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Quarant'anni dall'Heysel
29 mag 2025
Un estratto da "La notte dell'innocenza", il nuovo libro di Mario Desiati.
(articolo)
6 min
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Pubblichiamo un estratto da "La notte dell'innocenza. Heysel 1985, memorie di una tragedia", il nuovo libro di Mario Desiati edito da Einaudi. Se volete acquistarlo, potete farlo cliccando qui.

Quando mio padre irrompe in casa tornato dal lavoro sto assistendo alla scena in cui un tifoso del Liverpool sale su un pennone dove è appesa una delle bandiere del Portogallo. «Questo tifoso chiaramente non è nella pienezza delle proprie facoltà mentali» dice in telecronaca Pizzul. È la frase migliore per definire lo stato psicologico di moltissime delle persone che ormai vagano attorno a quel campo di fili d’erba; una sorta di lenta, inesorabile, inspiegabile follia si è presa a carico uomini e donne.

Mio padre è fermo in giacca e cravatta, ancora non si è cambiato, è in tenuta da lavoro e mi osserva stupito, pensa che ancora si debba iniziare a giocare. Da alcuni mesi sto cercando di convincerlo a seguire la Juve. Lui è uno dei rari uomini che conosco totalmente disinteressati al calcio, per farmi contento qualche volta mi dice che tifa Avellino o Udinese, anni dopo ho creduto fosse un gesto d’amore, pur di non ammettere che tifava Juventus, aveva scelto due squadre amiche, una gemellata con la Juve e l’altra addirittura con gli stessi colori.

– Non guardi la partita? – gli chiedo vedendolo impalato davanti alla porta della stanza.

– No, – replica laconico lasciandomi solo.

Ancora non mi rassegnavo all’idea che il calcio non interessasse a mio padre, lí stavano per giocarsi la finale di Coppa dei Campioni, lí c’erano i giocatori della Juventus. Ma poi pensai: «Giustamente non essendoci né Avellino né Udinese non gli interessa».

Sullo schermo la gente si sbraccia davanti alla telecamera, sembra che salutino festosamente, sono interi settori. La prima volta che vidi quelle immagini pensai che anche quella era follia, come i tifosi che cercavano ancora lo scontro a due ore dalla tragedia. Oggi soltanto, mentre le rivedo registrate, mi rendo conto che quegli uomini salutanti tentavano semplicemente di farsi vedere in Eurovisione per dimostrare ai loro cari di essere sopravvissuti.

Alle 21 circa arriva la notizia – fonte Uefa – che i morti sono trentasei. I cadaveri non sono piú allo stadio, sono stati trasportati all’obitorio, alcuni feriti gravissimi diventano cadaveri in ospedale. In televisione l’annuncio è di Pizzul, mentre in radio l’ingrato compito spetta a Enrico Ameri, la voce amica di tutte le domeniche calcistiche degli italiani. Usa l’aggettivo «improbo» per definire il proprio compito, quasi scioccato non vuole credere alla notizia, è cauto: «I morti ufficiali finora so- no soltanto due, e noi adesso per il momento ci fermiamo a questi due morti, che sono già molti, che sono già troppi, per questo spettacolo sportivo che stasera tocca veramente il fondo della tragedia». La radiocronaca di Ameri racconta un mondo che non c’è piú, dove il cronista chiede continuamente «scusa» perché sta dando quelle notizie terribili.

Mio padre torna davanti al televisore, assiste con nervosismo a quanto sta accadendo, ne avverto la preoccupazione come un animale braccato, la sua preoccupazione è per me.

– Alle nove e mezzo andrai a letto, tanto non giocano, – dice continuando a guardare la televisione e spalancando il baratro della notte che mi aspetta. Non voglio andare a letto senza sapere cosa succederà.

Intanto i tifosi juventini che sono sul campo di atletica aumentano, c’è la tensione che precede il peggio, si creano drappelli poco rassicuranti, alcuni di loro maneggiano bastoni, confabulano, uno saluta verso le tribune, un altro urla, un altro grida con un megafono che gli è stato calato dalle gradinate.

Si alternano momenti di silenzio irreale ad attimi in cui l’Heysel sembra uno stadio normale con i suoi rumori, i boati che precedono l’ingresso delle squadre in campo, poi silenzio, poi pale di elicottero, e di nuovo brusio, i tifosi del Liverpool compongono i loro cori, quelli della Juve sono immersi nel dissidio, tra chi sta provando a superare l’ormai enorme dispiegamento di forze e chi resta sugli spalti in attesa di capire se la partita verrà disputata.

Succede qualcosa che dà al clima l’ennesima patina di irrealtà.

L’altoparlante annuncia nomi italiani, chiedendo di farsi vivi in segreteria, e un nome tra questi viene accompagnato dall’espressione «alla fine dell’incontro». Mentre l’annuncio si disperde nell’aria color rosa del tramonto, tutti deducono che la partita si giocherà.

Con l’Heysel avrei presto imparato cos’è la politica. E se dovessi darne una definizione, direi l’arte di evitare grandi conflitti attraverso conflitti piú piccoli. Il lungo processo diplomatico che avvenne nei sotterranei di quello stadio scalcinato tolse tutto quel poco di poesia che era rimasto nella mia testa e nel mio cuore.

La Juventus e Boniperti, il suo presidente, sono contrari; questione di rispetto, ma anche una sottile, umana paura che possano avvenire altri incidenti e possa essere messa a repentaglio l’incolumità dei calciatori. Nelle fasi piú concitate interviene anche il ministro del Lavoro italiano, lí presente. Gianni De Michelis, all’epoca giovane politico rampante della scena socialista europea, nei minuti di caos che precedono la decisione di giocare, sbotta: «Ma qui chi comanda?»

Le autorità belghe sono inflessibili, se accadranno altri incidenti si riterranno responsabili le squadre che non hanno voluto giocare. La partita serve a riorganizzare il servizio d’ordine. Se si sospendesse tutto, gli italiani cercherebbero subito lo scontro con gli inglesi.

Il ministro degli Interni belga si chiama Charles- Ferdinand Nothomb, è il prozio della grande scrittrice Amélie. È lui uno di quelli che spingono affinché si giochi: «I morti son morti, bisogna pensare a non provocarne altri» riporterà Leclaire nel suo libro.

Arrivano battaglioni mobili, non piú solo la gendarmeria, ma anche soldati. Sono migliaia adesso, e un dispiegamento cosí ingente diviene grottesco dopo quanto è accaduto. Il battaglione mobile, vestito di nero, marcia sulla pista di atletica per sgomberare gli juventini che sono ancora lí.

Attorno alle 21 anche i tifosi del Liverpool hanno smesso di fare tifo, ma hanno ancora gli striscioni. La calma dura qualche minuto, forse il tempo per riorganizzarsi, poi riprendono a tifare: alle 21.15 la curva nord nei due settori X e Y è una bolgia, ci sono anche bandiere bianconere strappate ai feriti dello Z.

I tifosi del Liverpool provocano i poliziotti sotto il loro settore, sono una decina di Reds che seminano panico, lanciano pezzi di stadio sui gendarmi che si difendono coi caschi e gli scudi. Eliambulanze e aerei sorvolano l’Heysel diffondendo il sapore di guerra. Nel rumore degli elicotteri mi incantavo, ancora oggi quando sento le pale di un elicottero sopra la testa interrompo qualsiasi cosa in cui sia impegnato.

Tutta l’estate sulle spiagge di Torre Canne, dove andavo al mare, attendevo la tarda mattinata quando tre elicotteri della guardia di finanza ci passavano a pochi metri dalla testa per il controllo di routine.

L’ennesima inquadratura a un elicottero porta via mio padre dal soggiorno. Chissà perché, ma vedo un oscuro legame tra quell’elicottero che svolazza nel cielo e la ritirata di mio padre. Passeranno ventinove anni, con la breve parentesi della partita Urss-Camerun, prima che, di nuovo, saremo lui, io e il calcio (ma senza Heysel di mezzo e senza avellini e udinesi).

© 2025 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano

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