Scrivere di Manoel Francisco dos Santos, detto Garrincha - come il piccolo uccellino che spesso si vede nel Nordest del Brasile, ma che negli anni ’40 era presente anche a Pau Grande, dove era nato - è difficile perché bisogna lottare con un’aneddotica quasi sconfinata.
Le storie sono molte e sono note. Garrincha che, dopo la vittoria a Svezia 1958, come premio chiede la liberazione di un uccello dalla gabbia mentre tutti i suoi compagni avevano scelto automobili o case. Garrincha che domanda perché i compagni piangessero dopo la vittoria della Coppa del Mondo contro la Svezia: «Ma abbiamo perso?», dice rivolgendosi a Gilmar. Garrincha che stipa i soldi negli armadi e sotto la cucina, dove ci va la spazzatura, come raccontato dal suo grande amico Nílton Santos che lo aiutava anche nelle faccende quotidiane.
Per scriverne è necessario partire da queste storie, o se volete leggende, ma anche dalla sospensione dell’incredulità. Alle storie, si sa, si può credere come si può non credere e per ricostruire la figura di Garrincha non sembra poi così importante deciderlo.
Istinto ed emozione
In The Energies of Men: a Study of the Fundamentals of Dynamic Psychology, lo psicologo William McDougall porta avanti la teoria del suo collega James Rowland Angell secondo il quale non si può parlare di istinto di fronte alla risposta inconscia di un essere umano. Secondo i due psicologi, c’è un connubio molto forte tra istinto ed emozione, e infatti McDougall non utilizza nemmeno il termine "istinto" ma più che altro “propensione”, una parola che ci permette di andare oltre il semplicistico processo S-R (stimolo-risposta). In questa interpretazione, se l'istinto ci porterebbe meccanicamente a una singola risposta, la propensione apre un ventaglio di risposte possibili, tutte collegate a diverse emozioni, mirando poi alla migliore possibile.
Le idee di McDougall ci aiutano a comprendere la semplicità del gioco di Garrincha, ad andare oltre la vulgata secondo cui facesse sempre la stessa finta. Un gesto che è stato a volte interpretato come una risposta meccanica all'opposizione di un avversario, come la specialità della casa di un ristorante, e che invece dovremmo leggere come un gesto-danza da connettere a diverse emozioni possibili, a seconda del suo utilizzo. Quella di Garrincha era per l'appunto una propensione - a trattare il pallone, ad affrontare un avversario - che gli apriva un ventaglio di possibilità ogni volta diverse a seconda del contesto, da cui sembrava scegliere apparentemente in maniera naturale sempre la migliore.
Garrincha usava quella finta di corpo per trasformare un minus - la gamba sinistra più corta di sei centimetri per colpa della poliomielite avuta da bambino - in un plus, cioè la capacità di piegarsi in maniera sorprendente verso sinistra scattando con esplosività verso destra con l’aiuto dell’esterno del piede. Questa finta gli è servita diverse volte per scrivere alcune delle pagine più belle della storia del calcio. Per esempio per saltare l’uomo e crossare verso il centro nei due gol realizzati da Vavá contro la Svezia in finale nel 1958, ma anche per puntare la porta e caricare il tiro.
Molto spesso poi la utilizzava in quello che oggi chiamiamo mezzo spazio, per creare ordine nel suo attacco, facendo disporre tutti i compagni nelle posizioni giuste, e successivamente disordine nella difesa avversaria, che si scomponeva per uscire su di lui. Allo stesso modo molte volte la faceva supporre, per poi non eseguirla quando gli avversari invece se l’aspettavano. Una sorta di finta della finta tra gioco psicologico e di piedi. Garrincha faceva la stessa finta ma in realtà non era mai la stessa finta. E quando la utilizzava, lo faceva per motivi diversi e in maniera sempre funzionale alle squadre in cui giocava.
Libertà e ingenuità
Guardando giocare Garrincha si ha spesso l’impressione che giochi a carponi. Nessun altro giocatore nella storia restituisce questa sensazione di essere obliquo rispetto al pallone, anche rispetto ad altri giocatori irregolari del suo tempo. L’arto ridotto lo portava infatti anche a una conformazione dello scheletro molto particolare, con una flessibilità estrema che però con gli anni sarà causa di dolori lancinanti alla schiena, che lo costringeranno a bere - forse per non pensarci, forse per continuare a giocarci sopra.
Questa irregolarità destabilizzava i suoi avversari. Garrincha era molto imprevedibile e sceglieva spesso soluzioni che puntavano sul piede debole, il sinistro (almeno teoricamente, se pensiamo che il terzino gallese Mel Hopkins, che lo affrontò ai Mondiali del 1958, disse che era perfettamente a suo agio con entrambi i piedi). Tutto si sarebbe potuto dire a Garrincha tranne che fosse monodimensionale.
La libertà di Garrincha in campo corrispondeva con una certa ingenuità al di fuori di esso. Uno dei suoi primi allenatori al Botafogo gli chiese di fare un esercizio, ovvero di ricevere la palla sulla fascia destra poco oltre il centrocampo, puntare e saltare il proprio avversario, andando poi sul fondo. Garrincha ripeté l’esercizio per una serie di volte e ogni volta faceva il tunnel all’avversario prima di andare sul fondo a crossare. L’allenatore, per preservare gli equilibri di spogliatoio, gli chiese di ripetere l’esercizio senza fare più tunnel al suo compagno ma lui fece finta di non sentire e continuò come se nulla fosse. A quel punto il suo allenatore decise di farglielo capire in maniera più chiara, mettendo una sedia al posto dell’avversario e spiegandogli con attenzione che bisognava passarci a fianco, o a destra o a sinistra. Garrincha lo ascoltò senza battere ciglio e poi ripetè l’esercizio. Il pallone passò sotto le gambe della sedia.
Per Garrincha il calcio è come mangiare, bere, respirare e, come ci ha detto di lui Darwin Pastorin, non c’era un motivo per farlo, non era possibile non farlo. Non poteva quindi cambiare come mangiare, bere o respirare, e allo stesso modo per il calcio rifiutava movimenti codificati che non si adeguavano al modo in cui lui giocava. Il calcio per lui era questa espressione naturale totale, che non sapeva guidare in maniera razionale. Faceva la scelta migliore, ma non la sapeva argomentare.
Forse anche per questo Garrincha sembrava come disinteressato al calcio che non giocava lui. Non studiava gli avversari, forse non pensava nemmeno a come avrebbe dovuto superarli. Garrincha non conosceva quasi nessun calciatore, se non quelli con cui giocava nel club o in Nazionale, e tutti i suoi avversari li chiamava con lo stesso nome, Joao. Un altro tratto della sua ingenuità infantile. Il bambino piccolo chiama il cane “cane”, non “husky” o “yorkshire”. Garrincha chiamava tutti quelli che non conosceva Joao.
Fantasia assoluta
Nel calcio degli anni ’50 e ’60 c’era molto più spazio per l’invenzione, il cui termine deriva dal latino “invenire”, ovvero trovare dal nulla, creare con le proprie mani, i propri piedi in questo caso. C’era spazio quindi anche per un giocatore completamente anarchico come Garrincha, la cui fantasia è raccontata anche da immagini inequivocabili.
C’è questo gol alla Fiorentina, ad esempio. Nel 1958 il Brasile era arrivato presto in Europa per preparare i Mondiali di Svezia. Gioca una serie di amichevoli per rifinire i dettagli, servono soprattutto a Vicente Feola per capire su chi puntare fra i titolari. Il CT del Brasile non si fida di Garrincha e nemmeno di Pelé, gli psicologi allora li definivano minorati, etichettandoli con uno strumento datato come il quoziente intellettivo. Pelé, poi, è ancora giovanissimo e va in panchina. Garrincha invece gioca ma, come si dice oggi, è attenzionato. A un certo punto fa questa cosa.
Oggi ci sembra una rete non particolarmente provocatoria, realizzata con una semplice doppia finta, eppure al tempo fu un gesto malvisto. Dopo aver segnato Garrincha torna a centrocampo e nessun compagno gli va a stringere la mano o ad abbracciarlo. Gli si avvicina solo il capitano Hilderaldo Bellini che lo riprende in maniera evidente, forse gli dice che non si devono prendere in giro gli avversari a quel modo. Feola si appunta questo eccesso di fantasia e lo tiene in panchina nelle prime due partite del girone, contro Austria e Inghilterra. Rendendosi conto che la squadra non gira, però, mette in campo Garrincha e Pelé dalla terza partita in poi, e il resto è storia. I verdeoro giocano contro l’Unione Sovietica e si dice (continuano le leggende) che il terzino sinistro Boris Kuznetsov abbia passato i venti minuti più terribili che un giocatore possa vivere. Garrincha è senza freni, un uomo che fisicamente e tecnicamente veniva da un altrove che Kuznetsov (grande mito della Dinamo Mosca e oro olimpico due anni prima a Melbourne) pensava non esistesse. Secondo chi l’ha visti, quei venti minuti sono tra i momenti più dominanti e incredibili della storia del calcio. In questi highlights qualcosa si intuisce (e si vede anche un assist fantastico di Didi per il primo gol di Vavá).
Il primo ad accorgersi che la fantasia di Garrincha fosse allo stesso tempo irrefrenabile e indispensabile fu un suo compagno di squadra, che diventerà quasi un fratello maggiore sia con il Botafogo che con la Nazionale brasiliana. È Nílton Santos, chiamato “Enciclopédia do Futebol” per la sua tecnica e la capacità di capire il gioco in tutte le sue sfaccettature.
Nílton Santos era un terzino sinistro e un pomeriggio gioca una partitella di allenamento con gli altri compagni del Botafogo. Contro di lui viene schierato un ragazzino in prova, Garrincha per l’appunto, che si diceva (perché la sua storia è sempre stata e sempre sarà storia orale) facesse meraviglie a Pau Grande, da dove veniva. Passano venti minuti e Nílton Santos esce dal campo, all’inizio non si capisce esattamente per quale motivo. Va negli spogliatoi dove ci sono lo staff tecnico e i dirigenti. Quasi gli urla di offrire subito un contratto a quel ragazzo, perché non avrebbe mai più voluto ritrovarselo contro. Il presidente Ibsen De Rossi (nome clamoroso, che se ci fosse ancora Umberto Eco avrebbe selezionato per un suo titolo in crasi, con una cosa del tipo: “Casa di bambola con la vena gonfia”) era fuori e non sarebbe tornato fino a sera. Nílton Santos non si scompone. Aspetta che la partita finisca, chiama a sé Garrincha e chiude tutti i presenti nello spogliatoio, in attesa del presidente. De Rossi arriva tardissimo, ma alla fine arriva, e Garrincha finalmente firma.
Un’altra testimonianza della grande fantasia garrinchana viene dal periodo che ha vissuto in Italia. Garrincha agli inizi degli anni ’70 ha vissuto per quasi due anni a Torvajanica, perché aveva seguito la sua nuova compagna, l’attrice Elza Soares, che era stata scritturata per alcuni spettacoli al teatro Sistina di Roma. Di questo periodo ho scritto nel libro Garincia e ho fatto diverse interviste a chi lo ha visto giocare in quel periodo.
Sappiamo che Garrincha in quegli anni ha giocato delle amichevoli con il Sacrofano, allenato dal suo amico ed ex compagno al Botafogo, Dino da Costa. Ha giocato al Circolo Canottieri Roma e a Campo de’ Fiori con i “ragazzi di vita” del tempo, molte volte dopo aver preso sbronze pesantissime girando per i diversi bar della zona.
Una volta gioca un quadrangolare con il Sacrofano, in estate, a Mignano Monte Lungo, in provincia di Caserta. Garrincha gioca sia la semifinale che la finale. In semifinale dribbla almeno 5-6 avversari prima di depositare la palla in porta, mentre in finale esprime la sua fantasia in un altro modo. Segna due gol olimpici, ovvero direttamente da calcio d’angolo, una volta colpendo di interno destro e una volta, dall’altra bandierina, colpendo la palla di esterno destro. Anche in questo caso sono storie, e alle storie si può credere come si può non credere. A me in tanti hanno confermato questa versione, e mi sembra non ci sia modo migliore per descrivere Garrincha, sempre alla ricerca di qualcosa di mai visto prima.
Le prime volte
Ci sono altre due storie significative, parlano di prime volte. Durante una partita Nílton Santos tira un calcio molto forte a un Joao. Il calciatore inizia a gridare per il dolore. Lo stadio non è troppo pieno e le urla si sentono perfettamente. Il pallone arriva a Garrincha che blocca l’azione. Può aggredire lo spazio e l'avversario di fronte, tutti sono pronti alla sua solita scorribanda sulla fascia, e invece Garrincha si gira di 180 gradi e calcia il pallone fuori dal campo, affinché il massaggiatore possa entrare in campo per vedere cosa fosse successo all’avversario. L’allenatore, infuriato, vuole toglierlo dal campo. Si dice - sì, si dice - che mai nessuno prima avesse deciso di non approfittare di questo vantaggio.
Passano alcuni anni e con il Botafogo gioca a Città del Messico contro il River Plate. Gli argentini erano arrivati all’ultimo allo stadio ed erano stanchi morti. Dopo pochi minuti già stavano perdendo 4-0. Allora Garrincha dice a Nílton che non vuole più segnare, che è ingiusto e inutile, e “Enciclopédia” concorda. Dice a tutti di limitarsi a passare il pallone, senza attaccare. Il pubblico però è eccitato, vuole spettacolo, e un po' per genia (la Plaza México è la più grande plaza de toros del mondo e, insieme alla Plaza de Toros di Siviglia e a Las Ventas di Madrid, anche una delle più importanti), un po' per celia, inizia a gridare olé ad ogni passaggio. Anche questa è una prima volta.
Ho letto una frase, non mi ricordo dove, chissà dove l'ha pescata la mia memoria guardando le sue partite: “Sentendo nominare Pelè i brasiliani si tolgono il cappello, sentendo nominare Garrincha gli scende una lacrima”. Non so se questa frase è vera ma posso cercare di capirla. Pelè in Brasile è un gigante assoluto, un monumento che solo da poco non è più fatto di carne. Garrincha invece non si può scolpire nella pietra perché la sua storia sfugge tra le mani, è difficile dire dove finisca la verità e inizi il mito. La sua storia è un culto domestico, una preghiera sussurrata tra i denti. Dire Pelè significa per tutti dire Brasile. Dire Garrincha non vuol dire nulla, perché ognuno ha la sua storia.