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(di)
Fabrizio Gabrielli
Quinto Mondo, vol.4
02 lug 2014
02 lug 2014
Tre ritratti di calciatori che rappresentano Nazionali “minori”, qualificate agli Ottavi e a detta di chi se ne intende pronte a essere eliminate dal Mondiale. O forse no. Ultima puntata.
(di)
Fabrizio Gabrielli
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In un’intervista del 2010 a

, il più importante quotidiano sportivo algerino, Raïs Ouahab-M’Bolhi era stato molto chiaro (e convincente): «se Domenech [

] e Saâdane dovessero chiamarmi in contemporanea non esiterei neppure un attimo, sceglierei l’Algeria». Nato nella banlieue parigina da padre congolese e madre algerina, Raïs è cresciuto nel vivaio del Racing Club de Paris; allenandosi sul campo dello Stade Yves-du-Manoir non può non aver immaginato l’emozione di giocare una Coppa del Mondo (al Colombes, nel 1938, si disputò la finale dell’edizione francese, la terza in assoluto). Niente, però, doveva apparirgli più lontano di una convocazione in Nazionale quando, dopo aver mollato la squadra riserve dell’Olympique Marsiglia, gli si è spalancato di fronte un percorso periglioso che, partendo da una stagione senza presenze agli Hearts of Midlothian, in una spirale diretta dritta all’oblio l’ha condotto prima nella serie B greca (con l’Ethnikos Pireo), poi a una modestissima squadra della prima divisione ellenica (il Panetolikòs), infine in Giappone, agli ordini di Philippe Troussier, nell’FC Ryūkyū.

 

All’epoca dell’intervista a

, Raïs era reduce da una stagione esaltante in Bulgaria, dove ha difeso i pali della gloriosa CSKA di Sofia. In un altro passo dice: «Io mi impegno molto, faccio il mio. Non è che mi metto a dire che merito d’essere convocato. Sarebbe mancare di rispetto al selezionatore, che conosce meglio di chiunque altro il suo lavoro. Sarei soltanto molto felice se mi chiamasse, questo sì». Saâdane, dopo averlo visto in video, decide di convocarlo: del ventiquattrenne Raïs, ad Algeri, nessuno, men che meno in Federazione, aveva mai sentito parlare. Non aveva neppure il passaporto algerino, per dire. Il console in Bulgaria si adopera personalmente affinché venga preparato nel più breve tempo possibile.
È il quattro maggio 2010, manca poco più di un mese al Mondiale in Sudafrica e Raïs, da emerito sconosciuto, diventa il primo sostituto di Fawzi Chaouchi.
Lo stesso giorno Sir Alex Ferguson—che ha il problema di dover rimpiazzare l’infortunato Edwin van der Sar—lo include nella lista dei “visionabili” per un provino: Raïs vola in Inghilterra (anche se, come si lamenta la stampa algerina, «nessun cenno su di lui è stato fatto sul sito del Manchester United») e in patria diventa una specie di celebrità. A braccetto con le lodi spuntano i primi detrattori: Raïs finisce al centro delle critiche per questioni religiose (e quindi nazionalistiche), lo

di essere ebreo, fatto che in qualche modo lederebbe la sua

. A respingere le critiche ci pensa la madre, Aïcha: «Da piccolo era praticante: faceva la preghiera e digiunava durante il Ramadan; ai tempi delle giovanili dell’OM pregava tantissimo, ha dovuto smettere con la pratica dell’Islam per gli impegni professionali, ma è profondamente attaccato alle sue radici, capisce l’arabo e conosce anche molte frasi tipiche dell’arabo algerino, il che dimostra che contrariamente a quanto si crede è algerino al 100%».

 

Raïs esordisce ai Mondiali sudafricani contro l’Inghilterra. Viene la tentazione di parlare di segni del destino. Chaouchi, contro la Slovenia, nella partita d’esordio, ha offerto una prestazione davvero mediocre: Saâdane scommette su Raïs e, in parte, vince. La partita termina 0-0, in patria il portiere viene acclamato come un eroe, lui si schermisce: «No, non sono un eroe. Non abbiamo mica vinto: abbiamo fatto una buona partita, ma sempre un pareggio resta».
Poche settimane dopo la fine (mesta, per le Volpi del Deserto) del Mondiale sudafricano, Raïs era atteso all’esordio sul suolo patrio, in un’amichevole contro il Gabon. Appena atterrato all’aeroporto internazionale Houari-Boumédiène, una telefonata l’ha avvertito che la madre era venuta a mancare. Era già in fin di vita, quando si erano sentiti telefonicamente, prima che Raïs si imbarcasse da Sofia. Le aveva confessato di essere combattuto tra la convocazione e volare a Parigi per vederla. Lei gli aveva consigliato di andare in Algeria e giocare. Dopo essere rimasto chiuso per due giorni nella sua stanza d’albergo, Raïs è tornato ad allenarsi. Scendere in campo avrebbe significato, in un certo senso, onorare la memoria—e le radici—di sua madre. L’Algeria, quel giorno, perse 2-1.
Lo stesso risultato con il quale, al termine di una gara tiratissima, la Germania ha posto fine al sogno algerino ai Mondiali brasiliani, solo qualche giorno fa.


A meno che non comporti un lauto premio in denaro, mi sembra davvero una cattiveria che venga proclamato Man of the Match un calciatore della squadra sconfitta ed eliminata. O quantomeno, non si dovrebbe poi pretendere che sorrida, nella foto di rito.


 


Lunedì 30 Giugno, subito dopo la sconfitta per 2-0 contro la Francia (nella quale ha consolidato,

, il risultato che è costato l’eliminazione alla Nigeria), presentandosi in conferenza stampa il capitano Josep Yobo ha detto: «È così e non potrebbe essere altrimenti. Posso guardarmi alle spalle, riosservare la mia carriera e dire di esserne molto orgoglioso. Ora è tempo di lasciare il passo ai più giovani». Al termine di un Mondiale che, al netto della sbiadita sfida contro l’Iran (match nel quale non è sceso in campo), sembrava si stesse svolgendo solo per permettergli di raggiungere il suo record personale, Joseph Yobo ha detto addio alle Super Eagles.
Quella contro i transalpini nella gara valida per gli Ottavi della Coppa del Mondo è stata la sua centesima presenza. La FIFA ha negato non solo qualsiasi cerimonia di premiazione (sarebbe meglio dire: consegna formale di un riconoscimento), ma addirittura non ha reso possibile neppure un piccolo festeggiamento per il capitano africano, autore di una militanza lunga tredici anni e tutto sommato povera di successi, dal momento che l’unico trofeo che è riuscito ad alzare al cielo da capitano (peraltro subentrando all’89’ in quella che è sembrata una sostituzione

) è stata la Coppa d’Africa conquistata a Johannesburg nel 2013.
In verità c’è ben poco da festeggiare. Se c’è qualcosa che questo Mondiale brasiliano ha permesso di capire è che senza grosse illusioni il miracolo africano—che ci sembrava così vicino dopo Francia ’98—è invece ancora ben lungi dal realizzarsi, e non tanto per una questione tecnica (seppure il livello medio sia in generale calo) quanto per un fatto di

. A partire dalle dinamiche di squadra, dai rapporti tra compagni dentro e fuori dagli spogliatoi: sotto questo punto di vista il Team Nigeria non fa eccezione, è completamente in frantumi e la mossa di Yobo, la decisione—sicuramente sofferta—di non indossare mai più la maglia verde sembrerebbe essere stata, più che l’ultimo canto del cigno, la mossa baldanzosa e profondissima allo stesso tempo di chi se ne va di casa sbattendo la porta per provare a vedere se così si può salvare un matrimonio, o almeno ci si può assicurare la felicità del partner.
Nel caso specifico di Yobo, gli screzi più grandi erano—oltre che con buona parte dello staff tecnico, vale a dire l’ex portiere della Nazionale Ike Shorunmu, l’ex punta del Bruges Daniel Amokachi e l’ex stopper Sylvanus Okpala—con l’allenatore Keshi, che dei membri del suo staff è stato compagno di squadra negli anni ’90, anni che vedevano i Verdi godere di una certa

, e che non è propriamente famoso per la tolleranza e la predisposizione al dialogo. Figurarsi con chi è convinto d’essere insindacabilmente dalla parte della ragione.

 

I motivi del diverbio: quelli sono un po’ più complessi.
Già un anno fa, alla vigilia di una gara di qualificazione contro il Kenya per la quale non era stato convocato, Yobo non aveva perso occasione di illustrare tutto il suo malumore: «Sono il capitano, e in quanto tale credo di meritare almeno un po’ di rispetto: non sono un calciatore part-time». Inoltre sembrerebbe che Yobo, una carriera di tutto rispetto spesa essenzialmente tra Everton (primo calciatore africano a diventarne il capitano) e Fenerbahçe, abbia accusato Amokachi e Ike di essere

dei suoi

.
Il commento più diretto, sfrontato e definitivo su tutto questo pasticciaccio è quello di Taribo West: «Nessuno è geloso di lui, come si fa a essere gelosi di lui? È un immaturo, per niente adatto a fare il capitano. Ed è anche un irriconoscente».
 




 

Sì, lo so che è un profilo twitter molto fake. Ma ogni volta che lo vedo mi viene da immaginare Taribo con la camicia e la cravatta, sarebbe perfetto (in quanto a Yobo ci sarebbe da starne certi: non gli chiederebbe mai di tornare sui suoi passi e rovinare quel bel numeretto tondo tondo di presenze).


 


Quando, al 56’ della gara inaugurale del Gruppo D tra i Campioni d’America dell’Uruguay e Costa Rica, Cristian Bolaños ha disegnato un cross diretto sul secondo palo, nessuno ha immaginato che su quel pallone, in tuffo, quasi da terra, a imprimere una traiettoria discretamente inimmaginabile al Brazuca, potesse arrivarci il difensore del Brugge Óscar Duarte. Nessuno credeva possibile che Costa Rica potesse ribaltare il risultato sul 2-1, dopo esser passata in svantaggio (ok, nessuno tranne noi di

). Di certo era impensabile che la rete del vantaggio costaricense potesse metterla a segno un nicaraguense.
A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, l’immigrazione “nica” (cioè proveniente dal Nicaragua) in Costa Rica è cresciuta esponenzialmente fino a diventare una criticità politica e sociale: strumentalizzando la differente posizione governativa e diplomatica dei due Paesi, c’è chi ne ha fatto grimaldello per lo sdoganamento della xenofobia, chi argomento da campagna elettorale. Per le frange più nazionaliste, i “nicos” erano “gli altri”, “la minaccia”, “gli intrusi”, e in quanto tali oggetto di umiliazioni culturali, atti d’intolleranza, fino alla vera e propria aggressione fisica.


L’umiltà di partire in sordina, defilato; la tenacia di insistere, sgomitare se necessario, non farsi abbattere. Perché prima o poi arriva anche per te, il momento del riscatto, di buttarla dentro, di esultare con una bandiera sul cuore, e un’altra dentro al cuore.


 

Tra i cinquecentomila immigrati nicaraguensi che hanno attraversato nell’arco di un decennio il fiume San Juan, confine naturale tra i due Paesi, c’è stato anche Óscar Esaú Duarte Gaitán. Nato nel 1989 nella provincia di Masaya, a metà strada tra Managua e San José, Oscar si è trasferito con la famiglia in Costa Rica nel 1994 all’inseguimento del miraggio di un lavoro, di un’opportunità di studio, di una vita più tranquilla.
Oggi il giornalista nicaraguense Wilfredo Miranda scrive: «Nessuno può permettersi di criticare Duarte, per nessun motivo. Il fatto è che il Nicaragua non poteva offrirgli l’opportunità di mettere in mostra il suo talento. Perciò dobbiamo sostenerlo, perché è quanto di più vicino abbiamo, e avremo mai, alla Coppa del Mondo».
Mettendosi in mostra contro l’Uruguay, formando con Umaña e González una diga insormontabile contro gli attacchi italiani e inglesi, Duarte ha fatto per le relazioni Nica-Tico più di quanto sia riuscito a fare ogni singolo politico negli ultimi cento anni. Se ne è accorta anche la ricercatrice universitaria nicaraguense Martha Cranshaw, direttrice dell’Associazione Immigrati del Nicaragua: «È il momento buono, per entrambe le nazioni, di realizzare quanto interconnesse siano le due popolazioni. Questo dovrebbe essere il momento in cui cominciamo a guardare all’immigrazione con nuovi occhi, a riconoscere che Nicaragua non esporta solo manovalanza, ma anche talento—e il suo talento può aiutare Costa Rica a crescere, svilupparsi e diventare un Paese di successo».
Contro la Grecia Duarte è stato espulso per somma di ammonizioni, e nella storica sfida dei Quarti di Finale contro l’Olanda non ci sarà.
In compenso può stare sicuro che ad attenderlo in campo contro, che ne so, l’Argentina, nella successiva Semifinale, c’è non già più una sola nazione, ma due: quella che gli ha dato i natali, e quella che ha contribuito a far entrare nella leggenda.

 

 

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