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Calcio Fabrizio Gabrielli 7 settembre 2016 12'

Quando Tomas Skuhravy spaccava le porte

Intervista al bomber ceco del Genoa anni ’90.

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Del giorno in cui la carriera di Tomáš Skuhravý ha subito una svolta decisiva ho un ricordo nitidissimo e personale.

 

Giugno 1990: ci sono i Mondiali e le vacanze al mare in pineta, in un posto che si chiama La Frasca e che sta a pochi chilometri da Civitavecchia. Cecoslovacchia e Stati Uniti sono nel girone dell’Italia: si stanno affrontando, è il primo pomeriggio e io sono così incastrato nell’ascolto in radio del match che rifiuto, anteponendo per la prima volta il calcio al resto delle cose che mi fanno stare bene, il Bagno Delle Quattro, cioè l’apice della mia esperienza balneare preadolescenziale.

 

Sono i prodromi di un’asocialità vergognata per me, e di un’esplosione da next big thing per Tomáš, un Signor Nessuno che quel giorno, all’esordio in un Mondiale, segna una doppietta.

 

Ventisei anni più tardi, quando Davide Sannazzaro in calce a una lunga chiacchierata sulla formazione di giovani calciatori mi passa il numero di telefono di Skuhravý, con il quale collabora, dentro di me si sollevano due sentimenti contrastanti. Da una parte sono curioso di approfondire di persona un’impressione che ho sempre avuto leggendo altre sue interviste, e che sarebbe tornata più volte durante la nostra conversazione: la sensazione, vale a dire, che l’Italia Degli Anni Novanta, quella che calcisticamente ha conosciuto Tomáš, sia rimasta impressa nella sua memoria come una specie di Arcadia.

 

Dall’altra mi chiedo come dovrei approcciarmi. Dovrei raccontargli cosa stavo facendo il giorno in cui lui sbocciava?

 

Gli invio un sms timido, in cui esordisco con un Gentile Signor Skuhravý. Pochi giorni più tardi, deluso dal fatto che non mi abbia risposto (a posteriori mi chiedo: come si risponde a un perfetto sconosciuto che ti invia un sms che principia in Gentile Signor Skuhravý) lo chiamo: mi risponde ciao bello e sento di potermi arrampicare sulla cortina di soggezione un po’ come faceva lui sulle spalle dei difensori che lo marcavano, sovrastandola.

 

Prima di questa lunga conversazione ci sono stati almeno due altri tentativi a vuoto: un sabato pomeriggio tardi, in cui mi ha detto di essere in campo (l’ho immaginato a giocare, non mi è passato per la testa che potesse essere a un allenamento, a fare il coach); un’altra volta in cui stava guidando (ho immaginato senza auricolari).

 

Mi sono prefigurato la scena in cui Tomáš, mentre parliamo, è nel patio di una casa in mezzo a un bosco: ci sono due cani, la bruma, una sigaretta che brucia leggera. Non so neppure se Tomáš Skuhravý fumi.

 

 

Fammi capire: il tuo primo gol europeo è al Santiago Bernabeu contro il Real Madrid? Ma sul serio?

Braaavo. Avevo sedici anni (era nel 1983, NdA), era una partita di Coppa Uefa. All’andata avevamo vinto in casa per 3-2, ma io non avevo giocato, ero nelle giovanili. Poi in una partita delle riserve ho segnato tre gol, e l’allenatore mi ha detto «Guarda, ti porto con noi a giocare la Coppa Uefa». E io mi sono detto «cavolo, è una grande occasione». A venti minuti dalla fine perdevamo uno a zero, e praticamente stavano passando loro. Allora l’allenatore mi dice: «Guarda, facciamo che ti metto dentro, vai là, segna e buttiamo fuori il Real Madrid». Arriva questo cross da destra, io salto più in alto di tutti, anche del portiere, e segno il gol del pareggio. Era il Real di Butragueño, eh, di Michel, di questi qui. L’allenatore era Di Stefano.

 

Non esistono video di quel gol: c’è un servizio d’antan della Rai in cui si vedono solo il gol del Real e una rete annullata allo Sparta. La pronuncia del cognome di Thomáš è discutibile, ma trasuda autorevolezza.

 

Cosa si prova a buttare fuori il Real?

C’erano settantamila persone, ricordo che non si sentiva niente: sono cose che lì per lì non ci fai troppo caso, mentre sei in campo, ma un’ora dopo, quando sei in albergo e ci ripensi, ti dici: «quel gol mi cambierà la vita». Era la mia prima partita in Europa e avevo segnato il primo gol.

 

È da quel momento che ho iniziato a giocare come titolare.

 

In quello Sparta Praga, davanti a te, c’era Stanislav Griga. Se non ricordo male anche prima dei Mondiali di Italia ’90 il fumetto Topolino, che era la mia fonte più autorevole all’epoca, lo dava centravanti della formazione titolare.

Ho imparato molto da lui. Nello Sparta giocavamo sempre con due punte, uno alto e uno basso. Era quel tipo di giocatore che faceva gol solo da vicino: gli dicevamo «oh, tiraci una volta da venti metri!» Però sapeva sempre trovarsi nel momento giusto, era bravissimo a trovare il suo spazio, mi ha insegnato questo. Anche in Nazionale il titolare era lui, a volte si alternava con Knoflíček dello Slavia Praga, io nelle qualificazioni non c’ero: e quando sono stato convocato poco a poco ho rubato il posto proprio a Griga. Ero in forma, giocavo bene, facevo tanti gol: non ho più perso il posto.

 

Parliamo dei Mondiali di Italia ’90.

Per me rimangono i Mondiali più belli. C’era l’Italia, che in quel momento diventava l’epicentro del calcio mondiale, tutti i più forti giocavano già là… era un sogno.

 

E la prima rete della Cecoslovacchia la segni tu: a Firenze contro gli Stati Uniti. E anche la seconda: una doppietta al tuo esordio mondiale.

La prima è una rete diversa da quelle che segnavo di solito. Mi buttavo, non avevo mai paura. Se avessi avuto paura non avrei mai segnato quelle due reti. A riguardarli oggi mi pare che vedessi solo la porta, guarda.

 

In occasione del primo gol parte larghissimo sulla fascia, in una posizione nella quale non siamo abituati a vederlo: spunta nello schermo come se fuoriuscisse direttamente dai commenti di YouTube, ruba palla, poi taglia la difesa yankee sovrapponendosi al compagno e chiude in posizione centrale. La seconda rete, invece, è eminentemente Skuhravýca.

 

Effettivamente il ricordo che ho di te come calciatore è legato a un’idea di dominazione, di conformazione fisica, e mi rendo conto che avevo sottovalutato, all’epoca, quanto educati fossero i tuoi piedi.

È perché ho avuto buoni insegnanti. Fino a 13 anni ho vissuto e giocato in un paesino piccolo. L’allenatore aveva la sua casa delle vacanze nel mio paese, veniva a vedere le partite ogni tanto, una volta va da mio padre e gli dice «oh, io alleno i giovanissimi dello Sparta Praga, facciamogli fare una prova a questo ragazzo». È così che ho iniziato: mi hanno tesserato e ogni sei mesi passavo alla categoria superiore. Bruciavo le tappe. È così che a 16 anni mi sono trovato in prima squadra.

 

Tecnicamente sono cresciuto molto quando militavo nel Cheb: ci sono rimasto due anni, cioè il periodo del militare. È stato un bel periodo: nel Ruda giocavano tutti i migliori giovani che venivano da tutta la Cecoslovacchia (nella stagione 1985-86 ha incrociato anche Pavel Nedved, NdA), e mentre facevamo il militare potevamo metterci in mostra. In quella squadra avevamo tutti vent’anni o meno, erano pochi quelli più esperti, ed erano quelli che avevano deciso di fermarsi là a fare carriera dopo la leva. Ci preparavano per bene: oggi ci sono ragazzi che a vent’anni non sono pronti neppure per le serie minori… Da quel tipo di formazione sono usciti tutti i migliori calciatori della mia generazione, come Bilek o Chovaneč.

 

Alla fine però la tua vera vetrina è stata il Mondiale: dopo Italia ’90 sei arrivato al Genoa.

I primi momenti sono stati traumatici: quando ho letto tutti i giocatori stranieri che avrebbero giocato in Italia dopo il Mondiale, Maradona, Völler, Gullit, Van Basten, mi sono detto «ma dove vado io? A giocare con tutti questi campioni?».

 

A Genoa sono stato accolto da grandi persone prima che grandi campioni: Collovati, Bortolazzi, Caricola, gente bravissima che mi ha fatto sentire subito come fossi a casa. Io non parlavo una parola di italiano, e loro mi aiutavano, come il presidente Spinelli o Bagnoli. Ecco, Bagnoli era un grande allenatore, un grande uomo: ci faceva giocare come ci allenava…

 

Un video di presentazione con ambientazioni simili a quelle di un video di Vasco Rossi.

 

Bagnoli aveva un’idea di calcio molto Anni Novanta, quasi scolastica: 4-4-2 rigido, con due punte che fossero una alta e una bassa, come da migliore tradizione.

Ci venivano a vedere dalla Germania e dall’Inghilterra, giocavamo un bel calcio, quasi spettacolare. Ma soprattutto non avevamo paura di nessuno, andavamo a vincere spesso anche fuori casa, ci mettevamo lo spirito giusto.

 

Quello contro l’Oviedo, nella Coppa Uefa passata alla storia per la cavalcata quasi commovente del Genoa fino alla semifinale, è il tuo gol più importante?

Quando ho fatto il terzo gol (all’andata il Genoa aveva perso 1-0, NdA) mancavano due minuti e non ci credeva più nessuno. Sembrava che le due tribune stessero per cadere…

 

«Volano bandiere, volano pugni alzati verso il cielo, la V.».

 

Però quel momento non è nato per caso, avevamo già fatto una stagione importante. Ci ripensavo oggi , nell’ultima partita della stagione prima della Uefa abbiamo affrontato la Juventus e se pareggiavamo saremmo andati entrambi in Europa, e invece abbiamo vinto noi due a zero… In quella partita mi ha marcato Köhler, pensa che ho ancora una targa a casa che ricorda di quando abbiamo vinto contro la Juventus…

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Tags : ex calciatorigenoa

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012). È vice-direttore de l'Ultimo Uomo.

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