mi sono allenato con lui migliaia di volte, e rimango sempre colpito quando lo vedo disputare una partita, perché è molto più aggressivo in allenamento, riesce a piazzare più colpi vincenti. Gliel’ho detto molte volte: perché non ti rilassi di più? Perché non giochi più al centro del campo e non vai più spesso all’attacco?». Se nel momento di calo della competitività agonistica Federer ha fatto due passi in avanti, giocando in modo più aggressivo e meno dispendioso, Nadal sembra volerne fare due indietro. Il suo gioco non sembra pronto a non essere più supportato da una condizione atletica fuori dal comune. Comunque vada il Roland Garros, osservare come Nadal gestirà la propria “normalizzazione” fisica sarà interessante e ci aiuterà a definirne ulteriormente il significato che ha avuto per questo sport.
Nadal ha già dato dimostrazione di poter risalire in momenti in cui tutti lo davano per spacciato, e non mi stupirei se succedesse ancora. Eppure credo sia molto difficile che Nadal vincerà questo Roland Garros, e a quel punto, o quando succederà, potremo iniziare a ragionare su cosa fare diun’era tennistica priva del suo principale agonista.
Secondo Brian Philips, Rafa Nadal è il principale fattore dell’esistenza dell’attuale epoca aurea del tennis, soprattutto per la sua capacità di spingere i suoi avversari al miglioramento continuo. Federer ha ammesso che la rivalità con Nadal ha aiutato entrambi a essere giocatori migliori. Nel campanilismo e nella scarsa considerazione di Rafa si nasconde un equivoco su quello che è (o è stata) l’epoca dei big four.
«Contro Federer bisogna sempre giocare al limite, costringerlo a giocare al massimo delle proprie possibilità. Affrontare sereni gli sprazzi di grande gioco, aspettando che passi la tempesta e che scenda di livello, perché anche lui è umano. A quel punto bisogna sfruttare la propria chance». L’era dei big four non dobbiamo vederla come un momento in cui quattro grandi giocatori, per una casualità storica, si sono trovati a competere insieme; ma come un’epoca in cui quattro grandi talenti si sono plasmati come giocatori l’un l’altro, provocando a vicenda il superamento dei propri limiti. In tal senso, tra i quattro, Nadal è quello che con questi limiti ha giocato in modo più esasperato. Il modo in cui, in alcuni momenti della sua carriera, è riuscito a cavare fuori il meglio da sé e dalle situazioni è una lezione quasi morale.
Appena qualche giorno fa lo zio Toni, ultimamente in vena di bilanci, ha sentenziato che Rafa è il giocatore che ha vinto di più con minore talento a disposizione.
Spesso si dice, in una visione Federer-centrica del tennis, che il Maestro è stato sfortunato a trovare Nadal a negargli più vittorie di quanto avrebbe meritato: e se invece provassimo, per una volta, a ribaltare la prospettiva? E se fosse stato Nadal quello sfortunato?