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Rafael Nadal martire del tennis
06 giu 2022
Con un piede addormentato, vince il suo quattordicesimo Roland Garros.
(articolo)
16 min
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Domenica mattina esce la notizia che Nadal, dopo la finale del Roland Garros contro Ruud, avrebbe convocato una conferenza stampa aggiuntiva oltre quella di rito. Pare il segno più inequivocabile che sta per annunciare il suo ritiro. Come per i funerali dei grandi capi di stato, le eminenze internazionali si muovono per raggiungere il luogo del commiato. Quando si dice che Federer sia partito verso Parigi, allora c’è la conferma che le cose sono serie. I segnali dei giorni precedenti erano stati difficili da fraintendere. Dopo una, quasi due, settimane di patimenti sul suo piede sinistro, che lo avevano portato a dire, dopo la semifinale, di sentirsi pronto a un piatto col diavolo: avrebbe barattato volentieri la vittoria in finale per un piede nuovo. Persino il quattordicesimo Roland Garros, il ventiduesimo Slam, però, sembrano troppo poco al cospetto dell’eterna giovinezza.

Il mito del tallone d’Achille rappresenta una metafora logora, forse, ma si adatta bene alla storia di Nadal: questo tennista nato con un corpo oltre la perfezione, un’utopia genetica per la competizione sportiva. Eppure con questo difetto congenito che rende questo corpo, in realtà, fragilissimo e continuamente esposto al crollo. La diagnosi era arrivata poco dopo il suo primo trionfo al Roland Garros, nel 2005: sindrome di Muller-Weiss, una malformazione degenerativa allo scafoide tarsale del piede sinistro. Una malattia genetica rara negli uomini giovani. Uno specialista lo avvisa che potrebbe dover smettere di giocare a tennis; lui ci pensa. Per un attimo pensa davvero di ritirarsi e diventare un golfista professionista, era piuttosto bravo. Fa un tentativo estremo: indossa una soletta ortopedica che riduce il più possibile le sollecitazioni al piede infortunato; Nike nel frattempo gli prepara una scarpa più larga per ridurre l’impatto traumatico con le superfici di gioco. In qualche modo funziona e in perfetto stile Nadal una possibile caduta diventa l’occasione per prendere slancio e spingersi più in alto. Nei mesi di inattività aumenta ulteriormente la forza nelle braccia, migliora il servizio e la sensibilità di tocco. Quando ritorna a giocare il suo servizio ha aumentato la velocità di trenta chilometri orari. Il suo gioco prende forza e velocità, la sua palla diventa ancora più penetrante. Da quel momento, però, Nadal sa che dovrà convivere col dolore: non potrà eliminarlo ma al massimo alleviarlo.

Tutta la sua carriera è stata costruita sul dolore e attraverso il dolore. Attraverso il dolore Nadal ha esaltato il suo ethos guerriero; attraverso il dolore ha avvolto le sue partite di un alone di gravitas lontano dallo sport, simile a quello che Bjorn Borg portava sul campo da tennis, col suo mutismo e la sua freddezza siderale. Le voci del suo ritiro precoce si rincorrono da quando era ragazzino: il suo tennis è una penitenza troppo grande anche per un corpo straordinario come il suo. Negli anni il dolore diventava sempre meno sopportabile e la sua presenza nel circuito così penosa da suscitare compassione. Veniva voglia di pregarlo di smettere, per il suo bene. Si sarebbe forse ridotto come quei sportivi martiri tipo Batistuta, reso quasi zoppo dagli immani sacrifici sportivi?

Lui stava fuori settimane, saltava tornei, però poi tornava e vinceva. Col tempo si sono allungate le maniche delle magliette e accorciate le zampe dei pantaloni. I muscoli del suo corpo si sono assottigliati, i capelli diradati, la pelle si è asciugata sul suo viso. La sua faccia ha preso l’aria ossuta dei ritratti di Otto Dix. Nadal è diventato un fascio di nervi e dolore, e il suo tennis si è adattato ai suoi nuovi limiti: è diventato più strategico, più essenziale. Negli anni ha continuato a oscillare tra l’onnipotenza del suo talento e un’inadeguatezza finale, definitiva. La scorsa estate aveva troppo male al piede per poter giocare gli US Open. C’era un’aria strana intorno a lui, di chi rischiava di non tornare più in campo, di chi magari avrebbe annunciato il proprio ritiro di punto in bianco, magari da un lettino d’ospedale. Tornato agli Australian Open, pareva promettere giusto un po’ di nostalgia e invece ha vinto: il suo Slam più inatteso, in un campo per lui storicamente ingrato, in finale contro il nuovo re di quei campi, Daniil Medvedev. Com’era possibile?

Nadal continua a vincere con singolare continuità nel 2022 ma le cose peggiorano proprio nella stagione su terra. Perde a Madrid da Alcaraz, in piedi a malapena; perde a Roma da Shapovalov, che su terra dovrebbe fargli giusto il solletico. Prima del Roland Garros i bookmakers gli danno meno possibilità di vittoria sia di Alcaraz che di Djokovic. L’allenatore Patrick Mouratoglou dice che non arriverà nelle migliori condizioni di forma. Dopo la partita di secondo turno, contro Courentin Moutet, non riesce più a camminare, gli anestetizzano il piede per proseguire il torneo. Agli ottavi di finale incontra Felix Auger-Aliassime e non è un incontro qualunque. Il canadese è allenato da Toni Nadal, colui che ha reso Rafa quello che è crescendolo con un’educazione marziale, insegnandogli il valore della sofferenza sul campo. Quando Auger lo trascina al quinto set, sembra troppo per il suo corpo malandato. Nell’ottavo gioco però si rianima, come posseduto, e gioca uno dei suoi classici punti parigini: un back disperato dal lato del rovescio che scende affilatissimo sotto la rete, Auger che gioca una stop volley incrociata niente male, ma Nadal che è già partito e lo infila col recupero in allungo. Il tipo di punti che definisce l’estetica di un giocatore che ha portato la retorica del “non arrendersi mai” al massimo livello di materialità possibile.

Da quel momento il suo torneo diventa difficile da leggere. Ai quarti contro Djokovic pare il giocatore più stanco e quello meno in forma. Prima della partita si lamenta di dover giocare la sera - affrontando condizioni meno favorevoli - con un tono un po’ melodrammatico: «Potrebbe essere la mia ultima partita al Roland Garros e avrei preferito giocarla di giorno». Nadal vuole farsi passare per la vittima sacrificale contro Djokovic, ma quando inizia la partita il suo braccio gira veloce, la pallina parte dal suo dritto grassa e impazzita come nei momenti migliori. Sembra il miglior Nadal possibile e Djokovic pare colto di sorpresa. Ci mette un set e mezzo a riprendersi e ad aggiustare la propria velocità su quella di Rafa. Lo sforzo di vincere il secondo set, dopo essere stato sotto di due break, lo paga subito con un vistoso calo nel terzo: è un altro classico di Nadal, approcciare forte l’inizio dei game e dei set, quando sa che l’avversario avrà un calo di tensione. È uno dei migliori strateghi tennistici, ma anche mentali. «Non sono il giocatore che ha alti e bassi emotivamente, sono molto stabile» dirà dopo la partita. Si giocano scambi lunghi e usuranti, Nadal e Djokovic si conoscono troppo bene, e partono con una frazione di secondo di anticipo per neutralizzare i tentativi di vincenti reciproci. Così lo scambio si impiglia senza vincenti possibili. Si giocano game lunghissimi che prendono un andamento ipnotico. Durano dodici o sedici minuti, la partita si dilata verso la notte inoltrata, assume quell’aria metafisica che prendono le loro sfide su cinque set. Spettacoli a tratti anche duri da guardare per la consunzione fisica che esprimono, per la durata da film colossal, così contraria a qualsiasi logica di intrattenimento contemporanea. Per finire appena due set ci sono volute due ore e venti. Più la partita si allunga più temiamo che Nadal possa finire in pezzi da un momento all’altro. Il fatto che giochi da infortunato quella che minaccia di essere la sua ultima partita (al Roland Garros? In carriera?) rende ancora più drammatico il tutto.

Nel quarto set Djokovic affila i colpi, ma c’è qualcosa di leggermente fuori equilibrio nel suo gioco. Da quando è rientrato, dopo il romanzo degli Australian Open, ha perso molta solidità. Quando va in vantaggio di un break nel quarto set, cerca di gestire e risparmiare le forze per il quinto. Un errore da non commettere contro Nadal sulla terra di Parigi. Djokovic serve per andare al quinto sul 5-3, ma si fa strappare il servizio da Nadal, che lo trascina al tiebreak. Lì Rafa gioca a un livello semplicemente ingestibile, un condensato della sua superiorità sulla terra parigina. Il vasto repertorio di effetti, il posizionamento e le scelte sempre ideali, l’esuberanza fisica espressa nei momenti più delicati. C’è un punto in cui si capisce la differenza di intensità mentale tra i due. Sul 2-0 e servizio Nadal, Djokovic ha un dritto a metà campo con cui può recuperare un mini-break. Sceglie però di tirare sul dritto di Nadal, nonostante avesse tutto l’inside-in aperto. È una palla che rimane anche corta, e che equivale a un suicidio, perché Rafa quel dritto lungolinea nel campo aperto lo tirerà in automatico forse anche tra quarant’anni.

Dopo quattro ore e venti di partita, oltre l’una di notte, Nadal si presenta in conferenza stampa con l’aria del sopravvissuto comunque in fin di vita. Dice di aver dato tutto in campo, sapendo che poteva trattarsi della sua ultima partita. Dice di essere felice di essersi dato un’altra possibilità di giocare una semifinale al Roland Garros. Dice che non può parlare delle cose che ha dovuto passare degli ultimi due mesi, ma che non sono state divertenti. Djokovic riconosce i suoi meriti, e poi dice che non è la prima volta che «è capace di tornare dopo un infortunio in cui riusciva a malapena a camminare, ed essere invece in forma al 100%».

A un certo punto siamo stati messi di fronte a due realtà parallele, quella di Rafa malconcio, sofferente e sul punto di ritirarsi, dal Roland Garros e dal tennis; dall’altra un Rafa capace di battere al quinto set un giocatore di quattordici anni più giovane, o di battere in quattro ore di gioco intensissime la leggenda Novak Djokovic, facendolo sembrare il più vecchio, il più arrivato. Non sappiamo cosa aspettarci dalla semifinale contro Alexander Zverev, che nel frattempo ha fatto fuori il giovane favorito Carlos Alcaraz con una prestazione furba e ruvida. Il giorno della partita il cielo di Parigi è cupo e quando comincia a piovere il campo viene coperto. Una pessima notizia per i colpi effettati di Nadal, un’ottima notizia per Zverev e per i suoi colpi piatti e penetranti. Sotto il tetto Rafa è nella sua versione anziana. Quando non è in forma non sembra soltanto meno brillante: sembra una persona che potrebbe smettere di camminare da un momento all’altro. Zverev è alto due metri e si muove con un’elasticità da peso piuma; si mette qualche metro dietro la riga di fondo e in allungo apre il compasso delle gambe e delle braccia a un'ampiezza folle. Sembra un prototipo assurdo di essere umano, come del resto lo era stato il giovane Nadal, ormai vent’anni fa. Nadal accetta tutte le condizioni sfavorevoli e il suo gioco sterile con grande stoicismo. È doloroso da guardare, il modo in cui continua a lottare per cavare qualcosa di buono da una giornata in cui chiunque al posto suo avrebbe perso. È anche emozionante. In quella partita Nadal esprime soprattutto strazio, in pochi riescono a portare il tennis così lontano da una dimensione di piacere. I suoi colpi nascono rompendo un guscio di fatica, dolore e disperazione. Ci sono questi dritti tirati col solito movimento a lazo sopra la testa, un elaboratissimo dispendio di energie con la pallina che a volte arriva a malapena a rete. Colpi accompagnati da grugniti che sembrano lamenti più che gridi di battaglia. Lamenti sempre più fiochi, che arrivano da un Nadal sempre più distante dal campo.

Zverev va avanti 6-2 nel tiebreak e sembra oggettivamente finita. Quello che succede dopo è nella storia di questo torneo. Un misto di sindrome paranoide dei tennisti della Next Gen di fronte ai Big-3, e della capacità inspiegabile di Nadal di trovare colpi clamorosi nei momenti decisivi. Le due cose si tengono insieme quando Zverev sul 6-4 del tiebreak pare aver trovato la chiave. Tira un’accelerazione stretta di dritto che manda Nadal in recupero quasi sui cartelloni pubblicitari. Sarebbe punto con chiunque, tranne che con Nadal, che comunque rimanda di là un back insidioso. Zverev colpisce un rovescio incrociato, il suo colpo migliore in assoluto, forte ma un pochino corto. Nadal ci arriva col dritto a uncino, tira un passante stretto su cui Zverev non prova nemmeno a intervenire. Quei passanti sul lato sinistro sono colpi impossibili che lui è riuscito ad automatizzare, ma il rovescio di Zverev era un tantino troppo corto: in quei momenti non va bene niente meno della perfezione assoluta.

Sul 6 pari c’è un altro dritto lungolinea in corsa classico e sul set point un altro passante sempre col dritto lungolinea. Un colpo che in questo Roland Garros è sembrato molto meno penetrante del solito, che anche secondo le statistiche ha ridotto sensibilmente il suo topspin irreale. Dopo l’ultimo passante Nadal lancia uno sguardo da film d’azione verso la tribuna, gli occhi di uno che sta facendo qualcosa su cui ha un controllo solo relativo. I game si susseguono, un nastro di dritti e rovesci e grugniti sempre più acciaccati. Il tennis come un’abitudine ormai fuori da lui, in cui il suo corpo si dedica con ormai ben poca vita rimasta. Nel secondo set Zverev dà l’impressione di poter comunque vincere contro quella versione di Nadal, finché non si rompe i legamenti della caviglia dopo uno dei soliti recuperi in allungo di dritto. Si stende per terra e grida, un po’ per il dolore e un po’ per la disperazione di essersi fatto male nella semifinale del Roland Garros, mentre aveva ancora molte possibilità di vincere. Nadal aggrotta la fronte e si avvicina al corpo ferito, incerto sul da farsi. I ruoli si sono ribaltati: il vecchio malandato guarda dall’alto il giovane in pezzi. Una scena che su registri diversi abbiamo visto più volte nell’ultimo decennio: i giovani più stanchi e più fragili, a volte semplicemente più sfortunati, dei vecchi. In un modo o nell’altro sempre incapaci di prendere il loro posto.

A quel punto Nadal può recuperare con calma per la finale, che diventa una formalità, vista l’aridità competitiva della parte bassa del tabellone, ulteriormente asciugata dall'inattesa eliminazione di Tsitsipas. In finale arriva Casper Ruud, non certo per caso visto che da un paio d’anni si è affermato come uno dei migliori specialisti della terra rossa. Il miglior avversario possibile, però, per Nadal. Ruud è cresciuto col suo mito, nelle ore precedenti all’incontro circola una foto di Ruud sugli spalti del Philippe Chartrier nel 2013. Ruud è un ragazzino mentre Rafa sta per alzare il suo ottavo Roland Garros. Negli ultimi anni si è allenato nell’accademia di Nadal e lo zio Toni in un video prima della partita si dice orgoglioso di quella finale, e di allenare uno dei giocatori più educati sul circuito. Insomma, è un affare di famiglia. A Ruud, magari inconsciamente, pare quasi dispiacere avere la possibilità di vincere. Suo padre dice che se vincesse Rafa sarebbe felice lo stesso; lui dichiara che in allenamento non è mai riuscito a vincere un set, e le volte in cui ci è andato vicino ha sentito che poteva dispiacergli, vincere a casa sua. Quando è sceso in campo Ruud pensava che sarebbe stata l’ultima partita di Nadal? In molti da casa lo pensavamo. La radio francese RTL diffonde la notizia che Federer sta arrivando a Parigi, circola la voce di una conferenza stampa eccezionale. L’ufficio stampa di Nadal smentisce il tutto, ma a cosa credere? Di nuovo siamo di fronte a due realtà parallele e non sappiamo a quale credere. A quella per cui Nadal ha una malattia degenerativa al piede e non può proseguire a giocare un giorno in più ad alti livelli; ma anche quella in cui Nadal è arrivato in finale battendo alcuni dei migliori tennisti al mondo. Un giocatore con un record 28-3 in stagione: il tennista in cima alla classifica della Race.

A quale di queste due realtà ha creduto, Casper Ruud, mentre era nel corridoio del Philippe Chartrier, e accanto a lui Rafa Nadal scalpitava come un toro? Ruud che sembra uno che sta aspettando l’imbarco in aeroporto; Nadal che fa su e giù per la stanza, incurante di qualsiasi spreco d’energie, attento solo alla cura della sua estetica marziale. Ruud lo guarda senza farsi notare, e sembra un po’ sorpreso, forse un po’ emozionato: quella è la routine con cui Nadal intimidisce i suoi avversari da vent’anni, è il suo antico rito.

Come si fa ad affrontare una finale da sfavorito, con queste premesse? Ruud è un tipo mansueto, e nel suo repertorio non ha armi per dare fastidio a Nadal. Il suo rovescio bimane non si avvicina nemmeno a quello di Djokovic e Zverev. Nadal lo neutralizza senza nemmeno dover strafare, con la pesantezza storica del suo topspin, che rimbalza alto sopra la spalla del suo avversario. Il tipo di palla barocca che sulla terra di Parigi ha mietuto vittime di ogni classe tennistica.

Non c’è molto altro da dire sulla partita. Ruud mette insieme appena 6 game, non un’umiliazione considerando che due anni fa Djokovic ne mise insieme 7. È solo l’eterna legge di Nadal in una finale di Parigi. Il pubblico ha cominciato solo a pregare che finisse presto, tutti aspettavano il discorso di Rafa. Sugli spalti non c’è Federer, ma ci sono Hugh Grant e Charlotte Gainsbourg, il Re Felipe e Stefan Edberg, Gustavo Kuerten e Michael Douglas. Tutti ad assistere a quella che potrebbe essere l’ultima partita del Re di Parigi. Col microfono in mano, dopo i ringraziamenti di rito, scende un silenzio teso, sciolto dal suo «Finché avrò forza continuerò» che fa gridare lo stadio di sollievo.

A posteriori viene da chiedersi come abbiamo fatto a credere al suo ritiro. Certo, lo aveva ripetuto quasi in ogni conferenza, che avrebbe potuto essere la sua ultima partita al Roland Garros. Poi, però, aveva continuato a vincere con prestazioni mostruose. Come sempre in carriera è riuscito a sublimare il dolore in una forma d’energia dura e imbattibile. Ha giocato sotto anti-dolorifici, con un piede dormiente, completamente anestetizzato. Non solo ha rinunciato a un addio compiuto e romanzesco, col suo quattordicesimo titolo parigino. Forse il più imbattibile dei record sportivi individuali. Ha anche promesso di continuare a giocare a tennis sul dolore, provandoci ancora e ancora. Ci stiamo abituando a sportivi di alto livello completamente medicalizzati, alle foto di Ibrahimovic che a quarant’anni si fa trattare il ginocchio con siringhe spesse come stecche da biliardo, a Federer che a quarant’anni decide di passare per trafile insopportabili di operazioni e riabilitazioni al ginocchio. Sportivi che faticano ad accettare l’idea del ritiro, che per un misto di dipendenza tossica da competizione e generosità continuano ad andare oltre i limiti di longevità. Nessuno però si sta spingendo verso l’autodistruttività come Rafa Nadal, e nessuno, soprattutto, la sta offrendo come spettacolo estremo al suo pubblico. A un certo punto verrebbe da chiedersi se è ancora sport, oppure un altro modo in cui lo sport si avvicina al sacro, e cioè alle prove di martirio dei santi. All’apice del dolore, sul limite del crollo definitivo, pare di ammirare la versione più pura di Nadal. Quella arrivata all’essenza dell’ethos dolente che lo ha guidato nella sua carriera. Ha vinto Parigi battendo 4 top-10. Per la prima volta dal 2010 ha vinto due Slam di seguito ed è teoricamente ancora in corsa per il Grande Slam, il Sacro Graal rincorso dai tre mostri. Proverà in tutti i modi a giocare a Wimbledon, cercando qualsiasi soluzione possibile per il suo piede. Punterà al ventitreesimo Slam, e il prossimo anno, quando la stagione sul rosso dovrà incoronare il suo principe a Parigi, Nadal potrebbe ancora essere uno dei favoriti. Sulla terra parigina ha giocato 115 partite, ne ha vinte 112.

Circola un video di un Roland Garros del 2008, una partita tra Nadal e Nicolas Almagro. Nadal doveva vincere ancora undici delle sue quattordici coppe dei moschettieri. Lascia fermo il suo avversario con un dritto perentorio. Almagro chiede le palline ai raccattapalle mentre scuote la testa, e borbotta: «Questo vincerà il Roland Garros anche a 65 anni».

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