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Dario Saltari
Questa non è una schedina
07 mar 2024
07 mar 2024
Perché le agenzie di scommesse si pubblicizzano fingendo di non essere agenzie di scommesse.
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Dario Saltari
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Vedendo le partite di Serie A negli ultimi tempi potreste inavvertitamente aver dato la linea al servizio di un telegiornale. Stavate guardando il vostro Genoa-Udinese defaticante appena alzati la domenica mattina e a un certo punto una giornalista vi ha ringraziato per averle dato la parola. «Ciao ragazzi», dice, anche se siete soli davanti al computer, e siete abbastanza sicuri di non aver mai diretto un telegiornale per sbaglio in vita vostra. Avete mandato in onda un servizio e non ve ne siete accorti? Nell’inquadratura c’è anche una cameraman e un’altra persona che regge l’asta di un microfono, tutti gli indizi sembrano puntare in quella direzione. Eppure c’è qualcosa di strano. Siamo in un mondo baciato dal sole, davanti a un naviglio, ma non siamo a Milano. Non siamo nemmeno a Palermo - dove potrebbe esserci il sole ma non i navigli - o all’Esselunga di viale Kennedy - un posto che effettivamente potrebbe non esistere. No, la giornalista dice: «Oggi mi trovo qui», senza ulteriori specificazioni, ed è chiaro quindi che non siamo in un mondo reale ma forse nell’aldilà, nel subconscio di David Lynch, nella simulazione del Matrix. Insomma: qui.

Siamo passati al primo piano, la giornalista guarda in camera e sta parlando con te, sì, proprio con te: «Oggi ti sfideremo a fare dei pronostici». È il servizio di un telegiornale o Giochi senza frontiere? Che fine hanno fatto i ragazzi?

Vediamo la giornalista girare per la città di Qui, in un mondo al di fuori dei limiti fisici del reale, in cui il sole è contemporaneamente al tramonto e al suo zenit. «Nell’incontro di oggi quanti gol ci saranno? Più o meno di quattro?», chiede l’intervistatrice. Il problema è che in questo mondo non esiste il posticipo del lunedì, l’Udinese di Cioffi, non esiste Swiderski. L’incontro di oggi è contemporaneamente tutti gli incontri e nessun incontro, e potrebbe essere una partita di calcio o una sfida nell’ottagono, eppure si chiede agli intervistati di indovinare un dettaglio specifico, di prevedere un angolo di un mondo che non ha spigoli. Possono quest’uomo che sembra un carabiniere di una fiction di Rai 2 e questa donna partorita da un circolo ARCI risolvere questo paradosso senza far collassare la realtà su se stessa? La luce che cade su di loro è troppo dorata per essere vera e per un attimo mi immagino la telecamera allontanarsi, andare tra i fili d’erba del giardino lì accanto e svelare un’orgia di insetti neri ripugnanti che si rivoltano nel fango, come nella scena iniziale di Velluto Blu. I due hanno un attimo di esitazione, sembrano avvertire la pericolosità del momento. «Di più», risponde lui alla fine. Non succede nulla: ci ricordiamo che è solo una messa in scena e che alla fine è una previsione in un mondo che non esiste, per un incontro che non esiste. Nel mondo di Qui le informazioni non hanno valore: meno male. Questa improvvisa consapevolezza sembra rilassare anche il resto degli intervistati. «Secondo me molti di più», risponde uno tutto allegro; «Io direi due», aggiunge un altro. Ma sì.

«Secondo voi avranno indovinato? E voi che ne pensate?», chiede alla fine l’attrice/giornalista, mantenendo in equilibrio l’ambiguità su cosa stia conducendo, se uno spot pubblicitario o un servizio giornalistico. Ovviamente anche questa ambiguità, come tutto il resto, è artificiale, vuota: noi in realtà lo sappiamo cosa stiamo guardando, perché il video che passa sul nostro schermo parla con il contesto che è fuori da esso - il mondo reale con il posticipo del lunedì, l’Udinese di Cioffi e Swiderski - e chi lo ha ideato è perfettamente cosciente che questo dialogo farà arrivare a noi il vero messaggio: vai sul nostro sito e fatti una bella schedina, che sarà mai. Per capirne la significativa assurdità bisogna quindi fare un passo indietro, tirarci fuori per un attimo dal reale - quella quotidianità in cui abbiamo visto questo spot almeno un migliaio di volte, diventando parte del nostro panorama visivo e uditivo durante una partita di Serie A.

Da qualche anno ci siamo abituati a spot che pubblicizzano prodotti e servizi che in realtà non esistono. Non vuole essere una frase ad effetto: è che solo cercando di descrivere letteralmente cosa sono questi spot che ne possiamo comprendere davvero l’essenza. Parliamo, nei fatti, di agenzie di scommesse che si vendono come siti di informazione sullo sport, anche se in realtà non lo sono. Noi sappiamo che il servizio o il prodotto pubblicizzato non esiste, e che in realtà si sta parlando di qualcos’altro, e chi realizza le pubblicità sa che noi lo sappiamo. Si potrebbe dire che queste pubblicità fanno l’occhiolino allo spettatore su cosa stanno realmente intendendo, perché spesso lo fanno letteralmente, attraverso donne attraenti che stanno guardando proprio te, probabile maschio quasi sicuramente eterosessuale davanti alla TV.

C’è innanzitutto una ragione politica per cui le agenzie di scommesse si vendono pubblicamente come siti d’informazione - una ragione che chi segue il calcio conosce e che fa parte di quel contesto senza il quale riusciremmo ad apprezzare l’assurdità di questi spot come una forma d’arte. Dal 2018, infatti, per via del cosiddetto “Decreto dignità”, in Italia è vietata “qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d'azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media”. Una norma che da quel momento ha impedito alle squadre di esibire sulle proprie maglie i marchi delle agenzie di scommesse ma, evidentemente, non alle agenzie di scommesse di farsi pubblicità, seppur nei modi che abbiamo visto. Come mai? È possibile che le autorità siano le uniche a non aver capito che quelli non sono veri siti di informazione? Che quelli non sono veri servizi di un telegiornale ma, come dice chiaramente la legge, una forma di pubblicità indiretta?

Sarebbe bello perdersi nell’assurdità di questa ipotesi, se non fosse che la spiegazione è molto più semplice e noiosa. Le scommesse sullo sport, e sul calcio in particolare, sono un affare gigantesco, e lo sono non solo per le agenzie ma anche per lo Stato stesso, che in cambio della sua tolleranza ottiene introiti ogni anno più grandi. Secondo un report della FIGC, nel 2023 le giocate sul calcio in Italia hanno raggiunto la cifra mostruosa di 13,2 miliardi di euro, più di sei volte tanto quanto si scommetteva nel 2006 (2,1 miliardi), e lo Stato ne ha ottenuto un incasso erariale di circa 342,5 milioni di euro. Questo mare di soldi sostiene il patto implicito tra Stato e agenzie di scommesse, dove il primo fa finta di credere che quella pubblicità sia informazione e le seconde fanno finta di non sapere cosa stanno facendo realmente, con quella pubblicità. L’unico soggetto a rimanere escluso da questo patto, per adesso, sono le squadre di calcio, che non a caso da tempo reclamano di poterci (ri)entrare. Secondo un articolo della Gazzetta dello Sport del 5 gennaio, le squadre stanno facendo pressione sul governo per “rivedere il Decreto Dignità, consentendo alle squadre di avere di nuovo come sponsor operatori del betting e permettere ai club di incassare una percentuale degli introiti delle scommesse generate proprio dal calcio”; e il governo sembra disposto a cedere, almeno ad ascoltare le parole del ministro dello sport, Andrea Abodi, che dovrebbe aver incontrato il ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, per parlare del tema. Secondo lo stesso pezzo, per le squadre staremmo parlando complessivamente di una cifra intorno ai 100 milioni di euro, anche se sinceramente non so come verificarla.

Al di là della tolleranza politica, però, c’è una ragione formale, e quindi legale, che forse è ancora più interessante. Secondo le linee guida dettate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), che di fatto definiscono le norme contenute nel Decreto Dignità, non sono considerate pubblicità “le comunicazioni informative fornite dagli operatori di gioco legale nei siti di gioco o nei punti fisici di gioco, come le quote, le possibili vincite e gli eventuali bonus”. Avete letto bene. Sono le stesse autorità, di fatto, a mettere in discussione il limite tra informazione e pubblicità, permettendo… anzi, in un certo senso spingendo le agenzie di scommesse a mascherarsi da siti d’approfondimento sportivo, finti telegiornali tematici o pseudo-rubriche sull’argomento all’interno della programmazione televisiva - quello che l’AGCOM chiama, con un notevole senso per la musicalità pubblicitaria, “spazi quote”. Forse il prodotto televisivo che più ha portato all'estremo la mimesi dell'informazione da parte della pubblicità.

Qui non è tanto interessante la dinamica italiana fatta-la-legge-trovato-l’inganno quanto gli effetti da essa prodotti, una serie di paradossi uno dentro l’altro che sembra risucchiarci nel vuoto. C’è innanzitutto quello più esteriore, della pubblicità che fa finta di non essere pubblicità, contenuto in quello politico-legale più grande, della pubblicità che è stata resa più subdola ed efficace da una legge che doveva vietare la pubblicità, ed entrambi ci hanno trainato dentro questo mondo in cui è normale che una persona si interessi a quanti cartellini gialli ci saranno nell’incontro di oggi.

Era difficile concepire altrimenti questo senso di complicità tra pubblicità e spettatore - tu sai che io so - perfetto per il gioco d’azzardo, che da sempre è percepito come uno spazio privato in cui le regole non si applicano, dove poter provare legalmente il brivido del pericolo. Questi spot, semplicemente incomprensibili da fuori, sono un messaggio che solo gli impallinati di calcio possono decifrare, una specie di parola in codice in grado di aprire le porte della perdizione. Quelle di un casinò o di una sala da gioco, per l'appunto.

Se il contenuto contiene l'atmosfera, è la forma a convogliare il messaggio vero e proprio, quello cioè che informandosi, studiando e approfondendo si possano aumentare le proprie possibilità di vittoria, o che almeno si possa prendere una decisione informata, come se stessi facendo un investimento più che una scommessa vera e propria. È questo che comunicano con le loro giacche e la loro sobrietà i finti giornalisti, l’aspetto da telegiornale, le news nei “siti d’approfondimento”, al di là del fatto che stiano davvero informando o meno. Non è solo che le quote o gli ultimi cinque risultati della Juventus sono informazioni posticce, è l’idea che l’informazione possa aiutarmi a prevedere la realtà ad essere sostanzialmente falsa e intrinsecamente pericolosa, perché attraente per tutti. Tutti - anche quelli che sanno, almeno razionalmente, che in uno sport aleatorio e a basso punteggio come il calcio informarsi non significhi avere più possibilità di vincere - proprio tutti hanno un omino nel profondo che gli ripete il contrario: che adesso, sapendo tutto quello che c’è da sapere, i soldi sono lì a portata di mano. Insomma, è la stessa logica che ci porta a informarcisul Fantacalcio - l’ultimo gradino socialmente accettato prima di arrivare al gioco d’azzardo - sapendo che alla fine sarà la fortuna a decidere quasi tutto.

Questa è una mia interpretazione, quindi prendetela come volete, ma per queste stesse ragioni non mi stupirebbe se la agenzie di scommesse continuassero a pubblicizzarsi in questo modo anche nel caso in cui lo stato abrogasse il Decreto Dignità, cosa che tra l’altro ha detto esplicitamente di voler fare. Circa un anno fa il ministro dello sport ha dichiarato infatti che è «ipocrita aver vietato il diritto alla scommessa per poi consentire una comunicazione parallela degli stessi siti che promuovono semplicemente un indirizzo web che porta inevitabilmente comunque a scommettere», e che quindi tanto vale togliere il divieto, che tra l'altro stava creando un «problema di competitività» spingendo le agenzie di scommesse a investire in altri Paesi. L'ipocrisia, in Italia, è il peggiore dei peccati, e combatterla è una priorità che viene prima anche della tutela della salute, ma sempre dopo la difesa degli interessi delle aziende. Quanto meno ironico, nella stagione in cui in Italia si è tornati a parlare di gioco d'azzardo patologico per i casi Tonali e Fagioli.

In ogni caso non voglio farla troppo pesante. Insomma, anche i giornali ormai fanno a gara a “nascondere” la pubblicità dentro le proprie pagine, mascherandola da articoli veri e propri, e chiunque abbia aperto Instagram almeno una volta sa che è sempre più difficile distinguere tra gli inserti pubblicitari e il resto dei contenuti. Che il confine tra pubblicità e informazione si stia spostando è una faccenda che riguarda tutto il mondo della comunicazione, compreso Ultimo Uomo, su cui potete trovare articoli sponsorizzati e contenuti sul Fantacalcio. Non sono sarcastico quando dico che quello spot che ho raccontato all’inizio dovrebbe essere trattato come un’opera d’arte significativa, magari messo in un museo accanto a Il tradimento delle immagini di René Magritte. Entrambe le opere alla fine parlano della distanza tra l'oggetto e la sua rappresentazione, ed entrambe portano addosso una didascalia che sembra smentire quello che stiamo guardando. A quasi un secolo da ceci n’est pas une pipe oggi possiamo leggere: “La conoscenza sportiva può aiutarti nel concorso, ma non garantisce la vittoria che può dipendere anche da elementi aleatori”.

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