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Quando Celtic-Rangers diede il peggio di sé
22 set 2023
22 set 2023
Breve storia del cosiddetto "Shame Game", il derby di Ibrox del 17 ottobre 1987.
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Quando nel calcio si parla di derby, uno dei luoghi comuni più ricorrenti e talvolta abusati è quello della rivalità vissuta in campo e fuori. È qualcosa che vale soprattutto per i tifosi. Nella migliore delle ipotesi sono sfottò di vario genere, nella peggiore comportamenti meno edificanti. Anche i calciatori, come sappiamo, tendono a vivere l’evento nei limiti di un agonismo più o meno marcato. I momenti di tensione e nervosismo formano una componente importante del gioco, pur rimanendo solitamente circoscritti al rettangolo verde. O almeno così è di solito, e coì dovrebbe essere.

Ci sono però due squadre per cui, più di tutte le altre, questa regola vale poco o nulla. L’unica cosa che le unisce è la città di provenienza, Glasgow. A dividerle, invece, c’è tutto il resto: politica, religione e abitudini sociali. Quella tra Celtic e Rangers è davvero una rivalità che va al di là di una semplice partita e che affonda le proprie radici nella forte migrazione tra il XIX e XX secolo dalla Repubblica d’Irlanda alla vicina Scozia a causa di una profonda carestia e una elevata disoccupazione. Molti cattolici si insediarono nelle zone periferiche di Glasgow, lasciando il centro in mano a una popolazione largamente di fede protestante.

Questa divisione, riscontrabile anche nella geografia della città con il fiume Clyde a separare metaforicamente i due stadi, si accentuò ulteriormente dopo la fondazione nel 1887 del Celtic ad opera del frate mariano di origini irlandesi Brother Walfrid. Il suo intento era raccogliere denaro in favore dei più bisognosi attraverso l’istituzione di un club che richiamava le radici celtiche delle popolazioni scozzesi e irlandesi. Anni prima, nel 1872, i fratelli Peter e Moses McNeil, William McBeath e Peter Campbell erano rimasti incuriositi e divertiti da una partita di calcio, e avevano deciso di dare vita ai Rangers, traendo il nome da quello di una squadra inglese di rugby. Con il passare del tempo i primi divennero espressione della comunità cattolica, laburista e filo-irlandese, i secondi invece emblema del protestantesimo e dell’élite conservatrice filoinglese.

La loro comparsa sulla scena nazionale scozzese cambiò radicalmente gli equilibri, portando Celtic e Rangers a spartirsi la vittoria del campionato a partire dalla stagione 1984-85, quando l’Aberdeen di un emergente Alex Ferguson interruppe per l’ultima volta il loro monopolio.

Una rivalità controversa

Da allora, la corsa al titolo è sempre stata una lotta a due inserita nel più ampio contesto di una rivalità conosciuta ovunque con l’etichetta Old Firm. L’ipotesi più accreditata vede risalire l’origine del nome a un fumetto pubblicato sulla rivista The Scottish Referee in occasione della finale di Scottish Cup del 1904. “Sovvenziona l’Old Firm” recitava la vignetta raffigurante un uomo anziano con un cartellone pubblicitario tra le mani, come a voler rimarcare i reciproci vantaggi commerciali derivanti dalle enormi folle che questa partita attirava. Un sondaggio del 2005 stimò un’entrata costante per l’economia scozzese di 120 milioni di sterline derivante proprio dagli incroci nel corso della stagione di queste due squadre.

Sono numerosi gli episodi controversi occorsi durante la storia dell’incontro. Il 2 gennaio 1998 Paul Gascoigne, ricoperto di insulti dai tifosi del Celtic durante il riscaldamento, finse di suonare il flauto che ricordava “The Sash”, una canzone popolare tipica delle sanguinose parate orangiste in Irlanda del Nord. Le settimane successive furono un susseguirsi di minacce di morte, con Scotland Yard che lo istruì persino su come aprire la posta assicurandosi l’assenza di esplosivi. La questione religiosa fu nuovamente oggetto del contendere una decina di anni più tardi.

Il 12 febbraio 2006, ad Ibrox, il portiere polacco del Celtic, Artur Boruc, festeggiò un gol del compagno Zurawski compiendo beffardamente il segno della croce davanti alla tifoseria dei Rangers, gesto che gli costò persino un ammonimento giudiziario. Nei giorni seguenti nacque una disputa feroce tra la comunità protestante, che considerava l’atto di Boruc fortemente oltraggioso, e la Chiesa Cattolica, che invece rivendicava il diritto di libertà religiosa.

Tutto finito? Macché. Nemmeno il tempo di far abbassare la tensione che Boruc si rese di nuovo protagonista. Questa volta al Celtic Park, in un Old Firm datato 27 aprile 2008: il Celtic vinse 3-2 e il portiere sfoggiò una t-shirt con la scritta “God bless the Pope”, accolta dai boati del pubblico amico ma fischiata e insultata dalla tifoseria ospite. Anche il quel caso venne aperta un’inchiesta da parte della Federcalcio scozzese, ma l’allora tecnico del Celtic Strachan minimizzò la vicenda: «Il Papa non è mica un brutto personaggio. Se fosse stato scritto Dio benedica Myra Hindley (una serial killer, ndr) allora sì che avrebbe potuto essere un problema».

Questi episodi gli sono valsi anche questo fantastico coro da parte dei tifosi del Celtic.

Il derby della vergogna

E se è pur vero che questa sfida vive e si nutre anche di momenti così polarizzanti che ne costituiscono l’essenza, è doveroso ricordare di quella volta che le cose di misero talmente male da comprometterne, in un primo momento, persino la sua stessa sopravvivenza. Stavolta niente schermaglie o sbeffeggi alla fede altrui, ma un’esplosione di violenza senza eguali che relegò la sfida in secondo piano.

Del derby di Ibrox del 17 ottobre 1987, probabilmente in pochi ricorderanno il risultato finale di 2-2. Al contrario, invece, a catturare le prime pagine dei giornali e l’attenzione dell’opinione pubblica furono le tre espulsioni e l’accusa rivolta a quattro calciatori di violazione della quiete pubblica. L’arresto di sessantadue tifosi costituì la cornice di una delle più bellicose edizioni offerta dall’Old Firm.

Come da innumerevoli anni a questa parte, anche in quella circostanza Celtic e Rangers erano in lizza per la vittoria del titolo. Gli Hoops di Billy McNeill avevano quattro punti di vantaggio sui Gers, allenati da Graeme Souness e impreziositi dagli arrivi di calciatori inglesi di alto profilo come Richard Gough, Mark Walters e Ray Wilkins. Sotto un inusuale sole autunnale scozzese ad illuminare Ibrox Park, la sfida più attesa dell’anno tra le squadre più forti del campionato finì presto per assumere una brutta piega. A cominciare le ostilità fu l'attaccante del Celtic Frank McAvennie che, nel tentativo di avventarsi sul pallone dopo un intervento di Jimmy Phillips, non rallentò la corsa e finì addosso al portiere dei Rangers Chris Woods. Nei pochi secondi che furono a contatto, i due biondoni sfoggiarono un repertorio di spinte, tirate per i capelli e mani sul collo, prima dell’arrivo di Terry Butcher ad allontanare McAvennie e ad urlargli addosso parole direttamente proporzionali all’elevato livello di tensione nell’aria. Calmate le acque, l’arbitro Jim Duncan non poté far altro che mostrare il cartellino rosso ad entrambi i contendenti, graziando Butcher con l’ammonizione.

Era da poco scoccato il quarto d’ora di gioco e tutte e due le squadre si ritrovarono con un uomo in meno e tanto nervosismo in più. Il successivo vantaggio ospite siglato alla mezzora da Andy Walker e lo sfortunato autogol di Butcher sembrarono rappresentare l’epilogo di un derby sul quale si sarebbe già detto e scritto parecchio. Non solo per via delle due espulsioni e del risultato favorevole al Celtic che avrebbe permesso di allungare in classifica sui Rangers, ma anche per il fatto che ad andare in porta al posto di Woods fu il difensore Graham Roberts. Ai tempi in Inghilterra e Scozia era infatti possibile effettuare una sola sostituzione. Inizialmente la regola, introdotta nel 1965-66, prevedeva che la ragione del cambio fosse solo l’infortunio. Successivamente, nella stagione 1967-68, agli allenatori fu accordata la possibilità di variare anche per ragioni tattiche. L'ulteriore deroga alla norma, attraverso l’inserimento della seconda sostituzione, sarebbe arrivata proprio nei giorni successivi all’Old Firm, accontentando le pressioni delle dirigenze che rimarcavano l’ingiustizia di dover utilizzare un calciatore di movimento per rimpiazzare il portiere infortunato.

Il secondo tempo seguì lo stesso canovaccio del primo e bastò l’ennesimo duro scontro della giornata per comprendere che la situazione poteva soltanto peggiorare. A metà della ripresa, da una punizione calciata da centrocampo e diretta verso l’area di rigore del Celtic, si innescò un nuovo parapiglia. Il portiere Alan McKnight tentò l’uscita in presa alta, Butcher gli finì addosso e dopo essersi rialzato lo colpì con una spintarella che, in verità, pareva più un gesto di stizza di lieve intensità che un reale tentativo di far male all’avversario. La stessa reazione di McKnight, mani sul volto nonostante il contatto sulla schiena, persino rivedendola nei pochi replay disponibili su YouTube a distanza di oltre trent'anni somiglia tanto a una simulazione e poco a una reale manifestazione di dolore. L’occhio vigile di Duncan, appostato a pochi metri dal vantaggio, non risparmiò tuttavia Butcher che stavolta si vide sventolare il cartellino rosso.

L’Old Firm, allo scoccare dell’ora di gioco, aveva già messo a referto due gol, tre espulsioni e una partita che sembrava ormai chiusa. La doccia anticipata del proprio pilastro difensivo diede però un sussulto d’orgoglio ai Rangers che a distanza di centottanta secondi accorciarono le distanze con il mancino di Ally McCoist, perfettamente imbeccato da Richard Gough, di ruolo terzino destro, quando ancora i terzini non erano certo sinonimo di raffinatezza tecnica.

Ibrox eruttò di nuovo, e stavolta non in preda a una reazione isterica o di disappunto. Era il segnale che i Rangers erano ancora vivi e avrebbero dato tutto in uno dei finali thrilling più sconvolgenti nella storia del derby. Con l’orologio che scorreva inesorabilmente verso il novantesimo e i Rangers che iniziavano a sbilanciarsi alla ricerca del pareggio, soltanto una clamorosa traversa e un paio di salvataggi di Roberts evitarono il tracollo definitivo prima che la più famosa e antica legge del calcio — gol sbagliato, gol subito — aggiungesse sotto forma di contrappasso ulteriore drama a una partita che ne aveva già offerto parecchio: da un’uscita a vuoto di McKnight nacque il pareggio sottomisura di Gough, eletto quel giorno a salvatore del popolo Gers.

A prendersi la scena negli ultimi secondi e a infiammare un clima già di per sé tossico fu però Roberts, che si improvvisò direttore d’orchestra del coro settario “The Billy Boys” — salvo poi giustificarsi all’indomani sostenendo di non sapere cosa stessero cantando i tifosi.

Il fischio finale dell’arbitro non fece calare il sipario su una delle peggiori manifestazioni dell’Old Firm, dando il via ai postumi di un incontro che non poteva ancora essere archiviato. Dopo quella sul campo, cominciò un’altra partita sulle pagine dei giornali e in tribunale fatta di stigmatizzazioni, polemiche e dicerie, come quella secondo cui Duncan non avrebbe più arbitrato in massima serie, finendo anzi relegato nelle serie minori. Il giornalista Jim Reynolds scrisse con toni severi sull’Herald: «So che ci sono quelli che credono stupidamente che questo focoso comportamento porti un brivido in più al corso degli eventi. È vero e proprio teppismo che, se non fosse stato per l'ammirevole moderazione mostrata dai tifosi, avrebbe potuto portare a qualcosa di molto più serio. Mi chiedo se questi giocatori, specialmente quelli che vengono dall'Inghilterra, comprendano appieno la situazione di polveriera in cui si trovano ogni volta che prendono parte a un Old Firm. In caso contrario, è tempo che qualcuno con un senso di responsabilità lo spieghi per intero. Sabato sarà ricordato come il giorno in cui l’Old Firm è quasi morto di vergogna». Un biasimo tanto marcato era dettato dalla notorietà dei protagonisti coinvolti, emigrati in Scozia nel quinquennio di esilio forzato delle inglesi dalle coppe europee a causa della strage dell’Heysel.

Dal punto di vista legale, le conseguenze furono ancora più gravi. Woods, Roberts, Butcher e McAvennie furono accusati di «condotta in grado di creare turbamento dell’ordine pubblico» e la Scottish Football Association ordinò anche all’arbitro di redigere un rapporto su quanto successo in quella folle giornata.

Nel corso del processo che si tenne nella primavera del 1988, durante cui il famigerato Shame Game - come venne chiamata successivamente la partita - venne trasmesso per intero nell’aula di tribunale, Roberts e McAvennie furono prosciolti, mentre Woods e Butcher ricevettero un’ammenda rispettivamente di 500 e 250 sterline.

La copertura mediatica fu talmente eccezionale e per certi versi imprevista che gli imputati parevano essere più dei gangster affermati che non dei calciatori. Lo stesso McAvennie rimase sbalordito di tutta l’attenzione ricevuta («pensavo che una cosa del genere potesse succedere solo quando uscivo dal nightclub»), scherzando anche sulla quantità di soldi spesi per procurarsi abiti elegante e consoni al contesto perché «non potevo mica indossare lo stesso vestito in tribunale ogni giorno». Persino la lettura della sentenza portò con sé un momento di ilarità generale. La convinzione dei calciatori era di ricevere un’ammenda abbastanza uniforme dal momento che tutti, in qualche modo, avevano preso parte alle molteplici zuffe durante la partita. E invece, secondo il giudice, i colpevoli erano solo Woods e Butcher — circostanza che costò loro un marchio sulla fedina penale — con McAvennie non colpevole e Roberts salvato dall’insufficienza di prove, nonostante la sua compartecipazione fosse stata trasmessa in televisione.

Tutti e quattro furono comunque obbligati a stringersi la mano in campo prima dell’inizio della partita di ritorno al Celtic Park come gesto di apparente distensione, un’usanza oggi data per scontata ma che all’epoca non lo era affatto e che apparve piuttosto come una forzatura imposta per ridare credito a un derby giunto sull’orlo del collasso.

Colpi proibiti, risse ed espulsioni durante Celtic-Rangers non sono mai stati una novità e abbiamo imparato ad abituarcene un po’ tutti nel corso degli anni, ma forse mai come quella volta si sfiorò il dramma. Di tutte le edizioni dell’Old Firm, persino le più turbolente, nessuna è ancora riuscita ad eguagliare il livello di scandalo dello Shame Game per la contemporanea presenza di fattori interni ed esterni al gioco difficilmente replicabili: quattro gol, tre espulsioni, un pareggio all’ultimo minuto partendo da una situazione di doppio svantaggio, quattro rinvii a giudizio e due condanne. Elementi di ordinaria follia che persino in un derby come quello di Glasgow assumono i contorni di qualcosa di straordinario.

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