Non so perché a un certo punto della mia vita, intorno ai 14 anni, Fredrik Ljungberg è diventato il mio calciatore preferito. Almeno per un periodo di tempo, prima che il suo posto venisse preso da altre cotte calcistiche.
All’epoca non era certo fra i migliori al mondo: Ronaldinho, Zidane, Eto’o, Kakà erano tutti migliori di lui. Non era neanche tra i più stilosi: Ribery, Deco, D’Alessandro, Aimar erano degli artisti e facevano cose col pallone mai viste. Ljungberg non era il più forte neanche nella sua squadra. Quell’Arsenal schierava giocatori di valore riconosciuto superiore, come Pires, Henry, Vieira, Campbell, Bergkamp. Ljungberg era l’unico che giocava con gli occhi a terra in una squadra di giocatori che correvano guardando il cielo.
La cresta rossa, Highbury, l’Arsenal di Wenger
Ricordo però una partita in cui Ljungberg era stato il miglior giocatore in campo. Era il dicembre del 2001 e per accedere alla fase ad eliminazione diretta della Champions League bisognava passare per l’inferno di due gironi e 12 partite totali. Ad Highbury era arrivata la Juventus futura campione d’Italia e affrontava l’Arsenal futuro campione d’Inghilterra, e che tre stagioni più tardi sarebbe diventato “l’Arsenal degli invincibili”. Siamo all’apogeo dell’era Wenger.
Guardavo la partita in chiaro su Italia 1 e all’epoca senza internet e senza un abbonamento alle pay-tv il calcio internazionale aveva una carica esotica che oggi forse fatichiamo a ricordare. Conoscevamo il calcio attraverso i videogiochi e quando i calciatori comparivano sullo schermo televisivo in carne e ossa, filtrati dai valori di Pro Evolution, sembravano in alta definizione.
A Pro Evolution prendevo l'Arsenal e lo schieravo con un rombo: Bergkamp dietro a Kanu e Henry. Pires e Ljungberg mezzali molto larghe, Vieira davanti la difesa.
Le tribunette di Highbury spiovevano sul prato verde smeraldo e sembrava che si giocasse su un tavolo da biliardo al centro di un salotto affollato. Ljungberg indossava la maglia oversize di quell’anno, con le maniche grosse fino ai gomiti e la scritta Dreamcast, la sua cresta rossa era al massimo dello splendore. Nessun calciatore la portava e su qualsiasi terreno di gioco Ljungberg era unico. Aveva un fisico muscoloso e compatto perfetto per una Premier ancora ruvida, che chiedeva spirito guerriero anche ai giocatori più estrosi. Era un centrocampista spigoloso, che si lanciava in pressing come un proiettile e che portava palla con un’efficacia senza grazia. Dopo 19 minuti aveva già segnato, raccogliendo una respinta corta di Buffon sul tiro di Vieira.
L’Arsenal era lontano dall’ideale apollineo che Wenger avrebbe raggiunto qualche anno più tardi, era una squadra intensa, dura, che pressava in modo confuso ma efficace. Il 4-4-2 era però incredibilmente fluido per l’epoca, e si fletteva all’istinto di giocatori con un grande senso artistico: Kanu (o Bergkamp) veniva incontro per giocare spalle alla porta, Pires e Henry costruivano il lato forte a sinistra, mentre Ljungberg era l’attaccante ombra che attaccava a destra. I numeri di maglia riflettevano una specie di ideale platonico di squadra: Vieira con il 4 dirigeva da dietro; Pires indossava la 7 dell’ala estrosa; Ljungberg l’8 dell’ala di corsa; Bergkamp la 10 del genio; Henry il 14, il numero di Cruyff, cioè del giocatore fuori da ogni categoria.
Henry aveva raddoppiato su punizione, prendendosi una prima rivincita sulla sua vecchia squadra (ce ne sarà una più succosa, ai quarti di 5 anni dopo); la Juventus aveva accorciato le distanze con Trezeguet, prima che Bergkamp si prendesse la scena con uno degli assist con cui continuiamo a ricordarlo. Riceve palla al limite destro dell’area, due giocatori gli piombano addosso e lui comincia a piroettare col pallone spingendoli come fuori da una porta scorrevole; poi, tornato al punto di partenza, scava la palla con l’esterno. Ljungberg - un ninja dei movimenti senza palla - arriva in corsa e supera Buffon con un tocco sotto.
È un gol manifesto della capacità di Ljungberg di trasformarsi in una specie di braccio armato dei suoi compagni più tecnici. Sul sito dell’Arsenal, nella scheda a lui dedicata fra i 50 calciatori più importanti della storia dei Gunners in cui è undicesimo, è scritto: «L’immacolato tempismo delle sue corse in area rigore lo rendevano difficile da fermare, e negli anni ha sviluppato una telepatia con Bergkamp e Pires». Quell’anno segnerà 17 gol e sarà la sua migliore stagione realizzativa, coronata col suo secondo gol in due finali di FA Cup diverse, terzo giocatore di sempre a riuscirci.
Nell’azione la forza fisica di Ljungberg, che si scrolla di dosso Terry e calcia sul secondo palo aprendo il piatto in modo quasi innaturale.
Glamour
Durante quell’estate gioca i Mondiali in Corea e Giappone, ma ha problemi fisici e disputa appena due partite. C’è un video in cui è in ritiro con la Svezia e un fan giapponese quasi sviene dopo che Ljungberg gli ha firmato una maglia della Svezia. Quando torna a Londra i tifosi dell’Arsenal si presenteranno al campo d’allenamento coi capelli tinti di rosso, cantando “We love you Freddy because you’ve got red hair / We love you Freddie” sull’aria di Andy Williams. Nel 2006 - dopo la vittoria del Mondiale - uno dei miei migliori amici si è tinto la cresta di rosso come Freddie Ljungberg: era anche un omaggio al nostro culto comune. La Nike lo aveva inserito nel torneo della “Gabbia”, che ha plasmato l’immaginario della mia generazione.
Quando avevo 16 anni con i miei amici ci spostavamo da Talenti a San Basilio per giocare in un campetto di cemento con le mini-porte modellato sull’idea della “Gabbia”. Ljungberg giocava nella squadra “Toros Locos” con Saviola e Luis Enrique. Aveva 25 anni, era un’icona, un sex symbol, Elle lo aveva eletto uomo più sexy di Svezia con queste motivazioni: “Stupendo, ricco, virile, in forma, umile e molto, molto bello”.
Ljungberg non era solo bello però, era glamour. La cresta rossa non lo rendeva un punk - nonostante in Svezia lo chiamassero ‘Sid' per Sid Vicious - ma era un segno di un anticonformismo alla moda poco comune fra i calciatori. La cresta rossa, per dire, in quegli anni la portavano anche Cesare Cremonini e il cantante degli Ark, svedese pure lui. Lui diceva di non farlo per attirare l’attenzione ma come un “personality statement”. In più Ljungberg giocava nella squadra più cool d’Inghilterra. L’Arsenal si era scrollato di dosso l’odore di pudding e di moquette sporca della Premier per abbracciare uno stile offensivo europeo, brillante, ricco di giocatori francesi - Petit, Henry, Pires - che sembravano a loro agio nel ruolo di raffinati snob del continente che gli inglesi gli cucivano addosso.
Ljungberg era incollocabile, a metà tra la vecchia guardia di calciatori inglesi dall’aria vintage - Ray Parlour, Tony Adams, Lee Dixon - e la new wave europea. Il Mirror lo definiva “la risposta svedese a David Beckham” con involontaria comicità, forse perché in quegli anni aveva fatto il modello per Calvin Klein (disse che dopo quelle pubblicità non poteva più uscire la sera senza che le donne gli saltassero addosso). Tra i suoi idoli indicava Socrates, che è un giocatore strano da indicare come idolo in generale, figuriamoci per uno svedese che da ragazzo giocava a pallamano e a hockey su ghiaccio. Forse ad attrarlo era il lato glamour di Socrates.
Ljungberg si vestiva con un estro e una libertà che non appartiene in genere ai calciatori. Era, o almeno era considerato, un eccentrico, una specie di personaggio alla Zoolander. Tanto che una sua intervista al Daily Mail era intitolata “Mi piacciono i vestiti ma non sono gay”. Alcuni passaggi sono incredibili: «So cosa state pensando. Freddie Ljungberg è gay, giusto? Voglio dire, insomma, è chiaro, no? Dopotutto, ecco un giovane così bello che sembra fatto in laboratorio. Non ha una ragazza fissa, si fa vestire da stilisti pazzi tipo Roberto Cavalli e - questo sembra la ciliegina sulla torta - ama i musical alla follia».
Ljungberg ha dichiarato di essere andato a vedere tre volte Mamma Mia! ma anche di essere andato ad assistere a Miss Saigon e a Saturday Night Fever, il suo preferito. In un profilo sui tabloid alle informazioni generiche si scriveva che il suo programma preferito era Abba!, Saturday Night Fever. Divideva il suo appartamento ad Hampstead insieme a suo fratello Filip, studente di moda. Amava la tempura e girare per ristoranti fusion.
Quando veniva sostituito i tifosi avversari accompagnavano la sua uscita cantando Go West dei Village People. «Non sono gay ma gli uomini gay spesso sono vestiti benissimo, quindi lo prendo un complimento» diceva lui. Nessuno parlava così nel mondo del calcio, e Ljungberg amava dire nelle interviste: «I miei genitori mi hanno insegnato a non essere una pecora. Niente di più».
Un pitbull col turbo
Eppure non c’era niente di eccentrico nel background di Ljungberg. Veniva da un paesino pieno di consonanti (Vittsjo) circondato da laghi e foreste d’abeti. La sua era una famiglia della media borghesia, da ragazzo sognava di pilotare gli aerei Fighter. Era arrivato in Inghilterra per caso, grazie a una dinamica da calcio anni ’90: Wenger aveva deciso di acquistarlo dopo una partita in cui la Svezia aveva perso contro l’Inghilterra. Fu pagato 3 milioni di sterline. Segnò dopo 10 minuti dal suo esordio in Premier League, un pallonetto a Peter Schmeichel contro il Manchester United. Il telecronista disse con la solita flemma inglese: «Che modo di cominciare la sua carriera all’Arsenal».
La partita che convinse Wenger ad acquistare Ljungberg. Shearer esultava col braccio alzato; le treccine di Henrik Larsson, le punizioni battute forti sul palo del portiere.
In Svezia Ljungberg era stato scoperto da Olle Eriksson, leggendario allenatore noto per aver scoperto anche Niels Liedholm (proprio quel Nils Liedholm, non è un paradosso temporale), e aveva cominciato giocando a centrocampo, facendo da mediano di rottura con qualche compito offensivo. Poi col tempo era stato dirottato sulla fascia, o addirittura avanzato da seconda punta. Lagerback, allenatore della Svezia Under 21, per presentarlo all’Arsenal lo aveva definito “il più veloce corridore con la palla in Europa”. Nei primi tempi ai Gunners faceva fatica ad adattarsi al nuovo ruolo e aveva pensato di andar via. Ma poi ha continuato a lottare e a imparare.
C’era qualcosa di anfetaminico nel suo stile di gioco, nel suo dinamismo feroce. Sembrava la materializzazione calcistica di un pezzo dei Prodigy, e un articolo sull’Evening Standard diceva: “Somiglia a una pop star ma gioca come un pitbull caricato col turbo”. Quando riceveva palla puntava sempre l’uomo portandola con l’esterno e correndo dentro la maglia larga che gli si gonfiava attorno al corpo. Poi scaricava a un compagno più tecnico e creativo e si buttava negli spazi con violenza. Ma anche lui era capace di ricami tecnici inaspettati, come questo gol al Manchester United: un pallonetto d’esterno a Barthez appena entrato in area. Un tiro beffardo, frutto di un guizzo inventivo purissimo.
Ljungberg aveva grandi letture di gioco, e come ricorda Dixon: «La sua immagine fuori dal campo vi può far pensare a un giocatore fuori controllo, ma il suo gioco era più intellettuale di così. Avere tempismo nelle corse senza palla non significa solo correre».
A caratterizzarlo, e a rendere il suo legame con i tifosi dell'Arsenal davvero speciale, era però soprattutto la sua personalità, il suo carisma, la sua generosità. «Con Fredrik Ljungberg sai già quello che avrai. Sai che ti darà tutto quello che ha, al 100%. Fa sempre ciò che è giusto per la squadra» diceva di lui Thierry Henry.
In un lungo articolo uscito su The Athletic si racconta come, nonostante la fama di pazzo anti-confomista, Ljungberg curava la sua vita professionale nel dettaglio. Aveva una routine quotidiana strettissima che si concludeva in una cena in un ristorante italiano vicino casa dove mangiava in cucina per non essere visto in pubblico. È anche per questa sua dedizione che Ljungberg è arrivato undicesimo nella lista dei migliori calciatori della storia dell’Arsenal, e anche perché il suo volto - gli zigomi alti, gli occhi azzurri, la forte stempiatura - resta uno dei più iconici del periodo più vincente della storia dei Gunners.
Oggi ha una barba corta e grigia e se fa uno strano effetto vederlo allenare l'Arsenal non è solo per come sparisce dentro i cappotti grossi dell'Adidas. In realtà, è una sensazione simile a quella che si aveva guardando Solskjaer sedersi sulla panchina del Manchester United un anno fa. Un volto che rimanda alla gloria antica, chiamato a ridare lustro a una situazione di decadenza, o almeno a calmare l’ambiente. Per i club può essere un utile parafulmine, ma per un giovane allenatore volare troppo vicino al sole può essere il modo più rapido per bruciarsi. Le storie di successo per le vecchie glorie che si siedono sulle panchine, lo sappiamo, sono poche.
Eppure non c’è nessuno che non parli di Ljungberg allenatore con toni entusiasti, e per molti giocatori era già un punto di riferimento durante la gestione di Unai Emery. È anche grazie al suo lavoro che molti giocatori dell’Under 23 che allenava lo scorso anno, come Joe Willock o Bukayo Saka, sono riusciti ad esordire in prima squadra.
L’Arsenal però sta cercando un nuovo allenatore, considerando la sua carica solo ad interim. Nel frattempo Ljungberg ha esordito con un 2-2 contro il Norwich, e nelle sue interviste, vestito in modo fin troppo regolare, promette un calcio offensivo e continua a esprimersi con un’intelligenza rara nel calcio: «Il mondo di un calciatore è quello del cane-mangia-cane. Da allenatore devi fare un passo indietro, pensare che non sei più tu la cosa più importante ma i calciatori. Tutto ruota attorno ai calciatori e al modo in cui migliorarli come giocatori ed esseri umani. Questa per me è la cosa più importante: accantonare l’ego e pensare a come posso aiutare gli altri».