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R.E.S.P.E.C.T.
08 mar 2016
Cinque giocatrici che hanno fatto la storia del basket.
(articolo)
13 min
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Il basket femminile non gode di grande credibilità. Spesso viene considerato uno sport minore nel senso letterale del termine: ovvero uno sport in cui lo spettacolo latita, il livello tecnico è basso, se si segnano più di 40 punti è una specie di miracolo. Ma quando ci si avvicina alla pallacanestro in rosa, spesso si dimentica che le ragazze giocano con le stesse regole dei maschi, fatta eccezione per il pallone più piccolo: canestro a 3,05 metri e linea del tiro da tre da 6,75 costituiscono due barriere fisiche non facili da superare. Anche solo per questo chi sceglie tale sport piuttosto che altri considerati più “femminili” merita profondo rispetto e grande considerazione. Ovviamente non siete obbligati a farvelo piacere. Anche se non è mica detto che in queste condizioni manchino le emozioni.

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Oppure che le ragazze non siano in grado di eseguire movimenti immarcabili:

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In più va aggiunto che, come spesso accaduto agli sport femminili, anche il basket è stato oggetto di una visione legata più che altro alla bellezza delle giocatrici. Basti pensare che le ragazze furono protagoniste della prima partita in assoluto trasmessa alla Rai, Autonomi Torino-Marsiglia, nel 1954. Il perché lo spiegò tempo dopo il telecronista, Aldo Giordani: in parole povere le partite di pallacanestro erano l'unica occasione per mostrare in tv gambe di donna in un paese ancora vittima dei tabù sessuali.

Ho scelto cinque esempi, cinque storie di altrettanti giocatrici che nel corso della loro carriera e della loro vita hanno mostrato qualità tali da meritarselo, quel rispetto di cui sopra. Come donne, come atlete e come cestiste.

Mara Fullin

Se a volte i numeri non raccontano tutto, quelli del palmares di Mara Fullin spiegano come minimo che tipo di impatto ha avuto sul nostro basket. 18 stagioni in Serie A equamente divise tra Vicenza e Comense, 15 scudetti vinti (7 in Veneto, 8 in Lombardia). E non certo da comprimaria. Ah, poi ci sono anche 7 Coppe dei Campioni, 4 Coppe Italia, 1 Mondiale per Club. Un'ala dal tiro mortifero, con enorme etica del lavoro e grandissima voglia di vincere, in qualunque competizione. Quando nello scorso decennio era team manager della Nazionale, a fine allenamento veniva spesso coinvolta – o si faceva coinvolgere, se preferite – in gare di tiro con le azzurre: provate ad indovinare chi aveva la meglio 9 volte su 10 o giù di lì…

La Fullin ha vestito la maglia azzurra per 199 volte — un numero che sa tanto di beffa, come quando ti laurei con 109. Se non ha raggiunto e superato quota 200 è anche per un tragico avvenimento: pochi giorni prima dell'Europeo di Brno 1995 viene a mancare la sorella Michela. Mara non se la sente di partire per la Repubblica Ceca e il c.t. Riccardo Sales perde così una pedina fondamentale, tecnicamente e umanamente. Le azzurre però si compattano, battono tutte le avversarie in una cavalcata senza precedenti e si arrendono solo in finale all'Ucraina. Per la veneziana, dunque, c'è un solo rimpianto possibile in una carriera lucente: non aver ottenuto nessuna medaglia con la Nazionale. Ma l'amore per l'azzurro è qualcosa che vive dentro di lei, ancora oggi.

Dopo il ritiro è rimasta nel mondo del basket: ha fatto l'allenatrice, l'assistente in Nazionale, come detto la team manager in azzurro. Poi ha scoperto – insieme ad altri ex atleti, come Deborah Compagnoni - il nordic walking, ovvero la camminata con bastoni appositamente studiati. Ma il legame con il parquet non si è spezzato, non si può spezzare. A Cesena, dove si è trasferita dopo il ritiro, la Hall of Famer italiana allena le giovanili femminili della Virtus. Con un mantra: “Il mio obiettivo è quello di far capire ai giovani che non si deve per forza diventare campioni, ma che lo sport deve essere uno stile di vita, perché porta incredibili vantaggi alla salute non solo fisica ma anche mentale”. Qui incoraggia le azzurre del rugby verso il recente match del 6 Nazioni contro la Scozia: emozioni, orgoglio, brividi sono le parole che usa nel ricordare le partite con l'Italia.

Lisa Leslie

Il 30 luglio 2002 lo Staples Center è teatro della sfida tra Los Angeles Sparks e Miami Sol. La WNBA è nata da cinque anni, ma ancora fatica a conquistare spazi sui media nonostante si giochi d'estate e quindi con molta meno concorrenza. Servirebbe qualcosa che catalizzi le attenzioni, che faccia parlare la gente per giorni e giorni, che serva da manifesto per tutto il torneo. Servirebbe che quel qualcosa arrivi da una giocatrice disposta a stare sul palco mediatico.

Le Sparks recuperano una palla in difesa e lanciano in contropiede la loro miglior giocatrice. Sarebbe il loro centro, ma ha movenze da guardia e si è già fiondata verso il canestro avversario. Riceve, esegue il terzo tempo e... BAM! schiaccia a una mano. È la prima volta che accade in WNBA. Telecronista impazzito, pubblico in delirio, compagne che l'abbracciano. Eccolo “il qualcosa” che serviva: l'ha fatto Lisa Leslie, giocatrice mediatica come pochissime.

La top 10 della carriera della Leslie. Alla numero 1 la celeberrima dunk. Ma l'azione che ho rivisto più volte è la numero 2: una dimostrazione di dominio che sarebbe potuta continuare all'infinito.

Una decina di anni dopo arriverà Brittney Griner a schiacciare a due mani, aprendo una nuova era. Ma il primato della Leslie resta, e non solo quello. Cresciuta nel mito di James Worthy – che le sarà accanto nel giorno dell'ingresso nella Hall of Fame —, Lisa capisce sin da bambina che l'essere alta non basta per diventare una giocatrice. Si allena quindi sui movimenti dei piedi e sulla meccanica di tiro. Il gioco le piace e quelle sessioni non le pesano. Mancina naturale, impara a tirare anche con il destro per non sentirsi diversa dai compagni (e non compagne visto che è l'unica ragazza) di squadra nella middle school. A 18 anni, con la maglia del liceo di Morningside in California, segna 101 punti contro South Torrance. In un tempo! Non migliora il suo score perché le avversarie all'intervallo vanno via dando forfait: lei è troppo, troppo, troppo, troppo superiore.

Ricapitolando abbiamo: altezza, rapidità, fluidità di tiro, uso di entrambe le mani. In più una capacità di lettura del gioco non comune. Una così non si è mai vista. Una così è destinata a dominare. E infatti domina: quando si ritira è leader WNBA per punti e rimbalzi, con due titoli, tre MVP e due premi di difensore dell'anno. Con Team USA fa anche meglio: quattro ori olimpici consecutivi, da Atlanta '96 a Pechino '08, superando un mostro sacro come Teresa Edwards che ne vinse 4, ma non di fila.

Non di solo basket vive Lisa, tuttavia. Già da giocatrice non disdegna apparizioni in passerella o in tv come attrice: nel 2001 è testimonial insieme a Kevin Garnett del videogioco Backyard Basketball; nel 2012 interpreta sé stessa in Think Like a Man. E fermiamoci qui perché altrimenti ci perdiamo in mezzo alle sue attività post ritiro. Tutto questo senza dimenticare l'enorme merito di aver mostrato alle ragazzine di tutto il mondo che possono “crescere fino a diventare 1.96” (quasi-cit. Lisa Simpson, episodio 14x10).

Amaya Valdemoro

Mira la rubia, la rubia!

Il sabato di intermezzo tra semifinali e finali della Final Four di Eurolega è dedicato a varie attività. Tra queste c'è la partita tra giornalisti: 22 selezionati dall'organizzazione tra quelli accreditati che si sfidano in una partita dai contenuti tecnici, come dire, rivedibili (scrivo così perché non sono stato mai convocato e l'invidia mi rode dentro). Poi c'è anche una chicca: per completare le due squadre vengono chiamati due ex giocatori. A Madrid, nel maggio 2015, ci sono Theo Papaloukas e Nikola Vujcic. Poi, all'improvviso, appare una donna sulla quarantina, capelli biondi legati, fisico asciutto, a pieno agio sul parquet. È lì per divertirsi insieme ai colleghi, ma al primo pallone toccato esegue un palleggio, arresto e tiro da lasciare a bocca aperta per la pulizia assoluta del gesto. Fa canestro ed esulta pugni al cielo. Non è solo una giornalista, è evidente. Assisto alla scena seduto a bordo campo e un collega spagnolo accanto a me ripete più volte con entusiasmo incontenibile: “Mira la rubia, la rubia!”. La rubia, la bionda, in questione è Amaya Valdemoro. Semplicemente la più grande giocatrice spagnola di sempre.

1 ottobre 2010, quarto di finale del Mondiale. La Francia ha dominato in lungo e in largo, la Spagna non ci ha messo mano. Ma nel 4° periodo cambia tutto e forse è il capolavoro della carriera di Amaya: prende per mano le compagne e le porta al supplementare, poi vinto. Marca.com scriverà con abbondante enfasi: “Y a la gran capitana la siguieron todas, al unísono, como un ejército, como una hermandad incorruptible que ahora puede saborear el éxito que siempre corona el sacrificio extremo”.

Le 258 presenze con la maglia delle Furie Rosse ne fanno la recordman assoluta non del basket femminile, non del basket in generale, ma di tutto lo sport spagnolo. Parlare della Valdemoro significa parlare di una che ha fatto la Storia del baloncesto, con una bacheca ricchissima comprendente tre titoli WNBA con Houston. Una che ha fatto del lavoro quotidiano in palestra uno stile di vita, una che quando apriva bocca in campo emanava carisma allo stato puro, un'ala poliedrica in attacco e generosa in difesa.

“Il cammino di una persona ha momenti difficili ma all'arrivo c'è sempre una ricompensa” è una delle frasi della chica nativa di Alcobendas che meglio la rappresenta. Di momenti difficili ne ha vissuti tanti ma forse mai come nel 2011. A 35 anni prima si infortuna durante l'Europeo in Polonia, lasciando la Spagna orfana del suo leader tecnico ed emotivo; poi durante il match di Eurolega con il suo Rivas Ecopolis in casa del Gospic Croazia si procura una frattura ad entrambi i polsi. Roba da uscire fuori di testa. Ma la reazione di Amaya è perfettamente in linea con il suo carattere testardo e con l'amore smisurato per il gioco: dal letto d’ospedale, fresca di ricovero, dichiara che vuole tornare a giocare il prima possibile. Evidentemente sa che superando quella difficoltà avrà una ricompensa. Che prende la forma della medaglia d'oro ai Campionati Europei 2013, l'unico alloro che le mancava. Non è la prima opzione in attacco – bastano e avanzano Alba Torrens e Sancho Lyttle – ma dà l'anima in ognuno dei 140 minuti che mette piede in campo. Dopo un trionfo così la Valdemoro decide di ritirarsi, da regina indiscussa del basket spagnolo. Una regina che non perde il suo trono anche da commentatrice per Canal+. Ecco perché giocava il Media Game a Madrid. Dimenticavo: dopo quel canestro ne ha fatto un altro, poi un altro, poi un altro ancora...

Catarina Pollini

Se la Valdemoro è stata la Regina del baloncesto, Catarina Pollini da Vicenza è stata la Zarina della pallacanestro. Soprannome quasi scontato per il nome che richiama la Russia e per l'eleganza dei movimenti che sfoderava sotto canestro, rendendosi difficilmente marcabile. Anche per lei ci vorrebbe un long form solo per l'elenco dei trofei conquistati, molti dei quali vinti insieme a Mara Fullin: limitiamoci a ricordare 12 scudetti e 7 Coppe dei Campioni con Vicenza, Cesena e Comense. Una vita passata nella squadra di casa, un'altra in giro per il mondo – nella stagione 1988-'89 prende armi e bagagli e va a giocare con le Texas Longhorns, in NCAA; nell'estate del '97 a 31 anni vince il titolo WNBA con Houston, pur senza quell’entusiasmo incredibile verso gli Stati Uniti che aveva quando fece l’impossibile per giocare ad Austin; nel 2000 va in Spagna diventando perno insostituibile di Lugo tanto in campo quanto poi fuori, e in seguito a 43 anni di nuovo sul campo per salvare la squadra dalla retrocessione dalla A-2.

Ma la Pollini non ha avuto un ruolo da Zarina solo sul parquet e con addosso la canotta da gioco. Nell'estate del 1998 scade il contratto con la Comense e la vicentina decide di andare a giocare a Schio. C'è però una questione che blocca tutto: la società comasca proprietaria del cartellino pretende per lei, in quanto giocatrice dilettante, 150 milioni più IVA. Schio rifiuta e la Pollini intraprende una battaglia legale, portata anche in Parlamento lunga 10 anni, imperniata su un concetto molto chiaro: perché alle donne non è permesso ciò che invece è consentito agli uomini, ovvero la completa libertà contrattuale prevista dalla legge 91/81? “Non sono mai stata femminista, però in Italia esistono cose fatte da uomini che non devono riguardare le donne: non mi va giù”.

Diventa di fatto la portavoce di un intera categoria che si affida a lei, alla sua grinta, alla sua caparbietà come mille volte accaduto durante una partita. Il primo effetto della guerra Pollini-FIP è la squalifica della giocatrice per aver violato la clausola compromissoria, squalifica poi revocata per un intervento del Ministero del Lavoro. Nel marzo 2008 il Consiglio di Stato le dà ragione, ma è una vittoria di Pirro: a tutt'oggi la legge non è stata modificata. Se amarezza esiste ancora nel cuore di Catarina, il centro storico di Lugo – dove vive tutt'ora — e le passeggiate lungo i fiumi Miño e Rato servono a mitigare molto. Nel 2013 entra nell'Italia Basket Hall Of Fame: più che di un risarcimento, possiamo parlare di un obbligo morale. Impossibile tenere fuori una come lei.

Cheryl Miller

Se le sue ginocchia non fossero state di cartavelina, Cheryl Miller avrebbe probabilmente dovuto comprare un ampio bilocale dove mettere coppe, coppette e medaglie. Nel 1986, ad appena 22 anni, è stata invece costretta a dire basta: posso affermare che si tratta di una delle ingiustizie sportive più inaccettabili di tutti i tempi. Chiamo sul banco dei testimoni il fratello Reggie, quel Reggie Miller.

The one rivalry Reggie Miller just couldn't win

Si è spesso discusso, anche nel basket, della possibilità di far gareggiare uomini e donne insieme e/o contro: uno dei casi più recenti di dibattito al riguardo è Serena Williams. Poco prima del ritiro e subito dopo uscita dall'università, Cheryl Miller ricevette una proposta anche dalla lega maschile United States Basketball League. Non sapremo mai come sarebbe andata se avesse accettato ma forse, in fondo, non è così importante nemmeno chiederselo.

Quello che conta davvero è che i quattro anni alla University of Southern California della Miller sono stati incredibili. Agonismo feroce, talento smisurato, mani educatissime, comprensione del gioco nel tempo e nello spazio: un cocktail micidiale che rendeva la californiana un rebus irrisolvibile per le difese. Due titoli NCAA, quattro volte All-American da aggiungere ai quattro ricevuti al liceo, tre volte miglior giocatrice, una lunga serie di record ancora imbattuti per la USC che ritirò la maglia numero 31 (esatto: avete visto un Miller con la 31 ad Indianapolis per parecchi anni), onore concesso per la prima volta a un Trojan. Già che c'era ha aggiunto un oro olimpico e uno mondiale, per di più a Mosca, nel 1986, contro le sovietiche che tre anni prima a Rio avevano beffato le yankee all'atto conclusivo. Se solo quelle maledette ginocchia...

Appese le scarpette al chiodo, la Miller non abbandonò il basket anche perché il basket non voleva saperne di separarsi da lei. Prima da allenatrice – ovviamente ad USC, poi anche a Phoenix in WNBA e adesso alla Langston University – e poi da apprezzatissima analista e commentatrice per le principali tv statunitensi, Cheryl ha messo in mostra tutte le sue qualità e la conoscenza del gioco che è parte di lei, è dentro di lei. Più che giusto che sia stata lei ad essere introdotta per prima nella Women Basketball Hall.

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