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Cosa spiega il crollo del Napoli di Conte
22 ott 2025
Una serata diventata nerissima per mille ragioni.
(articolo)
9 min
(copertina)
Foto IMAGO / Pro Shots
(copertina) Foto IMAGO / Pro Shots
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La differenza di rendimento delle squadre di Antonio Conte tra campionato e Champions League è uno dei fenomeni più inspiegabili del calcio europeo. Com’è possibile che un allenatore di questo calibro, capace di vincere campionati a ripetizione e di migliorare i giocatori come nessuno, varcati i confini domestici venga sepolto dai suoi stessi complessi?

Sono passati tredici anni dalla prima partecipazione di Antonio Conte alla Champions da allenatore. Era il 2012/13 e i quarti di finale raggiunti in quella edizione rimangono tutt’oggi il suo risultato migliore nel torneo.

Quando quest’estate, all’indomani dello scudetto, De Laurentiis aveva strappato il suo rinnovo, promettendogli di rinforzare la squadra con una campagna acquisti all’altezza, tutti pensavamo che l’obiettivo recondito di Conte fosse uno solo: non solo aprire un ciclo in campionato, ma affermarsi finalmente in Europa con una squadra che, proprio come lui, non aveva un grande curriculum nella massima manifestazione continentale. Era stato lui stesso, col sorriso, a sottolinearlo prima della trasferta contro il Manchester City: «In Champions League io e il Napoli abbiamo raggiunto entrambi i quarti di finale come massimo risultato, quindi siamo ancora più uniti».

Quattro settimane dopo, però, nulla sembra essere cambiato. E per Conte in Champions League è arrivata l’ennesima serata da incubo. Lo spartito, più o meno il solito. Anzi, stavolta il Napoli era persino passato in vantaggio. Poi, però, come spesso accade alle squadre di Conte in Champions, la squadra è rimasta preda di una certa rigidezza, ha subito il contesto della partita, ha incassato male ogni singolo episodio e infine è crollata. Stavolta in maniera più fragorosa, visto che mai una squadra di Conte aveva subito 6 gol.

Immancabile, poi, la classica intervista post-partita con lamentela sul mercato. Se ai tempi dell’Inter non si capiva se fossero Barella del Cagliari o Sensi del Sassuolo a dover portare esperienza, ieri sera invece il problema è che nove acquisti, «nove teste da inserire nello spogliatoio», sono troppi.

Senza entrare nel merito delle parole di Conte, che sono un genere letterario a parte, è evidente che uno sfogo del genere tradisca un nervosismo che deve avere a che fare per forza con i suoi precedenti in Champions, non solo con il mercato. Il Napoli di certo non vive il suo miglior momento nemmeno in Serie A, ma non era preventivabile una batosta del genere.

Come si spiega, allora, il fatto che una squadra di Conte si sia nuovamente sciolta al suono di quella famosa musichetta?

Trovare un’unica causa è impossibile, anche perché altrimenti Conte avrebbe risolto i suoi problemi con l’Europa già da un po’. Le motivazioni sono molte e questa partita in parte le riflette.

Un 6-2 determinato dalla differenza di tasso tecnico non avrebbe sorpreso nessuno, ma tra Napoli e PSV sappiamo che non è così, e anzi non solo il Napoli è la squadra più forte tra le due, ma quest’estate ha anche tolto al PSV il suo uomo migliore, Noa Lang (e oltre a lui Bosz ha perso l’altro cardine del suo gioco, Luuk de Jong).

Da un punto di vista razionale, allora, una prima causa la si può cercare nella tattica, in quei dilemmi tipici delle partite di Champions a cui Conte non riesce a trovare risposta.

Il PSV è una squadra estremamente intensa, che spesso fa della riaggressione il suo punto di forza. All’intensità, poi, accompagna un gioco rapido e associativo nell’ultimo terzo di campo. Non è una squadra che ama costruire con insistenza – anche se il ricorso ai lanci è stato mitigato dalla cessione di de Jong – ma quando porta la palla sulla trequarti sa trovare combinazioni davvero di pregevole fattura.

Il punto è che nell’ultimo terzo di campo il PSV ci arriva meglio se i ritmi sono alti. Il modo più facile per alzare i giri della partita, allora, è aggredire gli avversari, a qualsiasi altezza. Gli uomini offensivi di Bosz, nei trenta metri finali, possono tessere trame di alto livello tecnico, ma il possesso in quella zona ci può arrivare anche in maniera sporca, con pressing, riaggressioni e seconde palle.

Contro una squadra che prova a giocare in questo modo, le risposte possono essere due: o si accetta il contesto, provando a superarla per intensità. Oppure si prova a rispondere con una maggiore qualità tecnica, con un controllo migliore della palla. il Napoli avrebbe dovuto percorrere la seconda strada, forte del talento dei suoi uomini. Con la palla, però, ha poche idee su come fiaccare l’aggressività del PSV.

Anche quando i lanci, soprattutto quelli di Milinković, andavano a buon fine ed evitavano il pressing, messa a terra la palla il Napoli era troppo rigido. Di ricezioni interne con cui disordinare il PSV non ce ne sono state. Non rimaneva che girare largo ed eventualmente affidarsi ad un isolamento di Politano o Spinazzola, sperando che i loro cross portassero a qualcosa (come nel primo gol di McTominay).

Così il Napoli non ha potuto fare altro che subire il contesto, un po’ come era accaduto alla Juventus lo scorso anno. Sul piano dei duelli, il PSV è stato troppo più reattivo e preparato. A testimoniarlo il dato sul gioco aereo, dominato dagli olandesi con 18 duelli vinti contro i soli 8 del Napoli (in campionato A gli azzurri sono soliti vincerne 14,4 ogni 90; il PSV, invece, 14).

Casualmente, lo stesso identico dato sui controlli palla sbagliati: solo 8 quelli del PSV, ben 18 quelli del Napoli, a testimonianza di come la superiorità tecnica della squadra di Conte ieri sera sia rimasta solo teorica.

La tattica, però, non basta a giustificare un risultato del genere. Perché come tutte le squadre di Conte in Champions, a un certo punto, il Napoli è andato in panne anche dal punto di vista emotivo.

A differenza di quanto accade in Serie A, dove si cerca di ridurre gli eventi al minimo, le partite di Champions sono piene di potenziali punti di svolta, dove se la moneta dice testa devi saper portare l’inerzia dalla tua parte, e se invece dice croce devi saper incassare senza andare al tappeto. E il Napoli non ha saputo fare nessuna delle due cose.

Non ha saputo trarre benefici dal gol dello 0-1, visto che tra la rete di McTominay e il pareggio sono trascorsi quattro minuti in cui il Napoli si è abbassato e ha lasciato la palla al PSV. L’autogol di Buongiorno è arrivato in maniera sfortunata, certo, ma è stato il culmine di un’azione in cui il PSV ha tenuto palla per quasi due minuti di fila, dal minuto 32:34 a 34:15. In quel lasso di tempo, Mauro Junior aveva quasi lisciato un passaggio, situazione che avrebbe dovuto invitare il Napoli a recuperare palla, ma non c’era nessuno pronto ad aggredire.

Il passaggio di tallone di Mauro Junior.

Peraltro, è stata una costante di tutta la partita, il fatto di abbassarsi a copertura degli spazi solo in attesa che gli avversari perdessero palla, senza cercarne attivamente il recupero; a differenza di quanto accadeva invece al PSV, che anche quando si abbassava cercava di aggredire il portatore di palla per rubargliela o comunque rialzare il baricentro. Anche il gol del 4-1, arrivato per la verità quando il Napoli era già in 10 uomini, era stato frutto di un possesso di oltre due minuti del PSV, dal 77’:18’’ al 79’:20’’.

E non ha saputo reagire agli episodi sfavorevoli, per il modo in cui è uscito dalla partita dopo l’espulsione e anche per il modo in cui, ancora prima, aveva subito il 2-1, arrivato a pochi secondi dal pareggio. Una delle azioni in cui, su una catena laterale, il Napoli aveva perso il possesso dopo aver alzato sopra la linea della palla contemporaneamente ala, terzino e mezzala, lasciando i difensori e Gilmour come ultimi baluardi.

Nel caso del 2-1, poi, si potrebbe fare un discorso a parte sulla scelta di Buongiorno di provare a sfidare Til su chi arrivasse prima sulla palla, invece di accompagnare e rinculare. Til è una punta/trequartista di un metro e ottantacinque che di certo non fa della velocità e della conduzione la sua forza: perché non accompagnarlo in attesa che i compagni rientrassero? A Saibari non è sembrato vero di poter ricevere con una metà campo intera a disposizione.

Il momento in cui Buongiorno decide di correre in orizzontale verso la palla.

Sono attimi, scelte che si sono ritorte contro il Napoli. Più semplicemente, errori individuali – come l’appoggio sbagliato di Beukema che aveva fatto partire la transizione – su cui Conte dalla panchina non può avere controllo. Questi errori, però, sembrano derivare da una certa inquietudine che forse il tecnico salentino è solito trasmettere ai suoi in Champions League. Quella che, dieci anni fa, per dirla con le parole di Allegri, faceva diventare i giocatori della Juventus bianchi anche al cospetto del Malmö.

Non dipende totalmente da Conte, ma non può essere del tutto un caso che la partita sia stata segnata da una serie insolita di gravi responsabilità individuali: Buongiorno che si fa saltare come un birillo e Di Lorenzo che non si accorge dell’arrivo di Man sul terzo gol; Anguissa che, con un uomo in meno, salta in pressing sui difensori come se si giocasse ancora undici contro undici sul quarto gol. Anche la rabbia con cui Lucca si indica la testa nell’episodio tragicomico dell’espulsione: chissà se davvero Lucca voleva indicare un colpo di testa di qualcuno; di certo una mimica tanto accalorata non ha contribuito ad attrarsi le simpatie dell’arbitro.

Su un palcoscenico tanto esigente come la Champions un allenatore dovrebbe mettere a suo agio i propri uomini e Conte, che in campionato riesce a cavare risorse anche da chi non sembra averne, in Europa non sembra riuscirci.

Poi certo, dei limiti per questo livello il Napoli li ha oggettivamente, anche contro il PSV, e Conte davvero non può fare altro che osservare. Vanja Milinković-Savić, per esempio, poteva fare molto di più in almeno la metà dei gol subiti. Di Lorenzo, che sicuramente era troppo più stanco di Driouch che era appena entrato, si è rivelato molle e le sue avanzate in zone interne non sono più nemmeno così produttive.

In ogni caso, non è il momento di trarre conclusioni definitive.

Soprattutto, per il Napoli e per Conte non è il momento di farsi prendere dal panico, visto che ci sono tutti i presupposti per raddrizzare la situazione e continuare a sperare nella top-8. Il calendario degli azzurri in Champions League, da questo momento in poi, diventa piuttosto morbido: Eintracht e Qarabag in casa, Benfica e Copenaghen in trasferta. L’unica sfida in cui il Napoli non parte nettamente coi favori del pronostico, quella più insidiosa, arriverà a fine gennaio, quando al Maradona si presenterà il Chelsea. Una serata che a più di qualche tifoso evocherà un pizzico di malinconia, per quell’impresa sfiorata nel 2012, quando il Napoli in Europa era ancora un’outsider e, dopo il trionfo per 3-1 all’andata, trascinato da un meraviglioso Lavezzi, quasi eliminava il Chelsea poi vincitore del torneo.

Da allora il Napoli ha compiuto passi da gigante, e può permettersi di sfidare un club del calibro del Chelsea guardandolo negli occhi. Affinché quella sfida valga ancora per la qualificazione in top-8, però, il Napoli non dovrà sbagliare nelle altre partite. Le qualità per farlo le ha tutte. A patto che i suoi giocatori e il suo allenatore non si facciano seppellire dai complessi.

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