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Fabrizio Gabrielli
Quinto Mondo, vol.2
23 giu 2014
23 giu 2014
Quattro ritratti di calciatori che rappresentano Nazionali "minori", a detta di chi se ne intende, pronte a essere eliminate il prima possibile dal Mondiale. O forse no.
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Fabrizio Gabrielli
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ENRIQUE JUNIOR DÍAZ, COSTA RICA Enrique Díaz, ai Mondiali di Italia ’90, ci sarebbe potuto essere, ma forse è più corretto dire che ci sarebbe dovuto essere. Laterale sinistro con la pelle color della notte senza luna, soprannominato el zancudo (la zanzara) per le lunghe leve e la fastidiosità della sua presenza sulla fascia, Enrique aveva giocato 900 minuti complessivi nella fase finale, quella ristretta a sei squadre, del girone di qualificazione della ConCaCaf. Vale a dire tutte e dieci le partite. Poi, nel maggio del 1990, Bora Milutinović lo aveva escluso dalla Sele costaricense ai Mondiali italiani, causando qualcosa simile a un’insurrezione popolare. C’è una scena del film cui ho accennato nella Guida ai ticos in cui si capisce bene il dramma di quest’uomo che deve spiegare al figlio, un ragazzino di sei anni, il significato di giustizia e ingiustizia: “Il calcio è così: si gioca a calci, ma a volte a calci prendono te”. Quel bimbetto era Enrique Junior Díaz, che abbiamo imparato a riconoscere nel fotogramma in cui lascia partire, dalla nostra trequarti, un cross perfetto per la testa de la compadrita Bryan Ruiz. Cresciuto nell’Herediano, l’unico rivale credibile del Deportivo Saprissa in Costa Rica, Junior Díaz ha fatto il suo esordio in Nazionale ad appena vent’anni; quattro anni più tardi ha attraversato l’Oceano Atlantico per vestire le maglie del Wisla Cracovia, poi del Brugge, tornare in prestito a Cracovia, ritornare nella Venezia belga e infine approdare, nel 2012, al Mainz, in Bundesliga. “Sento di avere una grande responsabilità. Per molti giocatori ci sono partite che sono note a margine, per me ogni partita è qualcosa di grande perché so che dal Centro America mi stanno guardando, mi sostengono e sperano che con il mio rendimento possa aprire uno spiraglio anche per loro. In ogni partita sento di avere l’obbligo di dimostrare che nell’America centrale c’è qualità; la mia missione è convincere la Bundesliga a puntare sui nostri giocatori. Per questo ogni volta che gioco bene non sono solo io a sentirmi orgoglioso, ma tutti quelli che da me si sentono rappresentati”. Devono essere tutti molto fieri, allora, di Junior Díaz, specie quest’anno che con il Mainz ha giocato pressoché tutte le partite conquistando una qualificazione per certi versi sorprendente alla prossima Europa League. E dire che nella Sele, invece, la maglia da titolare sembrava una chimera; se ogni cosa fosse andata come da copione il proprietario della fascia sinistra sarebbe infatti stato Bryan Oviedo, l’esterno difensivo dell’Everton protagonista di una stagione clamorosa, o sarebbe meglio dire di una mezza stagione poiché a gennaio, durante una gara di FA Cup contro l’Everton, si è rotto una gamba, infortunio che ne ha bloccato la crescita tecnica e pregiudicato la presenza al Mondiale. Una felice congiuntura astrale ha fatto sì, invece, che al quarantaquattresimo della sfida contro l’Italia, a quel preciso punto della fascia d’attacco sinistra, ci fosse lui. Enrique senior dice di essere molto soddisfatto: “È sangue del mio sangue, ed è un po’ come se ci fossi andato pure io al Mondiale”. Poi confessa d’aver metabolizzato la delusione, dopo tanto tempo. “Ora mi piace andare in chiesa, e poi a ballare. Sembro nato per la salsa, il merengue, il soca e il reggae”. https://www.youtube.com/watch?v=A5dhmSlE0z4

Siccome sono convinto che impareremo a memoria il gol di Bryan Ruiz su assist di Junior Díaz fino a ricordarne ogni particolare, un po’ come c’è successo con la scena del coreano che si cappotta dentro la rete nel filmato del ’66, ecco che tipo di reti segnava il padre, el Zancudo.

ENNER VALENCIA, ECUADOR Il miglior paragone esemplificativo che mi viene in mente per illustrare il rapporto tra i Valencia dell’Ecuador, Antonio ed Enner, prima dell’inizio dei Mondiali è quello tra Roma e la città di Roma che si trova in Australia: la prima la conoscono tutti, la seconda soltanto i più curiosi, gli appassionati di toponomastica. Entrambi i Valencia (Antonio, attualmente al Manchester United; Enner fresco capocannoniere della Liga MX, il massimo campionato messicano, con la maglia del Pachuca) hanno mosso i primi passi calcistici nel Caribe Junior; Enner ci è arrivato dopo esser stato notato in un torneo parrocchiale nella sperduta regione di Esmeraldas, dove il giovane attaccante viveva aiutando il padre a pascolare le vacche, mungerle e vendere il latte per il sostentamento della famiglia. È con i proventi del latte che ha acquistato le prime scarpe da calcio. Nel 2008 l’Emelec, una delle società più importanti di Quito, fondata dai dipendenti della Società Elettrica Nazionale, lo ha messo sotto contratto: per sei mesi è vissuto, insieme ad altri ragazzi, in una stanza negli spogliatoi dello stadio George Capwell. La sua crescita è stata esponenziale, e sotto la guida di Sampaoli, l’attuale direttore tecnico della Nazionale cilena, è definitivamente esploso ereditando sia la maglia numero 14 che il ruolo di leader in precedenza appannaggio del monumento nazionale Otilino “Spiderman” Tenorio, scomparso prematuramente e tragicamente nel 2005. Dopo il meraviglioso cammino in Copa Sudamericana 2013, della quale si è laureato capocannoniere, Enner è stato soprannominato Superman, ma come ci tiene a sottolineare: “Non mi considero un super eroe, o un salvatore, niente di tutto questo”. Nell’ultima stagione all’Emelec la Nike lo ha contattato per sottoscrivere un contratto di sponsorizzazione: “Ne ho parlato molto con i miei compagni, e abbiamo riflettuto sul fatto che prima ci toccava fare dei gran sacrifici anche solo per comprarcene un paio, di scarpe, e ora che ce ne mandano sei o sette non sappiamo che farcene. Ma bisogna godersela, finché dura”. Nell’ultima stagione messicana ha segnato 16 reti in 21 partite, una ogni 118 minuti, una media ridondante che lascia presagire un futuro lontano dalle terre azteche. Attualmente è il capocannoniere del Mondiale, con tre reti in due partite, ed è stato il primo ecuadoregno a segnare una doppietta in una partita di Coppa del Mondo. Alex Aguinaga, un’altra leggenda dalle parti di Quito, lo aveva predetto in tempi non sospetti, subito dopo la scomparsa del trascinatore della Tri Roberto Chucho Benitez, anche lui venuto a mancare nell’anno prima del Mondiale: “Se c’è qualcuno cui spetta la maglia numero 9 della Selección, quel qualcuno è Enner Valencia”. https://www.youtube.com/watch?v=fnqjXwjTY1Y

Il soprannome “Goal Machine” è orrendo almeno quanto la maglia da trasferta del Pachuca. Ma il fiuto c’è, e lo si vede dal gioco di gambe con cui Enner si destreggia nel corpo a corpo con il difensore prima del primo gol.

NOEL VALLADARES, HONDURAS E così con gli exploit di Ochoa e Bravo sono tornati di moda i portieri americani, anche se decotti dalla pazzia intrinseca al ruolo e alla provenienza geografica cui c’eravamo (mal) abituati nel ventennio ’70-’90 (altre cose considerate fashion nello stesso periodo: le espadrillas e i sabot da donna), la Golden Era del loco Gatti, di René Higuita e di Jorge Campos. Anche Noel Valladares, estremo difensore e capitano della Nazionale di Honduras da più di un decennio, a ripercorrerne la biografia calcistica sembra essersi—come dire—dato un contegno: nei Giochi Panamericani di Winnipeg, Canada, del 1999 era balzato (un po’ in ritardo) all’onore delle cronache per giocare metà partita tra i pali e metà in attacco, una stramba abitudine che aveva messo in pratica anche durante un Clásico della città di Tegucigalpa, tra Olimpia e Motagua, nel 2003. All’epoca Valladares giocava con il Motagua, e nel secondo tempo aveva deciso di dismettere i guanti e gettarsi all’attacco, segnando la rete decisiva del 2-0, di testa. Ad oggi, l’unica rete che abbia mai messo a segno. “Ho il complesso dell’attaccante: mi trovo più spesso a dare consigli alle punte che non ai miei difensori”, ha detto, prima di confessare che il suo sogno proibito è quello di giocare “almeno cinque minuti come attaccante a un Mondiale per ricordare i miei esordi al Motagua”: l’occasione brasiliana sembrerebbe essere davvero l’ultima, a trentasette anni suonati. Nel cammino verso Rio Valladares ha ricoperto il ruolo di caudillo e chioccia allo stesso tempo. Nella prima partita delle qualificazioni Honduras sfidava Panama in casa. La formazione della Bicolor era infarcita di giovani reduci dall’entusiasmante cammino olimpico di Londra 2012 (Honduras uscì soltanto ai quarti, sconfitto 3-2 dal Brasile di Neymar), alla prima uscita con la Nazionale maggiore: molti di quei calciatori oggi sono titolari inamovibili. Il risultato è stato catastrofico: sconfitta per due a zero, tifosi imbestialiti, calciatori costretti a rimanere per ore chiusi nello spogliatoio. È in quella circostanza che sembra abbia detto: “Benvenuti alle eliminatorie ConCaCaf, signori; benvenuti alle partite tra uomini veri”. Nel 2010 si era messo in mostra per una serie di prestazioni molto positive: dopo aver ceduto il passo soltanto ai futuri campioni della Spagna (0-2) e ai fortissimi cileni (0-1, con una parata memorabile su tiro ravvicinatissimo di Waldo Ponce), nell’ultima partita del Mondiale aveva bloccato praticamente da solo sullo 0-0 la Svizzera guadagnandosi la palma di Man of the Match. Della sua avventura brasiliana, invece, passeranno agli annali i poco invidiabili primati di prima autorete di un portiere (contro la Francia) dai tempi di Zubizarreta e primo estremo difensore coinvolto nella riprova della Goal Technology. Restano impregiudicate le possibilità di vederlo schierato come attaccante, e di tramandarlo agli annali come primo portiere autore di una rete a un Mondiale. Dopotutto possono essere sufficienti cinque minuti, non uno di più.

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La disperazione nello sguardo di Noel Valladares: la Goal Technology prima lo scagionerà, qualche secondo dopo lo incastrerà ineluttabilmente. Autorete del portiere. Era da un po’ che non succedeva ai Mondiali.

TIMOTHY “TIM” FILIGA CAHILL, AUSTRALIA Ci sono una manciata di ragioni per le quali è fin troppo semplice farsi stare simpatico Tim Cahill, al di là della rete stratosferica segnata di volée contro l’Olanda. Figlio di un australiano di origini irlandesi e di una samoana, Tim a soli quattordici anni è stato convocato dalla Nazionale della madre. Ci sono una serie di leggende metropolitane sui motivi per i quali Tim, insieme al fratello Chris, accettò, e ruotano tutte attorno alla volontà di andare a trovare una nonna ormai molto anziana e malata nell’Isola di Samoa, l’impossibilità di farlo coi propri soldi, l’irrinunciabile occasione di riuscirci sfruttando il rimborso spese della piccola federazione calcistica locale, la ribellione tutta da teenager di un ragazzino che non vuole accettare la volontà della madre, che lo vede più a suo agio con il badminton o il rugby. Gli ingredienti del feuilleton ci sono tutti: un parente malato, la povertà, l’incoscienza giovanile, l’entusiasmo immotivato, un’indisciplina disciplinata. Chris, poi, finirà per diventare il capitano della selezione oceanica; Tim, invece, dopo essersi amaramente pentito d’aver pregiudicato il suo cammino nelle Nazionali minori australiane, sceglierà di vestire la maglia dei Socceroo non appena la FIFA, nel 2003, cambierà le regole d’eleggibilità delle Nazionali. A diciassette anni, insieme alla fidanzatina del college Rebekah (che dopo diciassette anni di fidanzamento è diventata sua moglie, e che gli ha dato quattro figli) Tim si trasferisce nel Regno Unito. Viene ingaggiato dal Milwall, squadra con la quale milita per cinque stagioni prima di trasferirsi all’Everton, dove diventa una specie di mito esotico e proletario. Delle 54 reti complessive messe a segno per i Toffees, 31 sono di testa: “È che io colpisco di testa come gli altri fanno coi piedi”, ha confessato a Liz Hayes, una giornalista che l’ha seguito per una settimana intera nel 2013 producendo un documentario, “The Cahill Express”, che racconta l’ascesa del calciatore australiano forse più famoso al mondo, di certo l’unico di origine samoana. Tra l’altro Cahill annovera tutta una serie di record: contro il Giappone, a Kaiserslautern nel 2006 ha segnato la prima rete Socceroo a un Mondiale, la prima doppietta (ne ha messo dentro un altro poco dopo) e ha fatto sì che per la prima volta un australiano fosse nominato Man of the Match. Ad oggi, in totale, delle 11 reti segnate dall’Australia alle varie competizioni mondiali cui ha partecipato, 5 (quindi praticamente la metà) le ha insaccate lui Da due anni gioca nella MLS con i New York Red Bulls, dove guadagna 4 milioni di dollari a stagione (ha dichiarato: “ho lasciato la Premier League perché altrimenti non ci sarei arrivato fisicamente a giocarmi questa Coppa del Mondo”). A gennaio lancerà una linea d’abbigliamento molto elegante, “Shoreditch by Tim Cahill”, e forse tornerà in patria per chiudere la carriera nella ricchissima A-League. Il figlioletto, prima di una partita alla Red Bull Arena, ha intonato l’inno americano con piglio da tenore. C’è un’inquadratura bellissima, in cui Tim lo guarda di sottecchi e sorride, orgoglioso, quasi commosso.

Dimenticavo: la rete più veloce mai messa a segno nella MLS è, ovviamente, di Tim Cahill. Contro lo Houston Dynamo, la squadra di Boniek quello di Honduras. Dopo 7 secondi. Sette. Secondi.

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