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Il futuro incerto dell'Inter
08 giu 2022
Una riflessione da tifoso.
(articolo)
14 min
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La domenica in cui il Milan ha celebrato il suo diciannovesimo scudetto ero in vacanza, e vorrei dire che è “perché tanto si sapeva”, che avevo archiviato la stagione e stavo già guardando avanti, ma la realtà è che di recente faccio un sacco di fatica con le date. La sera in cui abbiamo vinto la Coppa Italia sono andato a giocare a calcetto perché mi hanno chiesto se mi andasse bene mercoledì e io ho detto sì ci mancherebbe, e poi solo la mattina stessa ho collegato, e sono andato avanti a sfruttare le fermate per i crampi e i palloni buttati oltre la rete per controllare al cellulare i cambi di risultato.

«Difficilmente il maschio raggiunge la maturità della ragione e delle forze intellettuali prima dei ventotto anni» ha scritto Schopenhauer e questo mi ha un po’ consolato. A dirla tutta la riflessione era inserita dentro un contesto estremamente autoconsolatorio e assolutorio verso il genere maschile, ma tocca aggrapparsi a qualcosa, magari il meglio deve veramente ancora venire. Allora con rinnovata speranza verso il futuro sono andato ad Amsterdam a recuperare sprazzi della perduta energia giovanile. E per un attimo, mentre osservavo la scultura centrale del museo di arte contemporanea, perso tra i fori di proiettile nel costato di questo martire del ventunesimo secolo, ho pensato all’Inter.

«La cosa più bella di questa stagione sono stati quei trenta minuti in cui la squadra è rimasta a vedere la curva, quei trenta minuti… È stata la cosa più bella che ho visto da quando seguo l’Inter», ha raccontato con gli occhi lucidi e la voce singhiozzante un tifoso dell’Inter fuori dalle porte di San Siro, al termine dell’ultima inutile vittoria casalinga contro la Sampdoria. «Sono stato a Madrid, ad Abu Dhabi, sono stato ovunque, la cosa più bella è stata vedere i giocatori che non volevano abbandonare il campo e non volevano lasciare la propria tifoseria». Uno dei primi commenti sotto il video tiene a rimarcare questo concetto, a liberarlo dai lacci dell’iperbole o del paradosso, e aggiunge una prospettiva storica: «Ho 65 anni da interista e questa immagine dei giocatori sotto la curva è il più bel regalo che il calcio mi ha dato nella mia vita da sportivo… grazie ragazzi».

Il contesto in cui si sono avvicendate scene come quelle di San Siro è interessante da osservare a livello europeo: per tante piazze e tanti tifosi è stata la stagione dell’amore, un momento di grande riavvicinamento e di forte intimità nel rapporto tra pubblico, giocatori e società, un grande abbraccio collettivo che ci ha restituito anche solo visivamente la passione che continua ad alimentare il mondo del calcio e che di fatto lo tiene in vita.

E la stagione dell’Inter, come per immortalare questo periodo di dissoluzione di tensioni e conflitti, si è chiusa con i calciatori in campo che cantavano «siam la curva Nord Milano», un coro fortemente identitario, eppure fatto proprio ormai dall’intera tifoseria, sempre affezionata alle struggenti dichiarazioni d’amore («tu non sai quanto ti amo / tu sei il vanto di Milano… te l’ho promesso da bambino / per sempre ti starò vicino»). Il coro ha accompagnato l’Inter, nei momenti più luminosi e in quelli più bui, lungo tutta la stagione. La Curva Nord è rimasta dentro lo stadio per cantarlo anche al termine della sconfitta contro il Sassuolo, che per l’Inter è stata la terza sconfitta in casa nel giro di due settimane dopo quelle contro Milan e Liverpool, tre partite che hanno compromesso definitivamente la stagione ma non hanno spento l’amore tra tifosi e squadra.

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Dimarco, poi lo ha cantato al microfono a petto nudo sotto la Nord, dopo la finale di Coppa Italia vinta all’Olimpico, devastato dall’emozione.

Esattamente cinque anni fa, durante un’altra sconfitta casalinga contro il Sassuolo, la Curva Nord lasciava il settore deserto dopo venti minuti e faceva calare dall’alto sugli spalti un grande telo bianco sorretto dallo striscione: «Stagione 2016/2017: stendiamo un velo pietoso». Per capire quanto tempo sia passato, le uniche parole di sostegno sempre per mezzo di uno striscione venivano dedicate a Stefano Pioli, all’epoca allenatore dell’Inter, «unico interista in mezzo ad una squadra di indegni e una società di comparse». L’unico filo che lega quella stagione dell’Inter a questa stagione dell’Inter è l’angoscia verso il futuro (“l’unico filo”, del resto, è inesatto perché è la stessa anche la proprietà). Le persone che piangevano guardavano i giocatori che piangevano e tutti in questo intenso sguardo reciproco, tutti sembravano piangere tanto per lo smacco del secondo posto quanto per la possibilità che fosse l’ultima partita con la maglia dell’Inter per uno, due, potenzialmente tre dei titolari di quella squadra senza che fosse dato sapere chi e per quale destinazione.

L’Inter secondo le stime chiuderà il bilancio a giugno 2022 con 120 milioni di passivo, questo nonostante le cessioni di Lukaku e Hakimi, che quasi ci si trova a chiedersi, ma allora valeva la pena vendere Lukaku e Hakimi? In ogni caso l’Inter perde tantissimi soldi da anni e anche volendo ignorare il peculiare rapporto tra il governo cinese e la proprietà privata, sarebbe una situazione difficile per qualsiasi proprietà. Questo richiede, sempre secondo l’articolo di Repubblica, di incassare almeno 80 milioni dal mercato, un obiettivo che renderebbe inevitabile la cessione di almeno due giocatori importanti dell’undici titolare, dopo che già non è stato possibile rinnovare Perisic per motivi tutto sommato comprensibili di tetto salariale. Non è possibile godersi pienamente lo strazio di un campionato perso per un soffio con questo senso di vertigine, di terra che cade sotto i piedi.

Il punto più alto dell’Inter di Inzaghi è coinciso forse proprio con la vittoria contro la Lazio, un attimo prima del tracollo. Una partita di valore perché un po’ vendicava la sconfitta assurda della gara di andata, ma principalmente perché conteneva prima il gol del vantaggio di Bastoni, che si sistema con il sinistro una palla che spiove da calcio d’angolo e sempre di sinistro la infila nell’angolino, e poi il gol della vittoria, uno schema da palla inattiva con cui Sánchez prepara un cross di Bastoni a rientrare per la testa di Skriniar, che prende traversa e poi rete: una cosa bella da vedere, moderna, potente, appagante. Sono due anni che il momento migliore dell’Inter coincide con un assist meraviglioso di Bastoni, dopo quello per Barella contro la Juventus. Qui mi inserisco per dire che non capisco perché ogni volta che leggo La Gazzetta dello Sport trovo tra le righe un inciso sullo stile di questo che cito testualmente: «Si punta a rendere meno dolorosa possibile la cessione, quasi obbligata, di un big della rosa. Tradotto: venderne uno che non sia Lautaro». Oppure, cito ancora: «Considerando che si farà di tutto per evitare la cessione di Lautaro Martinez, ecco che la rosa dei candidati diventa strettissima».

Ovviamente sarebbe un peccato vedere Lautaro esplodere di gioia e di rabbia con un’altra maglia addosso, ma in queste riflessioni che immagino volte a tranquillizzare una fetta di pubblico giustamente in ansia durante questo periodo orrendo della stagione – che faremmo a cambio con mille scudetti persi – sembra grandemente sottovalutata la gigantesca tragedia che sarà perdere Bastoni. Prima ancora che la promessa di un difensore moderno, erede della grande tradizione italiana, Bastoni è una persona che ha detto – magari nell’ebbrezza dei vent’anni, però lo ha detto – «sono interista e per me sarebbe un sogno restare vent’anni in nerazzurro», e che dopo un gol vittoria contro il Parma ha baciato la maglia e ha detto «per me è un sogno essere qui».

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Un post condiviso da Alessandro Bastoni (@alessandrobastoni)

Anche lui sembra abbia la faccia triste per l’epilogo del campionato ma anche la faccia triste che serve a fare da corredo a questi pensieri tristi sulla sua partenza.

Bastoni sembra anche una persona interessante, o comunque che si diverte a giocare a calcio. A Dazn ha citato Steph Curry come idolo fuori dal calcio: «vederlo è il mio sogno, lui è quello che un po’ ha cambiato il basket, è quello che un po’ vorrei fare anche io nel mio ruolo perché il difensore in teoria difende e basta invece a me piace attaccare, propormi e andare in fase offensiva». Poi gli è stato chiesto di cantare una canzone di Blanco, e lui ha scelto Finché non mi seppelliscono specificando sottovoce quasi come una confessione: «La dedico anche un po’ all’Inter questa».

Scorrendo fbref.com, Bastoni è già nell’élite offensiva in Europa nel ruolo di difensore centrale in un buon numero di statistiche per 90 minuti, tra cui passaggi in area di rigore, azioni palla al piede in area di rigore, assist, curiosamente anche falli subiti e tunnel. Magari Marotta riuscirà a sostituire anche lui con un’altra intuizione, ma è particolarmente difficile trovare nel mondo un esemplare di difensore con i numeri di Bastoni, ed è particolarmente crudele che un tipo di difensore del genere non possa davvero vestire la maglia dell’Inter per i prossimi vent’anni. Bastoni è un giocatore generazionale, Lautaro no. Bastoni potrebbe giocare in qualsiasi grande squadra europea, Lautaro no. Fa quasi piacere, ma un piacere amaro e desolante, vederlo oggi conteso da Conte e Ten Hag, candidato a una maglia da titolare nel campionato più importante del mondo. E in questa miscela di piacere, amarezza e desolazione è racchiusa la dimensione attuale dell’Inter.

E in ogni caso, in queste sostituzioni uno ad uno che l’Inter pianifica meticolosamente, c’è sempre quell’elemento di stanchezza di fondo che si rivela nella scelta puntuale di giocatori del nostro campionato, per poter trattare con i dirigenti e i procuratori del nostro campionato. L’Inter di Marotta insegue con impareggiabile ossessione le scadenze di contratto della Juventus, della Roma, del Milan, dell’Atalanta, della Lazio, del Torino, e sembra ormai aver rinunciato completamente ai colpi a scatola chiusa, dal potenziale upside di Rafa Leão che diventa il miglior giocatore del campionato pur occupando un milione e mezzo del monte ingaggi. Colpi che l’Inter ha fatto fino a qualche anno fa ma che per qualche motivo non sente più nelle vene. Considerando i precari presupposti di stabilità e le premesse del mercato, è comunque un mezzo miracolo che la dirigenza e Simone Inzaghi abbiano mantenuto questa squadra competitiva.

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Come ci sentivamo, dodici mesi fa.

L’Inter è tornata agli ottavi di Champions, e l’ultima volta ci aveva giocato con Nagatomo, Poli e Forlán dal primo minuto, Obi che prendeva il posto di Sneijder. In fin dei conti è stata in testa al campionato soltanto per un mese e mezzo, capolista per otto giornate contro le ventuno in cui è stata davanti il Milan (escludendo per entrambe le prime due), però ha illuso di poter vincere lo scudetto fino alle ultime battute, ed è stata in grado di ritrovarsi nel momento peggiore, quando persino chiudere il campionato tra le prime tre sembrava in discussione. Ha trovato tanti punti di riferimento coi nervi saldi in mezzo al campo, da Skriniar a Brozovic a Perisic, e ha espresso la volontà di giocare appena possibile palla a terra, occupando in maniera fluida gli spazi per portare potenzialmente tutti i giocatori a concludere in porta. Ha vinto la Coppa Italia, battendo Roma, Milan e Juventus, con i due gol più belli della carriera interista di Lautaro Martínez firmati alle spalle di Maignan. È stato facile affezionarsi a questa squadra.

L’ultimo motivo per cui i tifosi hanno pianto salutando i giocatori è stato per puro e naturale atto di riconoscenza. Spesso, per combattere la paura del futuro, bisogna trovare il coraggio e l’onestà di guardarsi alle spalle. Io la scorsa estate avrò rivisto una cinquantina di volte un video su Calhanoglu ironicamente intitolato “goals and skills”, in cui il centrocampista turco sbagliava tutto quello che poteva sbagliare, inciampava sul pallone, si accontentava di passaggi pigri che restavano a metà strada e lanciavano la transizione avversaria. In quei minuti vedevo racchiuso il ridimensionamento dell’Inter, la pigrizia di fermarsi alle occasioni offerte dal nostro mercatino di quartiere, piuttosto che assecondare un progetto tecnico ambizioso. Era impossibile accettare che la stessa società che ci presentava soltanto 18 mesi prima Christian Eriksen in smoking sul palco del Teatro della Scala, potesse riproporci con altrettanto entusiasmo un giocatore che neanche i rivali del Milan avevano amato particolarmente, reduce da un Europeo imbarazzante.

Alla fine Calhanoglu si è inserito bene, si è dimostrato un centrocampista efficace anche nella sua nuova posizione da mezzala, capace di muovere velocemente la palla, di farla uscire dagli spazi stretti, di integrarsi bene sulla catena sinistra, sfruttando le porzioni di campo liberate dalle progressioni di Bastoni, Dimarco e Perisic. Protagonista suo malgrado della festa scudetto del Milan, lo è stato anche nelle due vittorie in campionato e Coppa Italia contro la Juventus, la prima dopo 7 punti in 7 partite e la minaccia concreta del sorpasso dei bianconeri, la seconda quando la Juve era chiusa a ridosso dell’area e la stagione sembrava incanalata verso la delusione più grande degli ultimi vent’anni. È un po’ lui, sempre suo malgrado, il simbolo di una stagione che è proprio come Calhanoglu, che alla fine è andata pure bene, che poteva andare peggio in mille modi differenti, e alla fine invece Inzaghi ha retto, la squadra ha retto, Brozovic e Barella hanno rinnovato.

All’Inter, è evidente, servirebbe qualcuno in grado di saltare l’uomo. La squadra di Inzaghi è diciannovesima su venti squadre per dribbling tentati p90 (12.4), un dato da pelle d’oca, superiore solo a quello della Sampdoria. E a dispetto del basso volume di tentativi, anche la percentuale di riuscita (54.0%) è la peggiore tra le top 5. Questa differenza sensibile rispetto al resto del campionato, per non dire rispetto alle migliori squadre d’Europa, sembra denunciare una mancanza di profili adatti piuttosto che una peculiarità dello stile di gioco, se pensiamo a quanto nei momenti più tesi e concitati della stagione, a Bologna, all’Olimpico contro la Juve, l’Inter sia continuamente sbattuta sulle difese avversarie pur trovando spesso opzioni in isolamento uno contro uno sulla fascia. Perdere Perisic aggrava ulteriormente la lacuna: la presenza del croato era benefica soprattutto per Dumfries, che invece rifiuta l’idea del dribbling, e ha bisogno di un giocatore sul lato opposto che porti su il pallone e attiri le difese. Non è chiaro se con Gosens l’incastro riuscirà così perfettamente.

Forse il gol più bello della stagione: lo segna Dumfries, ma è Perisic ad attirare Karsdorp a 70 metri dalla porta, toccare di prima verso Lautaro, e creare i presupposti per attaccare lo spazio.

In questo contesto un po’ sterile anche un giocatore limitato come Dimarco, però disposto a prendersi molte responsabilità con il pallone, a portarlo in avanti palla al piede, a rischiare il passaggio in verticale o il tiro dalla distanza, ha trovato molto spazio. Sembra paradossale parlare di sterilità per il miglior attacco del campionato con 84 gol fatti, ma in fondo nei quattro confronti di alto profilo contro Liverpool e Real Madrid, l’Inter ha segnato soltanto un gol e lo ha fatto grazie a un’intuizione lontana dalla porta di Lautaro. L’Inter non ha le individualità per vincere i duelli contro i migliori difensori del mondo, e anche in Italia questo diventa un problema quando la partita rallenta, le azioni diventano troppo ragionate, il pallone inizia a pesare, o ci si ritrova davanti un buon difensore in giornata come Theate.

L’Inter ha consapevolezza di questi limiti? Qualche indizio confortante arriva dal mercato dove la dirigenza sta provando ad aumentare le opzioni offensive. Mkhitaryan non è esattamente uno specialista dell’uno contro uno ma porterebbe in dote qualche conduzione palla al piede e qualche traccia di passaggio illuminante in più. Dybala sarebbe ovviamente un grande acquisto, un dieci in grado di colmare il vuoto creativo come pochi altri. Insomma l’Inter si sta muovendo nella direzione di migliorarsi – «Faremo un vertice di mercato con Inzaghi. C'è la volontà di mettere a fuoco la stagione, evidenziando le pochissime lacune emerse, sfruttando le opportunità», ha detto con tono rassicurante Marotta, pochi minuti dopo la fine del campionato. Quello che manca è un’idea di futuro. Se arriveranno davvero Bellanova e Asllani, rispettivamente un 2000 e un 2002, sarà uno scorcio di futuro interessante, per quanto sempre confinato agli orizzonti del nostro campionato.

Il ragazzo con i fori di proiettile nel costato incorniciati dal tatuaggio without hope without fear («senza speranza, senza paura») che ho visto ad Amsterdam e di cui vi parlavo all'inizio è un’opera di The Kid, artista contemporaneo impegnato nella denuncia delle violazioni dei diritti umani e delle disuguaglianze nei modelli socio-economici occidentali. Anche tifare Inter significa abituarsi all’idea di un futuro marcio, un futuro progettato male, un futuro “già vecchio” come recitava il titolo dell’esposizione, The future is old. Ogni volta che si vince è così, ogni volta che si perde è così, qualsiasi cosa sia successa appare sempre migliore del baratro in cui tutto sta per sprofondare e non c’è neanche il tempo di godersela, perché l’allenatore sta scappando, il centravanti ha mal di pancia, i giovani sono messi all’asta, la proprietà vuole vendere. Come un anno fa affrontiamo senza speranza, senza paura la stagione che viene, affidandoci all’estro di Marotta e alla pazienza di Inzaghi. Per essere contento, personalmente, mi basta solo che la fascia da capitano venga messa sul braccio di Skriniar, e di tornare a ricordarmi le date.

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