MARCO UREÑA, COSTA RICA
La città di Krasnodar è a due ore di macchina dal Mar Nero, non troppo distante dai confini (divenuti negli ultimi tempi molto labili) con l’Ucraina. Il costaricense Marco Ureña ci vive dal marzo del 2011, da quando cioè il Kuban’, la principale delle due squadre della città, l’ha acquistato dall’LD Alajuelense. A Krasnodar in pochi parlano inglese, figuriamoci lo spagnolo. “Uno dei primi giorni siamo andati a un ristorante, la cameriera per farci capire che tipo di carne servivano ci faceva i versi degli animali, ce li mimava.” Mi pare improbabile però che non si sia trovato un interprete per leggere i fax con cui la Federazione del Costa Rica chiedeva la disponibilità di Ureña per gli incontri internazionali, eppure così è: ogni convocazione è rimasta lettera morta, almeno fin quando i membri della Federazione costaricense non si sono organizzati con un traduttore al russo (sembra che questo brutto vizio lo abbiano molte società russe: con il direttore Tim, nella Guida al Mondiale apparsa su IL 60, raccontavamo la storia dell’ecuadoregno Felipe Caicedo, al quale è successo più o meno lo stesso increscioso fatto quando era tesserato per il Lokomotiv Mosca, con l’aggravante che a lui hanno negato addirittura il permesso d’assistere ai funerali del Chucho Benítez, amico e compagno di reparto).
Se per il Kuban‘ Ureña fosse una pedina indispensabile il diniego sarebbe quantomeno comprensibile; resta il fatto che l’attaccante, invece, nell’arco di tre stagioni è sceso in campo la miseria di 206 minuti, poco più di due partite intere; soltanto nel 2013-2014 una partita scarsa, 89 minuti. Se creassimo un tag cloud con i titoli che i blog calcistici costaricensi gli dedicano ogni settimana, avremmo degli ausente, suplente e en la banca ("assente, entrato come sostituto, in panchina") grossi così.
Contro l’Uruguay, nell’esordio de la Sele al Mondiale, ha fatto il suo ingresso all’83’ in sostituzione del capitano Bryan Ruiz. Un minuto più tardi Joel Campbell, defilato sulla fascia destra, gli ha servito una palla filtrante sulla quale si è avventato e con impeccabile tempismo, sull’uscita di Muslera, ha deviato il corso della sfera quel tanto che è bastato a farla carambolare in porta.
Il centravanti, di mestiere, fa quello: insacca reti. Non ci troveremmo nulla di commovente o sorprendente se non sapessimo che Ureña, con il Kuban’, non ha mai segnato. Da tre anni. Mai.
Avrei voluto mettere una compilation con sottofondo zarro delle reti di Ureña in Russia, qualcosa intitolato tipo “Ureña Kuban’ goals and skills”, ma ecco, insomma. Vi toccherà accontentarvi del goal all’Uruguay da un’inquadratura suggestiva.
ANDRÉ AYEW, GHANA
Non deve esser facile essere il figlio di nessun Pelé, neanche di quello africano, Abedì Ayew, faro delle Black Star negli anni ’90, tre volte calciatore africano dell’anno, una specie di leggenda ad Accra. Dopo aver speso la sua carriera in Europa (anche in Italia, nel Torino, ma soprattutto in Francia, all’Olympique Marsiglia: fu suo l’assist da calcio d’angolo per Boli, che con il suo colpo di testa regalò la Coppa dei Campioni all’OM nella finale contro il Milan di Capello), Abedì è tornato in Ghana dove ha fondato una squadra della quale è tuttora presidente: il Nania FC; ed è proprio nel Nania che ha fatto il suo esordio appena quattordicenne André Ayew, uno dei suoi tre figli calciatori professionisti (gli altri due sono Rahim e Jordan, quest’ultimo nella rosa del Ghana al Mondiale brasiliano).
André ha ereditato dal padre l’ambizione, buona parte del talento e una maglia, quella dell’OM, che indossa ormai da quattro anni (magari se lo ricordano i tifosi dell’Inter).
A metà del girone di ritorno della stagione 2010-2011, una sua tripletta ha permesso ai marsigliesi di scavalcare in testa alla classifica il Lille di Rudi Garcia, che in volata avrebbe però poi vinto il titolo. L’appendice curiosa di questa storia strappalacrime è che la quarta rete della vittoria per 4-2 contro il Nizza l’ha segnata Jordan, il fratello minore di André: “Ayew, Ayew, Ayew, Ayew. Mia moglie mi ha chiamato alle 5, non riusciva a dormire”, ha detto Abedì in un’intervista dell’epoca a Le Parisien. Deve essergli sembrato un tributo fuori stagione; oppure il tabellino di quelle partite d’addio in cui il protagonista della serata fa da mattatore.
Abedì, in comune con Edson Arantes do Nascimento, non ha soltanto il numero di maglia e il soprannome, ma anche l’ego smisurato. Nel 2013, quando l’attuale tecnico del Ghana Kwesi Appiah ha escluso tutti i suoi figli dalla rosa dei convocati per la Coppa d’Africa, non si è fatto sfuggire l’occasione di mostrare il suo risentimento: “Mi porta ancora rancore da quando gli ho strappato la fascia da capitano nel ’92”, ha detto.
Appiah adesso ha portato con sé in Brasile sia Jordan che André. Nella partita d’esordio contro gli Usa (una riedizione della sfida degli ottavi di finale di Sudafrica 2010: allora vinsero gli africani con una rete di Asamoah Gyan, servito proprio da André Ayew con un lob a scavalcare le linee, un po’ alla cieca), André ha segnato la rete del momentaneo pareggio, a una decina di minuti dalla fine, chiudendo magistralmente un triangolo proprio con un tocco (di tacco) di Asamoah Gyan.
E ora la gif animata della rete d’esterno di André Ayew contro gli yankees. Il bello delle gif è che non hanno un sottofondo musicale.
OSAZE PETER ODEMWINGIE, NIGERIA
“Dio ti ha scelto”: è la traduzione di Osaze, il nome di battesimo di Odemwingie, dal dialetto Edo della lingua Volta-Congo. Davanti a Dio s’è dovuto piegare anche Stephen Keshi, che Odemwingie, invece, sembra sia stato a tanto così da escluderlo dalla lista dei quaranta preconvocati per il Mondiale della Nigeria. Il tecnico famoso per l’irremovibilità delle sue scelte e l’attaccante con una carriera in giro tra Francia, Russia e Inghilterra avevano litigato aspramente nel 2012: Odemwingie s’era risentito per una sostituzione—a suo dire precipitosa—contro il Ruanda e per tutta risposta Keshi lo aveva escluso dai convocati per la Coppa d’Africa del 2013, che le Aquile poi avrebbero vinto. A giudicare dalla faccia di Moses dopo l’esclusione dal campo durante la partita contro l’Iran, essere sostituito per un attaccante nigeriano è un’esperienza drammatica non tanto a livello sportivo, ma personale.
Odemwingie è nato in Uzbekistan, a Tashkent, da padre nigeriano e madre uzbeka. Ha studiato in Russia, e si è formato calcisticamente nelle file del CSKA Mosca prima di tornare in Africa e rimbalzare ancora in Europa, ai belgi del La Louvière, dove appena ventunenne ha conquistato la coppa nazionale e una qualificazione in Europa League. Con una sua rete i modesti belgi hanno pareggiato la gara d’andata casalinga contro il Benfica, per poi essere eliminati al ritorno.
Dopo tre stagioni al Lille e quattro al Lokomotiv Mosca—nonché un torneo olimpico, quello di Pechino, in cui ha portato la Nigeria fino alla finale persa contro l’Argentina—è stato ceduto in Inghilterra, al WBA: i tifosi russi non hanno perso occasione per dimostrare la proverbiale simpatia e tolleranza razziale. Con il West Brom ha messo a segno nell’anno d’esordio quindici reti, prima di cominciare a sentirsi sottovalutato e scagliarsi, su twitter, contro la presunta incoscienza della società (e cercare di accordarsi in segreto, non proprio con un gesto signorile e professionale, con il QPR).
Contro l’Iran ha sostituito Ramón Azeez a metà secondo tempo: non è stato un grande passo in avanti per le manovre offensive nigeriane, ma ci sta che la prossima partita possa giocarsela da titolare.
A un mese dall’inizio dei Mondiali Odemwingie ha fotografato la moglie che trasportava in una carriola il primo figlio. Il problema è che la moglie era incinta, e dopo quello sforzo ha dovuto dare alla luce, con tre settimane d’anticipo, il secondo figlio. Lo hanno chiamato Theo. A proposito di incoscienza.
OSCAR BONIEK GARCIA, HONDURAS
Óscar García, centrocampista del Club Deportivo Olimpia di Tegucigalpa dei primi anni ’80, non si era guadagnato la convocazione nella Nazionale bicolor che andava a giocarsi i Mondiali di Spagna. Seguì tutte le partite in televisione, a metà tra il deluso e l’ammirato, innamorandosi di Zbigniew Boniek. Diventò il suo secondo giocatore preferito, dopo il brasiliano Jairzinho. Quando la moglie rimase incinta, nel 1984, le propose di mettere nome al figlio che stavano per avere Jair Izinho [sic], oppure Boniek: stava a lei decidere. Questa trovò che tutto sommato, tra i due, Boniek era il più carino. Per dimostrare l’immenso apprezzamento all’accondiscendenza della consorte, Óscar García di lì a poco scappò negli Stati Uniti: non vide mai Boniek emettere il suo primo vagito. Venti anni dopo, in occasione di un’amichevole dell’Honduras negli Stati Uniti, i due si incontrarono, finalmente. Anche se non avevano poi molto da dirsi.
Óscar Boniek García è cresciuto giocando a pallone nel quartiere, piedi scalzi sull’arena rossa, una storia come tante tra le flamboyant dell’America Centrale. Quando giocava con il Real Patapluma, lo stipendio glielo pagava la madre, tutta intenta a veder realizzare il sogno del figlio prediletto: correre sulla fascia, faticare, e poi non tanto fare i gol, ma servire ai compagni assist decisivi. Poi è passato all’Olimpia, dove si è fermato per sette stagioni. “Il mio club ha sempre aspettato che arrivasse una buona offerta per lasciarmi andar via: la verità è che non ne arrivò mai nessuna.” Arrivato a 28 anni, Boniek ha deciso che il suo tempo in Honduras era compiuto: c’era bisogno di fare un’esperienza all’estero. Nel luglio del 2008 fece un provino per il PSG, senza riuscire a convincere il tecnico Le Guen. Si parlò del Wigan. Alla fine, il meglio che ha trovato sono stati gli arancioni della Dynamo Houston. “A essere onesti, la Dynamo era la mia unica opzione. Volevo lasciare Honduras per un periodo. Ho scelto Houston prima di tutti per il lifestyle degli States, è stato un fattore decisivo. È molto più sicuro qua che in Honduras. Poi perché ci sono più opportunità di sviluppare il tuo potenziale, e la MLS è un grande palcoscenico per proiettarsi sulla scena internazionale.”
Due mesi dopo essersi trasferito alla Dynamo, nell’agosto del 2012, ha contribuito alla vittoria degli arancioni contro il suo Olimpia in una gara della Champions League della ConCaCaf. A fine stagione è stato eletto Latino top player della MLS, dopo aver guidato i suoi alla vittoria della Eastern Conference. Eppure, Óscar García sente di non aver ancora toccato l’apice della sua parabola calcistica. Gli manca l’esperienza europea, chissà, magari in Italia. Anche se al NY Times ha confessato di non vedersi con la maglia della Juventus, la stessa del polacco cui deve il nome. “Sono più uno da Inter.”
Lo dicono anche le nomination della MLS: non è un grande giocatore, ma fa sì che la sua squadra possa giocare “meglio”.
DEANDRE YEDLIN, USA
Stefano Sturaro, il ventunenne centrocampista del Genoa, guadagna quasi il doppio del suo coetaneo DeAndre Yedlin, difensore con propensione all’attacco dei Seattle Sounders, che è il calciatore con lo stipendio più basso tra tutti quelli che partecipano a questa Coppa del Mondo (dove invece non c’è Sturaro, ma avrà tempo per rifarsi): 92mila dollari l’anno, praticamente sessantasettemila euro, praticamente quanto Cristiano Ronaldo, inserito nel suo stesso girone, che idealmente potrebbe trovarsi a marcare domenica prossima, guadagna in trentasei ore.
A portarlo sulla ribalta nazionale, più delle skill calcistiche hanno potuto le stravaganti acconciature: così unconventional da guadagnarsi un peana nientemeno che da Jimmy Fallon. Incluso a sorpresa nella lista dei trenta preconvocati da Klinsmann, non tanto per l’età quanto per la qualità delle sue ultime prestazioni (nel 5-0 incassato dai suoi contro i New England Revolution, a metà maggio, il diciannovenne Diego Fagúndez l’ha masticato e rimasticato), alla base della scelta di DeAndre c’è invece un criterio logico (con il quale il tecnico tedesco ha sempre dimostrato di supportare le sue mosse): al contrario del titolare della fascia destra di difesa della USMNT, Will Johnson, terzino di quelli old fashioned, più bravo a difendere che attaccare, Yedlin è uno di quegli esterni capaci di trasformare un 4-4-2 in un 3-5-2, di farsi propulsivo, di saper annullare la fase offensiva del proprio avversario diretto semplicemente contrapponendoglisi con velocità e tracotanza. Alla fine della fiera neppure Brooks doveva far parte della rosa stelle e strisce in Brasile. Poi, invece, eccolo là, eroe nazionale al pari di Abe Lincoln, JFK e Chuck Norris.
I video della MLS, prodotti in collaborazione con Adidas, sono pieni di steelo. E poi si imparano un sacco di cose nuove, tipo che sull’anello superiore dello stadio di Seattle passa la tangenziale.