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Quattro su quattro
04 mag 2015
04 mag 2015
La Juventus vince quattro scudetti di fila; sei nostri collaboratori ci dicono la loro sullo storico risultato ottenuto dai bianconeri.
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Massimiliano Allegri ha dimostrato di essere un leader. Un leader è il creatore del contesto vincente nel quale i membri di un’organizzazione rendono al meglio delle proprie possibilità. Allegri lo ha fatto mediante due leve motivazionali. La prima l’ha ottenuta gratis e gli è stata fornita dall’esterno, da tutti quelli che sostenevano che quel gruppo non avrebbe più vinto senza Antonio Conte. È quel “rumore dei nemici” che spesso José Mourinho usa per cementare il proprio gruppo. La seconda l’ha costruita con le proprie mani e l’ha utilizzata all’interno, nella quotidianità del lavoro in allenamento. Allegri ha pungolato i suoi verso quel miglioramento tecnico nella gestione della palla, soprattutto a inizio azione, che ha portato la Juventus fino alle semifinali di Champions League. Ha trovato l’unico ingrediente che mancava alla ricetta di Conte, fatta già di aggressività, di intensità, di distanze sempre corrette e superiorità numerica in ogni zona del campo.

 

Dal punto di vista tattico, Allegri ha messo Tévez in condizione di essere ancora più letale di prima. Conte chiedeva a entrambi gli attaccanti lo stesso lavoro: alternativamente, uno faceva il movimento a venire incontro e l’altro attaccava la profondità. Allegri ha reso Tévez un vero e proprio playmaker offensivo: gli interni di centrocampo si allargano per svuotare il centro del campo e l'argentino riesce sempre a ricevere palla tra le linee per puntare la difesa avversaria. L’altro attaccante ha il compito di creare lo spazio per l’argentino, correndo in verticale; il trequartista deve assorbire i movimenti di Tévez, diventando il suo complemento. L’asso argentino può arrivare quindi in area di rigore attraverso una combinazione tra i compagni o partendo da lontano, senza palla, dopo averla scaricata sugli esterni.

 

Mourinho, che l’ha vinta due volte, sostiene che la Champions League è la competizione dove più conta la cura dei particolari. La sfida di semifinale tra Juventus e Real sarà soprattutto la sfida tra i due tecnici italiani. Allegri ha già dimostrato di valere la Juve, ora avrà una chance per dimostrare di valere l’Olimpo dei grandi allenatori.

 
 





 

Alla fine abbiamo capito che Carlos Tévez logora chi non ce l'ha. L'anno scorso, esordiente in bianconero, ci aveva strappato ammirazione e pensieri negativi in ugual misura. Ci chiedevamo che calcio fosse, quello italiano, in cui uno dei migliori giocatori era lui, arrivato a Torino per chiudere la carriera in un club storico, ma poco impegnativo, fuori dal giro della sua Nazionale, seria pretendente al Mondiale, eppure capace di imporsi come irrinunciabile, così recordman, così compiutamente Dieci (con tutto quel che significa Dieci alla Juventus degli anni Zero). Quest'anno, per renderci la resipiscenza più agevole, Carlitos ha spinto l'asticella delle aspettative una spanna ancora più in alto, ha preso la rincorsa e inarcando la schiena ha fissato un nuovo record: 28 reti in stagione, il suo secondo miglior risultato in carriera.

 

Ogni volta che è sceso in campo ha creato in media almeno due chance a partita, e una volta su tre l'ha buttata dentro. Meglio di Icardi, meglio di Higuaín e di Dybala, ai quali è tornato a far concorrenza per un posto in Nazionale. Ah: in Albiceleste mancava da tre anni. Abbondanti.

 

Il calendario dice che la Juventus deve ancora affrontare Cagliari, Inter, Napoli e Verona oltre alla doppia semifinale di Champions contro il Real Madrid. Se l'obiettivo di stagione sono le 29 reti della sua annata più prolifica, la prima al Manchester City, quell'obiettivo è a un passo. Ma l'obiettivo non può essere solo un numero, di gol poi.

 

Abbiamo imparato a capire che Carlitos, più che cifre, è un concetto, anche al netto della retorica del

o del

di Fuerte Apache. Carlitos è il canto del cigno di un calciatore che non vuole abbandonare l'Europa senza essersi tolto un'ultima soddisfazione, anche se lo sa solo lui quanto ne avrebbe voglia; e poi è, metonimicamente, anche il colpo di coda velenoso di una squadra che metabolizza addii e incamera successi con lo stesso inscalfibile aplomb, come se nulla importasse davvero.

 

La Vecchia Signora ha saputo resistere a vedovanze che avrebbero buttato in depressione chiunque: Del Piero prima, Conte poi. Se Tévez davvero decidesse di voler tornare al Boca, in patria, perché trattenerlo? Io lo lascerei andare, non foss'altro per gratitudine. Per aver reso la Serie A, finché c'è stato, un posto migliore.

 
 





 

Non avrei alcun motivo di trovarmi qui: la mia squadra del cuore attualmente si trova a 36 punti di distacco dalla vetta, eppure in qualche modo la vittoria dello Scudetto della Juve è stata un po’ anche la mia. All’inizio di quest’anno, avevo solo un obiettivo in mente prima della costruzione della mia

squadra del cuore, la Real Canigggia, la squadra di fantacalcio che organizzo da sei anni con i miei compagni di università: prendere uno Juventino Determinante per reparto.

 

Per questo ho blindato immediatamente la porta con Buffon (per il quarto anno consecutivo, spendendo 37 fantamilioni, ma avendo la certezza di subire meno di 20 gol, forse il singolo asset più importante di tutti in una Lega testa-a-testa). Avrei voluto aggiungere un difensore ma Lichtsteiner-Barzagli-Bonucci-Chiellini sono andati via a troppo, perciò ho lasciato sfogare i miei avversari per concentrare i miei fantamilioni su Pogba—con l’intento di togliermi lo sfizio di averlo in squadra prima che fugga verso altri campionati, ché

.

 

Solo che nei primissimi giri del centrocampo mi sono ritrovato tra le mani un Arturo Vidal a prezzo di saldo (solo 50 fantamilioni, mentre Cuadrado era andato a 82): impossibile da rifiutare, pur dovendo rinunciare a malincuore alla cosa più vicina a Kevin Durant che il calcio abbia mai visto.

 

Infine, notando di essere rimasto quello con più soldi di tutti, sono andato all-in su Carlitos Tévez per l’attacco, investendo quasi 2/5 del budget (vale a dire 190 milioni su 500 di base, ben 39 in più del secondo più pagato, Di Natale).

 

Quindi Buffon-Vidal-Tévez. Su questi tre juventini e sulla loro costanza giornata-dopo-giornata (pur con un Vidal in tono minore rispetto a quello dominante della scorsa stagione) sono riuscito a costruire una schiacciasassi, andando a vincere in scioltezza il primo fantacalcio della mia vita quasi con la stessa naturalezza con cui la Juve ha dominato il campionato.

 

Perciò, da questa stagione ho ricavato un’importante esperienza di vita: se sai che qualcosa di inevitabilmente brutto sta per succedere (= l’ennesimo Scudetto della Juve), perlomeno cerca un modo per sfruttarlo a tuo vantaggio. Oppure, semplicemente, che l’anno prossimo devo ricordarmi di prendere ancora più juventini all’asta. Una delle due.

 
 





 

Fa specie ricordare che ai tempi del Bari, tra Ranocchia e Bonucci, era il primo a essere ritenuto un fenomeno. «Credo che tra i due, difensivamente parlando, Ranocchia sia superiore, diventerà nel giro di pochi anni uno dei migliori marcatori europei» 

, il loro allenatore.

 

Non so se è a causa del suo fisico troppo “normale”, o se è perché se ne va in giro con un 

 che lo fa sembrare più scemo della media dei calciatori, ma fatichiamo ad accettare che Bonucci sia un grande difensore. Negli ultimi quattro anni ha vinto quattro scudetti al centro della difesa ed è a quasi 50 presenze in Nazionale, eppure ancora lo scorso maggio era considerato poco più di un miracolato di Conte, inadatto a qualsiasi sistema che non preveda la difesa a 3.

 

Con l’arrivo di Allegri alla Juve la carriera di Bonucci sembrava praticamente finita. "

”. Si pensava che il grande rendimento degli anni precedenti fosse favorito dalla protezione di Barzagli e Chiellini, capaci di colmarne le lacune in marcatura. Nell’anno che doveva essere, tatticamente e tecnicamente, il più difficile, Bonucci si è consacrato come il miglior difensore italiano, elevandosi a perfetta metafora del percorso della Juve in questa stagione.

 

La centralità e lo spessore che Bonucci ha acquisito nella Juventus è leggibile nel modo in cui ha alzato il livello delle proprie prestazioni nelle partite decisive: migliore in campo nel ritorno di Champions contro il Monaco; tra i migliori in campo in casa del Borussia; migliore in campo contro la Lazio, quando ha segnato un gol partendo dalla difesa palla al piede come una slavina; migliore in campo contro la Roma, quando ha segnato quello che è stato probabilmente il gol più importante della stagione bianconera finora. Un collo destro al volo da fuori area impensabile, che rappresenta bene il modo in cui Bonucci riesce a superare i propri limiti nei momenti chiave.

 

Non so quanto c’entri il lavaggio del cervello del suo motivatore, ma in un calcio sempre più fondato sulla componente mentale Bonucci sembra aver imparato a nascondere le proprie crepe tecniche (rimane un marcatore non straordinario) e ad apparire sempre in controllo assoluto della situazione. Non c’è nessun difensore, al momento, in grado di esprimere lo stesso senso di onnipotenza in un anticipo, in un dribbling in uscita dalla pressione avversaria o in un cambio di gioco di trenta metri. Pochi giorni fa ha dichiarato che questa è stata la stagione della sua consacrazione, la migliore da quando è alla Juventus; noi siamo pronti ad accettare il fatto che si tratta del miglior difensore italiano?

 
 





 

Quello appena vinto dalla Juventus è stato indubbiamente lo Scudetto di Allegri. È inevitabile, perciò, tornare col pensiero al suo predecessore e alle differenze, piuttosto significative, nella gestione della squadra e soprattutto della comunicazione. Lascio volentieri ad altri gli approfondimenti tecnico-tattici: le novità, introdotte per tempo senza mai dimenticare quanto di buono costruito in passato, hanno probabilmente reso ancora più solida questa formazione, da molti data per morta prima del tempo.

 

È però dal punto di vista dialettico che si è vissuta la vera rivoluzione rispetto al triennio precedente. La riassumerei in una espressione: la rinuncia all' "esasperazione da vittoria". Sentirsi dire che «meglio portare a casa uno 0-0 che rischiare inutilmente correndo tutti in avanti e prendendo gol», piuttosto che «questo pareggio ci fa restare primi quindi va bene», fino alla "gestione" dei punti di vantaggio perché «per vincere lo Scudetto basta arrivare davanti, non importa di quanti punti» nonché l'idea che col Parma ultimo in classifica si potesse anche perdere «perché la testa era altrove» è un qualcosa di straordinariamente diverso da quanto eravamo abituati ad ascoltare nel recente passato.

 

La consapevolezza (ostentata) dei propri mezzi fino ad arrivare a parlare di "obiettivo Berlino" contro la strategica ammissione di inferiorità e inadeguatezza rimarcata a ogni intervista, come se solo dando il 110% sempre la squadra—nettamente più forte delle altre—potesse vincere qualcosa. La tranquillità di dire che «se non dovessi avere nessun difensore disponibile schiererò Romagna che è forte uguale, non è un problema» contro i vari discorsi su budget, ristoranti, inferiorità. «Si gioca 11 contro 11» contro i «magari ce li avessi io Tizio e Caio».

 

Conte è probabilmente un allenatore migliore di Allegri, è un vincente e la sua strategia ha permesso di aprire un ciclo storico e indimenticabile. Ora, però, dopo la separazione burrascosa, è bellissimo, da juventino, tornare ad avere la consapevolezza di come Conte fosse sì la stella polare del progetto, ma che la nostra forza sia anche e soprattutto nel gruppo di giocatori e nella società. Ci rende diversi, meno fragili, meno dipendenti. E gran parte del merito è certamente del buon Max.

 
 





 

Un romanista scrive dello Scudetto vinto dalla Juventus nel giorno dell'anniversario della strage di Superga. Un romanista che ieri parlava con un altro romanista che, come battuta, ha detto che la Roma sarebbe arrivata seconda perché l'aereo che trasportava la Lazio da Bergamo a Roma sarebbe caduto. Ho realizzato solo dopo che quella battuta era fatta in coincidenza con l'anniversario di un aereo che davvero è caduto con dentro una squadra di calcio.

 

Questa scena è avvenuta realmente, quindi se c'è qualcosa di sbagliato è nella realtà. Era solo una battuta, ma il mondo che presuppone è tremendo. Dovrei essere felice se la Roma arrivasse seconda perché l'aereo con dentro la Lazio è caduto? Quanta gente andrebbe al Circo Massimo se la Roma vincesse la Champions League solo grazie a una serie di incidenti aerei che eliminassero una ad una tutte le squadre avversarie?

 

Sono pensieri assurdi, che faccio perché da romanista non potrei partecipare a un pezzo collettivo che celebri il quarto Scudetto consecutivo dell'odiata rivale. Per lavoro guardo molte partite di squadre che non sono la mia, persino belle partite di squadre rivali alla mia, ma quando si parla di calcio non posso dire quello che penso veramente e neanche gli amici più stretti, o calcisticamente più aperti, mi seguono se dico che la Lazio è bella da vedere, o che Marchisio è un giocatore incredibile.

 

D'altra parte sarebbe assurdo festeggiare uno Scudetto o una Champions League in assenza di avversari. E credo ci siano molti tifosi romanisti stretti in questo paradosso, romanisti che guardando la Juventus giocare vedono una superiorità e un controllo invidiabili, dove invidiabile comprende anche ammirevole.

 

Ha vinto la squadra migliore, superiore a quella del mio cuore, e mi auguro che possa motivare in qualche modo la mia squadra a fare meglio. La competizione dovrebbe servire anche a questo, e a offrire uno spettacolo sempre migliore al pubblico, perché se sul serio l'unica cosa che conta è vincere, allora tanto vale sabotare i pullman e gli aerei degli avversari.

 

Non guadagniamo niente coltivando il tabù dell'avversaria, la nostra squadra non migliora, il campionato non migliora, siamo solo noi che viviamo male una delle nostre passioni più forti. Sarebbe come, per un appassionato d'arte contemporanea, amare i Rothko

e detestare quelli

.

 
 

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