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Questione di feeling
17 nov 2015
17 nov 2015
Il Power Ranking dei migliori reparti offensivi della Serie A.
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Nell’ultimo calciomercato la Serie A ha quasi completamente rinnovato il menù dei propri reparti offensivi. Dall’estero è arrivata la faccia enorme di Carlos Bacca, il profilo completamente tondo di Luiz Adriano, le spigolosità balcaniche di Nikola Kalinic e Mario Mandzukic, la pesantezza presidenziale di Dzeko e le morbidezze cremose di Stevan Jovetic. Ho provato a stilare un Power Ranking degli attacchi della Serie A dopo le prime 12 giornate, dove ai parametri tattici, tecnici e statistici si somma una parte di gusto personale, chiedendomi cose tipo: qual è l’attacco più forte? Quello più veloce? Quello affiatato al punto che potrebbe giocare anche bendato? Quello tanto completo da poter praticare anche altre discipline sportive? Quello con cui correre per le lingue di fuoco di

?

 



La prima volta che abbiamo visto Bacca e Luiz Adriano giocare assieme eravamo ammirati come davanti a due lune che si uniscono. Quel tipo di particolare bellezza in cui due elementi molto simili finiscono per completarsi a vicenda rinunciando a una parte di sé stessi. Sembravano capirsi in quel modo un po’ a specchio che appartiene forse solo alle coppie omosessuali:


 

Sembravano sbarcati in Serie A apposta per smentire l’assunto per cui due prime punte non possono giocare assieme, che al Milan servisse un’attaccante più creativo al servizio di Bacca. Alla prima in casa Luiz Adriano e Bacca hanno segnato un gol a testa nella

, con il brasiliano che ha servito un filtrante in profondità che ha mandato in porta il colombiano con la precisione millimetrica di Kakà. Quando si gioca con due punte il manuale del calcio prevede la regola dei movimenti opposti, con una punta a venire incontro per dialogare col centrocampo e legare i reparti e l’altra ad attaccare la profondità.

 


Tac-tac.



 

Bacca e Luiz Adriano svolgevano questa danza con una diligenza quasi scolastica, come fossero caricati da un generatore automatico di movimenti offensivi. Ai difensori in fondo bastava seguirli come gli era stato insegnato alla scuola calcio per neutralizzarne la pericolosità. Da qui quel senso tautologico che si aveva guardando il Milan: una squadra che gioca discretamente bene a calcio, ma in modo sciapo, prevedibile, inconcludente.

 

A esasperare la prevedibilità anche le caratteristiche dei giocatori che giocano a supporto delle punte, Bonaventura e Bertolacci, trequartisti di ottima tecnica, ma poco creativi. Dopo il pareggio esterno contro il Torino, il Milan era tra le peggiori squadre per numero di conclusioni verso la porta avversaria e qualcuno era arrivato a rimpiangere Ménez. A quel punto Luiz Adriano ha perso definitivamente il posto e il progetto di un attacco con due prime punte è abortito definitivamente. Per trovare un minimo di imprevedibilità Mihajlovic è costretto addirittura a riproporre Alessio Cerci in una specie di 4-3-3 che garantisce maggiore ampiezza. Ora il Milan ha equilibrato i propri numeri offensivi, aggrappandosi soprattutto alla vena di Bacca, che ha segnato già il 40% dei gol dei rossoneri (6 su 15, la metà dei quali senza Luiz Adriano).

 



L’Inter sembra vincere cercando di ridurre al minimo gli eventi significativi di una partita, fino al livello desertico in cui finiscono per contare solo il maggiore talento, o la maggiore forza fisica. C’è qualcosa di zen nel modo in cui i nerazzurri economizzano gli sforzi per vincere, ben rappresentato dalla differenza reti di +5, rispetto a cui il +14 di Roma e Napoli, o il +15 della Fiorentina appaiono come prove di forza superflue. Il reparto sacrificato per offrire questa lezione morale al campionato è l’attacco, che al momento ha segnato meno della metà dei gol di quello della Roma, nonostante i giallorossi abbiano un punto in meno in classifica.

 

Al di là dell’exploit iniziale di Jovetic, nessun attaccante nerazzurro sta brillando e non è un caso se uno dei problemi più ingombranti negli equilibri interni di spogliatoio riguardi il centravanti, Icardi, capocannoniere e miglior giocatore della scorsa stagione. È proprio Icardi a

bene il rapporto tra l’attacco e il resto dei reparti: «Su quattro palle che mi sono arrivate dall’inizio del campionato ho fatto tre gol, niente male!».

 

È difficile parlare dell’attacco dell’Inter perché a volte sembra un peso morto da cui la squadra, in qualche modo, vorrebbe sganciarsi. Il centravanti argentino, per esempio, riceve appena 14 passaggi e mezzo a partita ed effettua poco più di 13 passaggi per match, 5 in meno rispetto allo scorso anno, 12 in meno rispetto a Gonzalo Higuaín. Icardi ha inoltre dimezzato i tiri nello specchio della porta rispetto allo scorso anno. L’Inter, insomma, lo sta sabotando.

 

I nerazzurri non possiedono un gioco posizionale credibile che leghi i diversi reparti tra loro: la palla fatica a essere trasmessa dalla difesa al centrocampo e poi dal centrocampo all’attacco, dove mancano sempre riferimenti centrali che riescano a offrire linee di passaggio e un minimo di fluidità. Jovetic e Icardi sembrano due zattere abbandonate alla deriva in mezzo al mare, due pianeti che non appartengono allo stesso sistema. E allora ogni tanto tocca a Jovetic andare in missione tra le linee per fare da collante con un po’ di qualità.

 


Il momento in cui Jovetic si abbassa sulla linea dei trequartisti è quello in cui l’Inter riesce a creare qualche triangolo offensivo e la manovra diventa più veloce.



 

Con Jovetic in campo l’Inter ha quasi sempre vinto, tranne che contro Juve e Palermo. L’altra faccia della medaglia è che dovendo però moltiplicarsi nei ruoli di regista offensivo, rifinitore e finalizzatore, finisce per lasciare sempre più alla deriva il compagno di reparto.

 



Il ChievoVerona degli ultimi anni era noto per scucire salvezze fondate sulla regola del “segnare poco, subire meno”. Dall’arrivo di Maran invece i clivensi si sono trasformati: aggressività, pressing alto, gioco offensivo, parecchi gol subiti. Dopo 12 giornate il Chievo ha già fatto la metà dei gol segnati lo scorso anno, 14. Il reparto d’attacco però rimane espressione di un calcio pane e salame.

 

Il 4-3-1-2 di Rolando Maran prevede Birsa alle spalle di Meggiorini e Paloschi, accomunati dal loro passato nelle squadre di Milano e da essere così antiestetici e ineleganti da finire per essere sottovalutati. Prima ancora di essere il reparto offensivo dei gialloblù, sono soprattutto la loro prima linea difensiva.

 

Se il Chievo è la squadra più fallosa del campionato dopo il Genoa molto lo si deve al lavoro sporco dei suoi attaccanti, che tengono una linea di pressione alta e aggressiva. Riccardo Meggiorini è il giocatore del Chievo che commette più falli (quasi 3 a partita, il secondo in Serie A dopo Pavoletti) e fa parte di quel genere di attaccanti che gioca sulla trequarti avversaria con lo spirito del mediano: da ogni palla sembra dipendere la sua vita come può essere solo per qualcuno che ha conosciuto davvero la povertà calcistica. Il suo soprannome, “MeggioIbra”, rappresenta bene quel tipo di presa in giro ammirata che si tributa a un calciatore operaio.


 

Raramente in un giocatore sono concentrate in modo così equilibrato forza fisica, tecnica, spirito di sacrificio, sgraziatezza, antipatia: Meggiorini svaria su tutto il fronte offensivo, soprattutto sulla fascia sinistra, dove finisce per ricordare un altro grande attaccante operaio, Marco Delvecchio. Dietro di lui agisce Valter Birsa, che ha sempre la faccia troppo triste per ispirare la fascinazione che si dovrebbe tributare a un 10. I due hanno già servito 5 assist ad Alberto Paloschi, ex erede di Pippo Inzaghi, da cui ha ripreso una certa tempestività nei movimenti in area e il senso di disperazione nelle esultanze.

 

L’attacco del Chievo è un concentrato di fatica, pragmatismo ed estetica operaia. Ogni gol sembra il prodotto di un lavoro immane, come delle statuette artigianali dove c’è bisogno di una cura al dettaglio di ogni singolo passaggio per ottenere un risultato apprezzabile.

 



Insieme hanno segnato 13 dei 19 gol della Sampdoria e aggiungendo gli assist (2 a testa), Muriel ed Éder arrivano ad aver partecipato a quasi tutti i gol dei blucerchiati. Nessun reparto offensivo pesa in modo così sproporzionato sull’efficacia della propria squadra. Per questo non è così assurdo l’argomento per cui la qualità delle prestazioni del tandem offensivo abbia permesso a Zenga di mascherare i problemi strutturali della Samp.

 

Fra i due, Muriel si occupa di fare da riferimento centrale, mentre Éder si applica in un lavoro a tutto campo estremo, come uno che sa che dalla propria prestazione dipende la vita e la morte della sua squadra. L’attaccante brasiliano sta vivendo l’anno della definitiva consacrazione, sancito da un posto da titolare in Nazionale che potrebbe mantenere fino all’Europeo. Nella Samp ricopre i ruoli sia di leader tecnico che morale: è primo difensore, regista offensivo, rifinitore e finalizzatore. Vicino a lui Muriel ha l’aria del ragazzino viziato. Nonostante goda finalmente di buona salute per la prima volta in carriera, rimane un giocatore discontinuo, con un approccio personale al calcio.


 

Lavora poco senza palla per offrire un riferimento ai compagni, appoggiandosi pigramente al lavoro di Éder; al punto che è spesso Soriano a doversi inserire centralmente per aprire spazi in mezzo alle difese. Sembra limitarsi ad aspettare il momento buono per accendersi in pazzesche azioni individuali, dove il rapporto tra velocità, potenza e controllo palla può essere paragonabile solo a quello di Higuaín in Serie A. Tutto però rimane nel potenziale, anche se ormai c’è più di un dubbio che Muriel, in realtà, sia questo qui. Sarà interessante vedere se il colombiano riuscirà a mantenere il posto da titolare con Montella, un allenatore che ha dimostrato di non amare gli attaccanti che lavorano poco per la squadra.

 



Sulla carta, l’attacco della Juventus sembrava rafforzato. Alle perdite di Tévez e Coman (utilizzato però poco lo scorso anno) hanno fatto da contraltare gli acquisti di Paulo Dybala, Mario Mandzukic e Simone Zaza, in grado di offrire ad Allegri una possibilità di scelta e una completezza tecnica potenziale superiore a quella dello scorso anno. Mandzukic è il centravanti sgobbone e finalizzatore; Simone Zaza ottimo per le ripartenze e per attaccare alte le difese avversarie; Paulo Dybala la punta tecnica in grado di aumentare la qualità delle giocate; Álvaro Morata l’attaccante completo buono per tutte le situazioni. Forse nessuna squadra di Serie A dispone di tanta abbondanza.

 

Allegri, di fronte a tanta varietà, è parso disorientato. Dall’inizio della stagione la Juventus è arrivata ad alternate 7 diversi schieramenti d’attacco—senza considerare la variante Cuadrado dentro/fuori. Eccoli in ordine di rendimento:

 

1. Dybala - Morata: 5 presenze; 3 vittorie, 2 pareggi; 4 gol segnati.

2. Mandzukic - Morata: 4 presenze; 3 vittorie, 1 pareggio; 3 gol segnati.

3. Mandzukic - Dybala: 3 presenze; 1 vittoria, 2 sconfitte; 3 gol segnati.

4. Manduzkic - Coman: 2 presenze; 1 vittoria, 1 sconfitta; 1 gol segnato.

5. Zaza - Morata: 1 presenza; 1 pareggio; 0 gol segnati.

6. Dybala - Zaza: 1 presenza; 1 sconfitta; 0 gol segnati.

7. Zaza (+Cuadrado): 1 presenza; 1 pareggio; 1 gol segnato.

 

Le coppie sono state alternate senza apparente ordine gerarchico e tuttora è difficile stabilire quale sia la “coppia titolare” dei bianconeri. Anche a causa dei numerosi cambi di modulo voluti da Allegri (3-5-2; 4-3-1-2; 4-3-3). La Juventus ha una media gol abbastanza bassa di 1,3 gol a partita e quello offensivo è sembrato il reparto più in difficoltà, soprattutto per l’incapacità di offrire profondità e verticalità alla manovra. Nessuno degli attaccanti di Allegri ha delle qualità abbastanza associative da aiutare lo sviluppo offensivo del gioco, a parte Dybala, che infatti negli ultimi tempi è parso l’unico inamovibile del reparto. La conseguenza più tangibile, sul piano dei numeri, di questa difficoltà si rispecchia nei tiri in porta: la Juventus è la squadra che effettua più tiri in Serie A (quasi 18 a partita), ma quasi la metà arriva da fuori area, ridotti spesso a unico sbocco della manovra.

 

Il giocatore che sembra risentire maggiormente della confusione tattica è Morata, condannato dalla sua ecletticità a essere schierato in diverse posizioni, e che al momento ha segnato solo un gol in campionato. Soprattutto quando inserito in posizione esterna, lo spagnolo è costretto a giocare molto lontano dalle zone che preferisce, dove fatica a dialogare con i compagni. La coppia che al momento ha prodotto più gol e punti è Dybala - Morata, non a caso forse quella che più somiglia al tandem dello scorso anno. Nonostante la confusione di questi mesi, il futuro della Juventus non sembra poi così incerto.

 



Alti, dinoccolati, spigolosi, gelidi. Tutta la precedente carriera di Kalinic e Ilicic può essere ridotta a un’inutile attesa del momento in cui si sarebbero trovati a giocare assieme, così da ripristinare l’antica intesa socialista tra Croazia e Slovenia. Ilicic incarna l’archetipo del fantasista balcanico: lento, indolente, incostante, geniale; Kalinic si sta dimostrando un centravanti totale, in grado di impegnare da solo le difese avversarie, come un cavaliere lanciato da solo all’assalto delle linee nemiche. Insieme formano l’asse verticale della Fiorentina, la squadra con il secondo miglior attacco della Serie A (24 gol). Kalinic ha segnato 7 gol, Ilicic 4, con 3 assist: tutti per il croato.


 

Ilicic è il giocatore della Serie A che prova più verticalizzazioni e Kalinic è tra i giocatori che attacca più ossessivamente la profondità. Quando lo sloveno riceve il pallone si attiva in automatico una specie di campo magnetico che innescherà il filtrante per il croato. È tutto così elementare ed efficace che i due forse potrebbero segnare anche giocando da soli contro avversari che devono preoccuparsi solo di non mandarli in porta.

 

Ilicic e Kalinic sono ideologo ed esecutore, rappresentano insieme la più classica conciliazione tra pragmatismo ed eleganza, fisicità e cerebralità.

 



La Roma dello scorso anno aveva uno dei peggiori attacchi del campionato. Il problema era soprattutto la povertà di movimenti senza palla, che non permetteva di ricavare degli spazi sfruttabili tra le pieghe delle difese avversarie. I gol potevano nascere solo da grandi giocate individuali. Se le reti possono nascere solo dal talento basterà aumentare il talento a disposizione per segnare più reti, avrà pensato Garcia. E così è stato: l’equazione “+gol+talento” ha finito per pagare e oggi la Roma ha il miglior attacco del campionato con 27 reti, 2,25 a partita. La Roma è anche tra le squadre che corrono meno in Serie A, appena davanti a Carpi e Torino, segno che i movimenti senza palla non sono granché aumentati.

 

C’è stato però un diverso approccio alla ricerca dello spazio. Rudi Garcia sembra aver abbandonato le pretese di gioco posizionale coltivate lo scorso anno e pare volersi limitare a creare le condizioni perché il talento dei propri giocatori possa esprimersi al meglio. Queste condizioni hanno a che fare più col disordine che con l’ordine. Se c’è una cosa che forse la Roma ha imparato lo scorso anno di sé stessa è che è una squadra a cui piace correre, ma non pensare, e allora tutto il gioco offensivo dei giallorossi è orientato a liberare l’entropia e il caos potenziale sprigionato dai propri giocatori offensivi.

 

Per disorganizzare le difese allora spesso il possesso viene lasciato all’avversario e una volta riconquistata palla questa viene giocata in avanti in modo abbastanza veloce e diretto. Gervinho e Salah in contropiede somigliano a biglie impazzite su un piano inclinato. Sono giocatori talmente anarchici e imprevedibili che la squadra alle loro spalle deve solo preoccuparsi di farli pensare meno e farli correre di più.

 

In questo senso l’acquisto di Dzeko è stato decisivo, per la capacità del bosniaco di venire incontro e far collassare su di sé le difese, aprendo spazio per i tagli degli esterni offensivi, come è stato per esempio nel

al Leverkusen in casa, dove ha dimostrato una fisicità ben diversa da quella di Totti.


 

L’attacco della Roma è la dimostrazione che a volte nel calcio essere più forti, più veloci, più tecnici, può bastare: a quel punto non rimane che organizzare il disordine.

 



Se il gioco del calcio è soprattutto l’arte di arrivare a mettere la palla nella rete avversaria nel modo più semplice, diretto e frequente possibile, allora il Napoli è la migliore squadra nel nostro campionato. La palla viaggia con una semplicità e un automatismo tale che le occasioni da gol nascono con la naturalezza dei frutti che spuntano su un terreno ben coltivato.

 

In un impeto riduzionista si era evidenziato il punto di svolta del Napoli nel passaggio 4-3-3 nella partita di Europa League contro il Bruges. In realtà, come si era scritto

citando Guardiola: «I moduli sono solo numeri telefonici» e i miglioramenti del Napoli sono dovuti a un migliore equilibrio di squadra. I reparti hanno trovato le giuste distanze, la difesa è più sicura e resta più alta, i giocatori si muovono con più intelligenza e sicurezza senza palla. E poi ci sono Insigne e Higuaín. Rispetto al 4-3-1-2 iniziale Insigne può partire da sinistra nel 4-3-3, ma poi ha tutte la libertà del mondo per accentrarsi, abbassarsi, creare gioco, pensare la verticalizzazione.


 

Insigne è un vero e proprio regista offensivo, l’unico del Napoli che ha il permesso di prendersi la “pausa” e pensare la giocata. Accentrandosi, Insigne detta il tempo dell’attacco. I suoi compagni si muovono attorno a lui come pianeti allineati attorno al sole: Ghoulam scende sulla fascia, Hamsik può inserirsi oppure offrire una soluzione vicina, Higuaín può venire incontro per accettare lo scarico o suggerire il filtrante alle spalle della difesa, Callejón attacca il lato debole, lo stesso fa Allan (

contro la Lazio il brasiliano si lancia nello spazio guidato col telecomando da Insigne).

 

Creando densità sulla fascia di Insigne il Napoli si apre il campo e si muove a tempo per ricevere la rifinitura e aprirsi gli spazi sul lato debole. In un certo senso—e con le venerate proporzioni—il tridente del Napoli può essere paragonato a quello del Barcellona, dove Messi e Alves fanno collassare le difese sulla destra per aprire gli spazi sul lato debole per Neymar e i tagli di Suárez.

 

Al centro poi agisce quello che è al momento il miglior centravanti al mondo. Anche se per Higuaín sarebbe più corretto parlare di “Fenomeno Naturale” più che di centravanti, un uomo che genera lapilli di lava sulla trequarti avversaria. Quando prende palla si gira con una potenza, una velocità, una determinazione, una superiorità che lo fanno sembrare davvero un adulto tra bambini.


 

A interpretare la nuova versione Super Sayan di Higuaín ci sono anche i numeri. Rispetto allo scorso anno: quasi il doppio dei tiri in porta, più passaggi-chiave, il doppio dei dribbling e, al momento, già la metà dei gol. Questa centralità assoluta e incontrastata di Higuaín in fase di conclusione verso la porta potrebbe davvero essere l’unico segnale non del tutto positivo per il Napoli. "El Pipita" è stato protagonista, tra assist e gol personali, della metà dei gol partenopei.

 
 

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