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Quinto Mondo, vol.3
27 giu 2014
27 giu 2014
Cinque ritratti di calciatori che rappresentano Nazionali "minori", a detta di chi se ne intende, pronte a essere eliminate il prima possibile dal Mondiale. O forse no.
(articolo)
11 min
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VINCENT ENYEAMA, NIGERIA

Nell’ultima stagione di Ligue 1 Vincent Enyeama è riuscito a mantenere la sua rete inviolata per undici partite consecutive, mille sessantadue minuti per l’esattezza, un’enormità, difendendo (molto bene) i pali del Lille OSC in ognuna delle trentotto partite giocate dalla sua squadra. Un’annata maiuscola, che gli è valsa il premio Marc-Vivien Foé, dedicato ai migliori calciatori africani che militano in Francia. Soltanto un’annata superba di Sirigu gli ha impedito di guadagnarsi anche il trofeo come miglior portiere del campionato.

Nel ritiro della Nazionale lo chiamano “Il Pastore”: ogni volta, prima dei pasti, degli allenamenti o delle partite è lui che guida i compagni nelle preghiere. “Non mi stupirei se si aprisse una chiesa tutta per sé un giorno”, ha scherzato—però serissimo—l’allenatore Stephen Keshi in un’intervista.

Ha esordito con le Super Eagles nel 2002, ai Mondiali in Corea e Giappone, nel match contro l’Inghilterra terminato (anche e soprattutto grazie alle sue parate) 0-0; da quel momento lui e la sua rettitudine non hanno più abbandonato la porta della Nigeria.

Nonostante l’interesse di molti club europei dopo la Coppa del Mondo nippocoreana Enyeama è rimasto in patria fino al 2004, vincendo tre campionati nazionali e una Champions League continentale con la maglia dell’Enyimba; la verità è che stava terminando un corso universitario in biochimica presso l’università di Uyo, e solo una volta laureato ha deciso di abbandonare il proprio Paese d’origine.

Si è consacrato nel Maccabi Tel Aviv, in Israele, dove in una stagione è anche stato il rigorista ufficiale della squadra e ha messo a segno 8 reti, di cui una in Champions League.

Nel Mondiale sudafricano ha intavolato una personalissima sfida contro Leo Messi (un fatto buffo è che Argentina vs Nigeria sia un superclassico dei Mondiali, un incrocio che si è verificato in tre delle ultime quattro edizioni del torneo): nonostante la sconfitta, riuscì quantomeno a non far segnare la pulga, guadagnandosi gli elogi di Maradona.

Quattro anni più tardi, cioè mentre sto scrivendo, Messi gliene ha insaccati due; ciononostante, in barba a tutti i pronostici che la vedevano sfavorita, la Nigeria è riuscita a qualificarsi agli Ottavi, dove la Francia si troverà di fronte uno dei migliori estremi difensori del suo campionato.

In quanto a me, mi è toccato riporre il sogno di un Iran oltre la fase a gironi nel cassetto dei sogni bellissimi che non si realizzeranno mai.

Enyeama è un simpaticone. Magari avrete notato come scherzava con Rizzoli nell’intervallo di Argentina-Nigeria. Qua abbraccia e sussurra storie divertenti all’orecchio del neozelandese O’Leary in calce alla sfida vinta contro la Bosnia Erzegovina. A Sarajevo questa foto l’hanno presa malissimo e hanno lanciato una petizione per radiare il fischietto kiwi (aggettivo per la cui cancellazione bisognerebbe, in effetti, lanciare una petizione).

ISLAM SLIMANI, ALGERIA

Era dal 1982, i tempi di Lakhdar Belloumi, Rabah Madjer e Salah Assad, che in Algeria non si era così orgogliosi de Les Fennecs, le Volpi del Deserto, come sono soprannominati i calciatori della Nazionale. Islam Slimani è uno degli uomini più in vista: gioca in Portogallo, con lo Sporting Lisbona, dove dopo esser partito in sordina, da riserva, è riuscito a ritagliarsi uno spazio e segnare reti anche discretamente pesanti, tipo quella nella sfida al vertice dello scorso aprile contro il Porto o il pari al 91’ in un derby infuocato contro il Benfica.

Slimani ha esordito nel calcio professionistico, se di professionismo si può parlare nel caso del Jeunesse Sportive Madinet di Chéraga, terza serie algerina (Chéraga, peraltro, è la città d’origine dei genitori di Albert Camus), decisamente tardi, già ventenne. È esploso nel CR Belouizdad: coi biancorossi si è guadagnato la convocazione, prima che nelle Volpi del Deserto, nella Nazionale dell’Algeria A, ed io devo ringraziarlo perché è grazie a questa tappa della sua biografia calcistica che ho scoperto l’esistenza di un sottoinsieme di Nazionali africane che si contendono trofei continentali schierando calciatori che militano esclusivamente nei campionati locali, che è poi un’idea che mi sembra anche lodevolissima, e sarei pure curioso di vedere—per dire—un Ghana di soli ghanesi che militano nell’Asante Kotoko o nel King Faisal Babes.

Islam, come tutti i suoi compagni di squadra, è di religione musulmana: l’Algeria agli Ottavi avrà un avversario in più (oltre alla ostica Germania), vale a dire il Ramadan, che avrà inizio questo fine settimana e che non sta mancando di sollevare un vespaio di polemiche in patria: rispettarlo o esentare gli atleti? Digiuno e fame di gloria, a quanto pare, non possono proprio coesistere.

Zanetti e Rivaldo consegnano il Pallone d’oro algerino 2013 a Slimani. Dev’essere la stessa serata in cui è stato proclamato il calciatore algerino rivelazione dell’anno 2013, vale a dire Ishak Belfodil, anzi no, poi si erano sbagliati, era Taïder, e Belfodil aveva fatto una faccia che ogni volta che ci penso mi viene il magone per lui.

ASAMOAH GYAN, GHANA

Il groove di African Girls lo identifichi da subito come qualcosa a metà strada tra il reggaeton e la musica tribale; ci sono Bentley in corsa, giacche bianche, ragazze discinte e molto felici di far parte di un jet set che fa i gargarismi con vocoder e champagne Crystal. Baby Jet, à la Repetto, swagga nonscialante sui falsetti di Castro. Intorno al minuto 2.00 rappa tre o quattro nomi di ragazza, in overbeat, quasi a cappella.

In Odo Pa, invece, ci sono reminiscenze di Blackstreet e The Platters ammantate di mito del bon sauvage, pelli di leopardo e bling bling d’avorio più che di platino. Baby Jet sale alla ribalta quasi a metà del pezzo, a torso nudo e con gli occhiali da sole, al centro di un palco vuoto, illuminato da un occhio di bue.

Baby Jet è Asamoah Gyan, il primo calciatore ghanese a segnare in un Campionato Mondiale, il massimo marcatore continentale (5 reti) nella storia della competizione, l’unico africano ad aver segnato almeno una rete in tre edizioni della Coppa del Mondo differenti. L’uomo che ha avuto l’opportunità di trascinare le Black Stars in semifinale in Sudafrica e che ha fallito il rigore al 92’ minuto contro l’Uruguay (poi vittorioso ai supplementari).

In Italia, dove ha giocato per l’Udinese e il Modena, molti lo ricordano per la corsa elegante e il vezzo d’indossare la maglia numero 3, lo stesso che ha modellato su entrambi i lati della testa, lo stesso che indossa in Nazionale: “È il numero di maglia che indossavo quando ero un bambino, in Ghana. È un numero potente. Ti faccio un esempio. Se stai sollevando qualcosa di pesante, conti fino a tre prima di fare lo sforzo. Se vuoi mettere qualcuno in guardia, lo avvisi una volta, poi una seconda. La terza entri in azione”.

Asamoah Gyan, o Baby Jet se preferite, da capitano e condottiero del Ghana si è battuto affinché il compenso degli africani per la partecipazione al Mondiale brasiliano venisse anticipato dalla Federazione Ghanese prima dell’ultima partita del girone, e soprattutto venisse liquidato in contanti.

Che a pensarci bene, è proprio una richiesta bizzosa da rapper.

A Baby Jet, se c’è qualcosa che non manca, di certo è la street cred: da Accra si è subito sollevato in volto un charter diretto a Rio. Dentro c’erano tre milioni di dollari, in banconote.

Gyan sul palco in una serata in onore del presidente ghanese e della rosa delle Black Star, prima della partenza per il Brasile. Se esiste la Nazionale cantanti non vedo perché non possa esistere una crew di calciatori.

GIANNIS MANIATIS, GRECIA

In occasione della semifinale dell’ultima edizione della Coppa nazionale greca, la partita tra Paok e Olympiacos disputata a Salonicco è iniziata con un’ora di ritardo: gli inservienti dello stadio hanno dovuto ripulire i seggiolini della panchina riservata agli ospiti da manciate di alici cosparse dai tifosi del Paok. Iniziata sotto i peggiori presagi, la partita è riuscita addirittura a tirare fuori qualcosa di peggio, e stavolta dai calciatori. La scena madre è stata quella di un litigio molto acceso tra Kostas Katsouranis, vicecapitano della Nazionale ellenica, in forza al Paok, e il centrocampista difensivo dei biancorossi del Pireo Giannis Maniatis: sostituito da pochi minuti, intento a guardare la partita dalla panchina, Katsouranis ha afferrato Maniatis per un braccio per fargli ritardare una rimessa in campo, poi lo ha apostrofato con una serie di improperi: tutto questo a una manciata di settimane dall’appuntamento con la Coppa del Mondo. Tutto questo dopo che, per tutto il percorso di qualificazione, i due avevano condiviso la stessa stanza.

Maniatis è uno degli uomini di Fernando Santos che ha più impressionato in questa sorprendente cavalcata della Grecia verso la qualificazione, da totale dark horse, agli Ottavi di finale: arrivato all’Olympiacos come sostituto per la fascia destra di Vassilis Torosidis, Valverde lo ha reinventato centrocampista difensivo, mastino box-to-box capace di spezzare il gioco avversario e rendersi utile in fase di impostazione. Contro la Costa d’Avorio non ha, letteralmente, sbagliato un passaggio, oltre a guadagnare possesso di palla ogni volta che gli africani hanno incrociato i suoi stinchi.

Dopo la sconfitta contro la Colombia, in allenamento, ha avuto un altro alterco, stavolta con il difensore del Paok Tzavelas, colpevole di avergli fornito dei cross a suo dire scadenti. “Ma che ci stai a fare, qua? Mica siamo nel Paok”. Fernando Santos ha preso le difese di Tzavelas, e Maniatis per tutta risposta ha pensato di acquistare un volo di ritorno per la Grecia, di abbandonare il ritiro, la Nazionale e la Coppa del Mondo.

Poi però ci ha ripensato.

È anche una questione di impatto cromatico: trentaquattro freccette blu, e svariati segnetti verdi, significano che in quanto ad azioni difensive, e in quanto a passaggi verso i compagni, Giannis Maniatis contro la Costa d’Avorio ha sciorinato un bel perfect.

SEREY DIE, COSTA D’AVORIO

In realtà non è che mi vada poi molto di parlare esattamente di Serey Die, questo centrocampista ventinovenne del Basilea (squadra in cui gioca anche Giovanni Sio, l’attaccante autore del fallo contro Samaras che ha causato il rigore che, di fatto, ha escluso la Costa d’Avorio dai giochi mondiali) peraltro reo d’un errore marchiano a centrocampo contro la Colombia, un errore che ha permesso a Teo Gutiérrez d’involarsi e servire a Quintero la rete del 2-1 definitivo per i Cafeteros; vorrei fare un discorso più generale.

A ridosso dell’apertura dei Mondiali è uscito un bell’articolo, su Grantland, su Les Elephants; un passo in particolare mi ha colpito, quello in cui Jordan Conn, l’autore del reportage, nota che le maglie che indossano i ragazzini per strada sono tutte di Messi, di Neymar, di CR7, e nessuna di Drogba o Gervinho o Yaya Touré. “Ma non ti piace, per esempio, Drogba?”, chiede il giornalista a uno di quei bambini. “Sì, sì, certo, anche Drogba”. La morale che ci ho letto io, tra le righe, è che questa generazione (ormai al crepuscolo) di enfant terribles maturata a cavallo di tre Mondiali, che uscendo dalla disputa brasiliana ha forse perso l’ultimo treno per affermarsi definitivamente, in realtà non è mai riuscita a scolpirsi un posto indelebile nell’immaginario futbolistico, a farsi mito, del popolo; un po’ per le difficoltà intrinseche iscritte nella storia politica del Paese, dove ogni aspetto trascende nel partitario, un po’ vallo a capire per quale motivo, forse per scarso senso d’appartenenza alla maglia, per indolenza, non lo so.

A dimostrare l’esatto contrario ci sarebbe la storia di Sereso (Serey è il diminutivo), o sarebbe meglio dire la sua non storia, che nel pomeriggio dello scontro contro i sudamericani ha—espressione molto di moda—commosso la rete per una buona mezza giornata. Capita che durante l’esecuzione degli inni Die si sciolga in un pianto partecipato, struggente, e al termine il capitano, Yaya Touré, gli si faccia incontro per abbracciarlo in maniera paterna. Mi sono tornate in mente le lacrime di Jong Tae-se, l’attaccante della Corea del Nord in Sud Africa che nel 2010 aveva accolto com’è uso e costume a Pyongyang le note dell’Aegukka, l’inno nazionale.

A proposito di lacrime: non riesco a versarne neppure una per il suono delle vuvuzela che fa capolino, inquietante, sul finire del filmato.

Mi piacerebbe riuscire a capire com’è che siamo diventati così esperti di geopolitica, quando guardiamo le partite di una Coppa del Mondo, come ci si è sviluppato l’orecchio assoluto per il dissenso ai regimi, per la paura di tornare a casa da sconfitti, come abbiamo imparato a scovarne l’essenza nelle lacrime del nordcoreano e non, per esempio, in quelle di un ivoriano.

E poi sarebbe stupendo prendere coscienza di quand’è, precisamente, che ci siamo laureati in tecniche di gestione del dolore, da quando ci tocca imputare un pianto per forza alla morte di un congiunto, di un caro parente, magari con la notizia giunta a ridosso della partita, come a mettere il giocatore davanti a una scelta dirimente, rappresentare il tuo Paese o abbandonarti a un’intima disperazione.

Come al solito, non ci avevamo capito niente: Serey Die era semplicemente felice, di quella felicità così genuina che si porta con sé le lacrime, e a esser distrutti dal dolore, semmai, sarebbero dovuti essere i fratelli Touré, che poche ore prima del match contro la Colombia (loro sì) avevano perso un fratello; anche se durante l’inno sono rimasti compiti, imperscrutabili.

Voglio dire, si può piangere anche semplicemente per amor patrio, o perché magari si è felici di rappresentare il proprio Paese e in quel limbo di fascinazione prepartita ci si veda scorrere davanti agli occhi tutta una carriera, col pensiero rivolto a un padre morto dieci anni prima, non due ore, a quanto sarebbe stato fiero (spoiler: erano questi i veri motivi per cui Serey Die piangeva).

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