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Simone Musella
Quando l'Italia è andata in fissa col wrestling
19 set 2023
19 set 2023
È stato un periodo relativamente breve ma molto intenso.
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Simone Musella
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IMAGO / PicturePerfect
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«Una sorta di Suplex, Ciccio!». Bastano queste cinque parole (più pausa enfatica) per riportare alla mente di chi legge ricordi di un’epoca che, temporalmente, non è poi così lontana (alla fine parliamo di un perio che va all'incirca dal 2003 al 2007), ma che sembra venire da un altro mondo rispetto a oggi. Queste parole le pronuncia Christian “Chris” Recalcati rivolgendosi al suo collega, Giacomo “Ciccio” Valenti. Ad ascoltarli è il variegato pubblico di Italia 1, che comprende padri, madri, parenti tutti e soprattutto figlie e figli mentre guardano WWE Smackdown.

In questa torrida estate sembra che, nelle parole di Francis Ford Coppola, ci si avvicini a una nuova «età dell’oro» per quello che riguarda la fruizione dei contenuti da parte del pubblico. Lui parla del cinema, delle persone che tornano nelle sale, forte del fenomeno Barbienheimer. Ma non è solo il cinema ad andare forte in questo periodo; gli sport in particolare stanno tornando a far registrare grandi numeri di spettatori, e tra questi c’è il wrestling, che in tutto il mondo fa registrare cifre da capogiro, tra il grande successo della WWE in America e India e l’incredibile record di 81mila e più spettatori paganti registrato dalla AEW al Wembley Stadium di Londra. In Italia, invece, il movimento sembra morto e sepolto, al netto del grottesco tentativo da parte di Elon Musk e Mark Zuckerberg di attirare nuovo interesse su di sé combattendo in una qualche attrattiva turistica nostrana.

Non è stato sempre così, ormai l'avrete capito. Il wrestling - questa strana forma di spettacolo, incrocio di lotta gladiatoria, circo e teatro cosparsa di frizzi e lazzi che cambiano a seconda del paese in cui viene praticata - era già noto al pubblico italiano anche prima del 2003: i più anziani ricorderanno con nostalgia il programma sui «grandi campioni del catch» commentato da Tony Fusaro, che per primo introdusse in alcune case italiane nomi del wrestling giapponese (o più propriamente, puroresu) come quelli del compianto Antonio Inoki, o Tiger Mask, il personaggio creato per promuovere il cartone animato omonimo. A quelli seguì il wrestling più propriamente “nazional-popolare” della WWF su Italia 1, al cui epicentro c’era Hulk Hogan, col commento di Dan Peterson. Come si può vedere dalla pubblicità, il wrestling già allora era venduto soprattutto come un programma diretto ai bambini o ai ragazzi, con l'intendo di vendere giocattoli. Gran parte degli adulti, invece, la considerava già allora una baracconata demenziale. Un'americanata, come si dice.

Il wrestling nel nostro Paese rimase in chiaro fino al 1994, un anno che per l’allora World Wrestling Federation di Vince McMahon segnava l’epicentro di un’era di crisi di ascolti, scandali, e guadagni. L’Italia si perse quindi quasi tutto il periodo della Attitude Era, quel periodo dal 1997 al 2001 in cui il wrestling riprese prepotentemente il controllo dell’immaginario americano. A poco servirono delle isolate trasmissioni mattutine in estate – probabilmente per vedere se ci fosse ancora mercato per il wrestling in Italia – dei programmi WWF, e ancora meno le sparute puntate di mezz’ora fatte di varie clip del programma Monday Nitro della World Championship Wrestling che giunsero in Italia nel ‘99 (per pubblicizzare, soprattutto, il videogioco in uscita in quel periodo e le action figures, ovviamente) per riportare nel nostro Paese la “Wrestling-Mania” degli anni ‘80. Per quello bisognerà aspettare il 2002.

In quell’anno infatti tornò a essere trasmesso su Italia 1 WWE Velocity, uno show “terziario” della WWE, anche in questo caso credo per tastare le acque. La WWE voleva espandersi nuovamente in Europa dopo il successo delle sue tappe nel Regno Unito, e l’Italia, nel “periodo d’oro”, rimaneva un territorio di conquista. Tornarono quindi i programmi in chiaro della WWE sulle reti di Mediaset. Velocity durò tre mesi prima di essere sostituito dalla versione spezzettata, per il mercato internazionale, di Smackdown, il loro lo show di due ore del venerdì sera. E fu un boom clamoroso. Subito i ragazzi – e genitori preoccupatissimi per quello che stavano guardando i loro bambini al seguito – si misero davanti alla televisione ad assistere a questi programmi.

E non solo in chiaro: per chi poteva permettersi SKY c’era Monday Night Raw, lo show del lunedì della WWE, in versione integrale e con commento in italiano, che aveva forse un bacino d’utenza minore dovuto alla natura della piattaforma su cui andava in onda, ma che generava comunque cifre molto alte: in media in Italia più di quarantamila persone, oltre ai soldi della Pay TV, spendevano 10 euro per comprarsi e vedersi gli eventi della WWE su Sky nei primi anni 2000.

E fu così che anche solo nel 2003 la WWE tornò in Italia con un tour promosso a Radio Deejay. Fu di nuovo un successo, e con esso arrivò una nuova mareggiata di merchandise, che oggi qualcuno sicuramente ancora possiede. Parliamo di zaini, magliette, carte collezionabili, DVD, di tutto e di più, e in maniera molto più prominente rispetto alle prime volte.

Finalmente l'Italia, per la gioia dei suoi fan, aveva completamente abbracciato il wrestling. È difficile individuare il perché di un successo tanto esagerato, eppure tanto limitato nel tempo. Forse è dovuto alla stessa natura spettacolare del wrestling, che tanto fa parlare di sé, nel bene o nel male, pur rimanendo nella propria nicchia. I personaggi esagerati, le passioni forti, il risolvere i propri conflitti sì picchiandosi, ma in un modo che non sembra stare né in cielo né in terra. Forse la WWE di allora ben si sposava con l’ambiente culturale dell’Italia che stava coltivando il berlusconismo in TV. Lo sdoganamento di una maggiore violenza in TV, una visione sessualizzata della donna. In questo senso, nella programmazione in chiaro italiana, uno show come Smackdown ci stava benissimo: la WWE di allora era ancora parecchio retrograda sulla presentazione delle donne, preferendo modelle dalle figure giunoniche ad atlete vere e proprie. I personaggi proposti poi erano perfettamente identificabili in archetipi e stereotipi che il grande pubblico poteva riconoscere senza problemi: dall’arricchito senza qualità (JBL), al gigante inarrestabile (Big Show), all’atleta ultramericano (Kurt Angle), al lottatore mascherato piccolo di fisico ma grande di cuore (Rey Mysterio), c’era qualcosa per tutti. Più di tutti, però, l’Italia si appassionò a Eddie Guerrero.

È difficile dire cosa è stato Eddie Guerrero per quella generazione. Questo atleta, morto nel 2005 a trentotto anni (un destino che condivide con un’altra star della WWE, Bray Wyatt, trentaseienne), che per molti è stata allora una figura molto vicina a una divinità, e forse, se lo chiedessimo in giro, lo sarebbe ancora. Eddie era tecnicamente un heel,in gergo, cioè un cattivo. Un messicano furbacchione, caciarone e che era sempre pronto a inventarsene una nuova, un nuovo raggiro o un nuovo modo di barare pur di vincere. Poi divenne un buono (face) che combatteva per il suo popolo e per il pubblico, la sua famiglia, la sua «raza», e vinse il titolo massimo della WWE nel 2004, per la prima volta e unica nella sua carriera. A oggi, molti hanno ancora negli occhi il suo iconico Frog Splash, dalla cima di una gabbia, per cercare invano di battere il cattivo texano JBL, che gli aveva fregato la cintura vinta con tanto impegno.

C'era qualcosa nell'identità di Eddie Guerrero che lo faceva sentire particolarmente vicino al pubblico italiano. Forse era per la sua natura di underdog, che l'Italia non può far altro che amare. Non era il protagonista prescelto della storia, non era il più forte fisicamente, non era il più bello, non era nemmeno americano, eppure ce l’aveva fatta, mettendoci tutto se stesso, e con quel pizzico di furberia in più quando era necessario, che pure nel nostro Paese non può che far breccia. La sua morte tragica, dovuta a una vita imperfetta, piena di eccessi, da cui aveva cercato a tutti i costi di redimersi, infine pagandone il prezzo, lo ha reso in un certo senso ancora più divino di quanto già non fosse.

Nel momento della sua morte forse si può addirittura iniziare a parlare dell’Italia di Eddie Guerrero, quando il wrestling arrivò al picco della propria popolarità. La piccola scena italiana, composta da appassionati dopolavoristi, iniziata “propriamente” sul finire degli anni ‘90, e composta perlopiù da giovani adulti che erano si erano appassionati alla WWF nella loro infanzia, sembrava stesse finalmente iniziando a uscire da quella dimensione di piccole palestre messe su con ring di fortuna e ottenere un piccolo riconoscimento.

Nel giugno 2005 un evento di una federazione italiana al PalaLottomatica di Roma fa circa undicimila spettatori senza nemmeno una stella WWE, ma quasi solo lottatori europei (più un grandissimo nome come AJ Styles, che solo anni dopo sarebbe arrivato alla corte di McMahon diventando un pluricampione). Sembra che sia finalmente arrivata la luce anche per quegli italiani che speravano di potersi guadagnare da vivere come avevano fatto i loro idoli, lottando in quel ring. Certo, a rivedere oggi quegli incontri viene da sorridere per l'ingenuità con cui si cercò di copiare dagli Stati Uniti personaggi ed estetica, provando a calarli nel nostro contesto culturale e politico. Allo show del PalaLottomatica 11mila persone si trovano a dover assistere alla scena di Capitan Padania che picchia Neo Pulcinella, nel tentativo di capitalizzare sulla rivalità tra il Nord e il Sud, accesa in Parlamento dalla Lega Nord ancora autonomista di Umberto Bossi.

Nel frattempo su Canale 5 ad occuparsi di wrestling è addirittura Maurizio Costanzo, che si scaglia con disarmante pressappochismo contro il wrestling, bollandolo sostanzialmente come una pagliacciata, sfottendo a più riprese gli ospiti invitati nei suoi show per promuovere il “fenomeno wrestling italiano”. Il programma Mediaset ha la furbizia di invitare quelli dall'aspetto ridicolo per stuzzicare negli spettatori questa visione moralista e probabilmente il trucco funziona.

Sembra che ci siano due anime in conflitto, nella promozione del wrestling italiano, e sulle stesse rete di Berlusconi. Una che accetta cos’è questo “spettacolo circense” e il guadagno che porta, coadiuvata da un pubblico giovane che si appassiona senza remore alle vicende dei lottatori; e una invece più moralista e bacchettona, composta da intellettuali che rifiutano questa “pagliacciata da americani” che inquina le menti dei giovani, spingendoli a non studiare e a farsi male tra di loro invece di avere la testa sulle spalle. Tra questi troviamo le periodiche crociate del MOIGE, il movimento italiano genitori, ma anche calciatori come Gianluigi Buffon, che si esprimevano contro la WWE, il cui successo sembrava star prendendo il sopravvento persino sul calcio, visto che le figurine dei wrestler vendevano allora più di quelle dei calciatori.

Persino quelle proteste però erano il segno che ormai il wrestling era diventato un elemento stabile della nostra cultura, e forse la dimostrazione migliore furono a questo proposito proprio l'interesse che provavano gli stessi calciatori per il wrestling. È famosa in questo senso l'esultanza di Mirko Vucinic nel 2005, che citò The Undertaker passandosi un dito sulla gola dopo un gol alla Lazio. Come si può leggere sul comunicato del Codacons che denuncia l'accaduto, però, Vucinic non era certo l'unico: "In passato anche Cristiano Lucarelli, autore di una quaterna sul campo del Parma, si era presentato all'allenamento indossando la maschera di Rey Mysterio. Un altro famosissimo calciatore che segue il Wrestling è la punta della Fiorentina Miccoli, che ha partecipato l'anno scorso a Firenze in una delle due tappe del Tour di Smack Down".

In quegli anni il wrestling invade addirittura su Casa Vianello, il che significa, in Italia, “essere arrivati”. Nel 2006 John Cena, campione massimo della WWE e volto prescelto da Vince McMahon per essere il portavoce internazionale della federazione, fu invitato al Festival di Sanremo, per parlare, tra le altre cose, anche della recente morte di Eddie Guerrero. Di fronte a lui si ritrovò il più ostico avversario di tutta la sua carriera: un Giorgio Panariello completamente impreparato e senza alcuna conoscenza minima di base, nemmeno dell’inglese, per parlare con Cena, di fronte a un pubblico, quello della kermesse sanremese, completamente disinteressato. Solo quando si nomina il grande campione da poco scomparso c’è un accenno di minima, dovuta empatia – e non era nemmeno scontata. Nell’aprile del 2007 la WWE arrivò a fare una puntata del suo show del lunedì, Raw, a Milano, col commento italiano in diretta.

Quello che sembrava essere l’apice definitivo si rivelò essere l’inizio della fine. Due mesi dopo, a giugno, Chris Benoit mise fine alla sua vita, a quella della sua famiglia, e con essa anche al successo del wrestling in Italia. Mediaset rimosse il wrestling dai suoi programmi in chiaro nel giro di un paio di settimane, non volendo “sporcarsi le mani” con il wrestling ora che era al centro di uno “scandalo” così orribile. Così velocemente era arrivato e aveva avuto successo, travolgendo il mercato, così velocemente era scomparso tra lo sprezzo e il disgusto. Il gesto di Benoit, insomma, aveva fatto vincere definitivamente quella linea bacchettona che considera il wrestling una pagliacciata finta, chi la pratica un idiota senza alcuna dignità, e chi lo guarda ancora peggio. Il wrestling rimase sulla Pay TV di SKY, ma ormai la magia era persa. Il dominio culturale completamente infranto. La piccola scena italiana rimase una specie di “terzo mondo” del wrestling tenuto su da pochi appassionati speranzosi di poter emergere, e solo di recente si inizia di nuovo a intravedere uno spiraglio di possibile dignità.

A oggi, di quello specifico periodo italiano che va dal 2003 al 2007, rimane poco. Insieme ai gadget comprati in quel periodo e rimasti a impolverarsi in qualche cantina o sul bancone di qualche mercatino, forse solo il ricordo di quei ragazzi che lo hanno vissuto con tanta passione. E che magari, seppure non lo guardino più, ancora oggi si emozionano quando gli nomini il Latino Heat.

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