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Foto di ANNE-CHRISTINE POUJOULAT/AFP via Getty Images
Fondamentali Dario Saltari 19 agosto 2020 7'

È stata la vittoria di Tuchel

Il PSG si è dimostrata la squadra più organizzata in campo.

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Prima del fischio di inizio era difficile sapere con certezza cosa aspettarsi da Lispia-PSG. Tutte le narrazioni tradizionali attraverso cui leggere una partita, infatti, sembravano in questo caso fuorvianti.

 

Lipsia-PSG non era la sfida tra Davide e Golia. Certo, in campo il dislivello tecnico tra le due rose era evidente, ma se si prendeva in considerazione il contesto intorno ai due club allora diventavano quasi due facce della stessa medaglia. Da una parte la punta di diamante di un complicato sistema di squadre in Europa e nel mondo volto, semplificando all’estremo, a promuovere un energy drink. Dall’altra una squadra ricoperta di soldi da una piccola monarchia del Golfo per migliorare la sua immagine internazionale e perseguire, attraverso il cosiddetto soft power, la sua ambiziosa politica estera.

 

Per trovare una contrapposizione più netta bisognava prendere in considerazione le filosofie sportive dei due club, cioè alla sfida tra coltivazione del talento e acquisto a caro prezzo di stelle già affermate, ma, insomma, era davvero difficile guardare un progetto studiato a tavolino e ricco come il Lipsia e vederci un vero e proprio underdog. E d’altra parte, per quanto possa sembrare paradossale, nemmeno il PSG con tutte le sue delusioni europee poteva essere davvero considerata una superpotenza della competizione.

 

Persino i nomi delle due squadre non erano quello che sembravano, con il PSG che per motivi di marketing adesso si fa chiamare dalle grafiche della UEFA e dai telecronisti “Paris” (nonostante a Parigi una squadra che si chiama Paris esista già) e il Lipsia che da sempre gioca sull’ambiguità dell’acronimo RB – ufficialmente RasenBallsport ma per tutti ormai Red Bull. Insomma, Lipsia-PSG era, per così dire, una partita post-moderna.

 

Nemmeno tra i due allenatori si poteva costruire una narrazione che li mettesse davvero uno contro l’altro. Entrambi giovani, entrambi tedeschi, entrambi ex giocatori dalla carriera terminata prematuramente dagli infortuni, Nagelsmann e Tuchel prima della partita avevano entrambi rifiutato esplicitamente l’unica possibile narrazione esistente tra i due, e cioè quella della sfida tra l’allievo e il maestro. Nonostante il secondo fosse stato per un breve periodo allenatore del primo nella seconda squadra dell’Augsburg (per modo di dire, in realtà, dato che Nagelsmann era sempre infortunato), tutti e due hanno ridimensionato il loro rapporto. Tuchel dichiarando di aver consigliato a Nagelsmann di fare lo scout invece del calciatore (dando la spinta iniziale alla sua carriera da allenatore) solo perché il budget dell’Augsburg era così basso da non potersi permettere di avere un giocatore sempre fermo per infortunio. Nagelsmann affermando ancora più esplicitamente che Tuchel non è mai stato il suo mentore: «Non siamo mai stati particolarmente legati».

 

Nagelsmann contro Tuchel non era nemmeno una contrapposizione di principi, venendo entrambi dalla stessa scuola tattica. Dall’humus filosofico di Ralf Rangnick del “nuovo” calcio iper-aggressivo e iper-cinetico tedesco, del pressing, del gegenpressing, delle transizioni e della verticalità. Entrambi allenatori moderni e pragmatici, allergici a moduli preconfezionati e in grado di attingere con sapienza da ogni credo tattico, Nagelsmann e Tuchel sembrano diversi solo per l’immagine che danno all’esterno di se stessi: il primo empatico ed emotivo, il secondo freddo e ossessivo. Chi li ha vissuti da vicino, però, dice che anche questa differenza, in realtà, è meno reale di quanto non appaia.

 

Per trovare un’opposizione netta tra le due squadre bisognava allora restringere l’analisi davvero ai soli giocatori in campo dove le differenze si facevano molto più chiare. Solo così Lipsia-PSG poteva finalmente essere venduta come una sfida tra l’organizzazione e il talento. Come ha scritto efficacemente Eduardo Ustariz su Twitter: «[Neymar] è un inventore nell’era della meccanica». Non era solo Neymar, ovviamente. Il PSG, con Mbappé, Di Maria, Paredes e via dicendo, era la squadra di inventori, mentre il Lipsia quella della meccanica.

 

L’andamento della partita, però, ha distrutto anche questo facile schema. Bisogna dirlo subito, per togliere ogni equivoco: il PSG è stata la squadra con il miglior piano gara e la sua più efficace applicazione in campo. E se ha vinto così nettamente non è stato solo per la somma dell’incredibile talento dei suoi giocatori, ma soprattutto perché era la squadra meglio organizzata in campo. Al fischio finale quella di Tuchel non era solo la squadra degli inventori, ma anche quella della meccanica.

 

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Nell’ennesimo ribaltamento dei ruoli e delle nostre convinzioni che questa partita ci ha presentato, la squadra che ha puntato sul pressing alto e l’aggressività è stata il PSG. Nagelsmann senza palla ha disposto inizialmente la sua squadra su un 4-1-4-1 molto basso e passivo, almeno per gli standard del Lipsia, forse dando per persa in partenza la battaglia per la riconquista alta del pallone contro la qualità del rombo di costruzione del PSG, composto dai centrali Thiago Silva e Kimpembé, e dai mediani Marquinhos (formalmente schierato nel ruolo di regista) e Paredes (che si abbassava a fianco dei due centrali).

 

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Il problema, per il Lipsia, è che questo atteggiamento non pagava nemmeno quando c’era da schermare le linee di passaggio da questo rombo al centro della trequarti, dove Herrera e soprattutto Neymar hanno ricevuto liberi di girarsi e puntare la linea difensiva tedesca per poi rifinire per i tagli di Di Maria e Mbappé.

 

In 4 secondi il PSG ha due volte la possibilità di servire Neymar libero sulla trequarti. Ci pensa Paredes, con il passaggio più difficile. Il Lipsia non riesce né a pressare il possesso né a schermare la trequarti, mentre la difesa rimane bassa ad assorbire i tagli di Mbappé.

 

Se a fine primo tempo la percentuale del possesso palla segnava 68,4% contro 31,6% a favore della squadra di Tuchel, però, era soprattutto per la spregiudicatissima applicazione del pressing da parte del PSG che non ha quasi mai permesso al Lipsia di giocare il pallone in maniera pulita. La squadra francese portava i suoi tre attaccanti a uomo sui tre difensori di impostazione della squadra di Nagelsmann (cioè Mukiele, Upamecano e Klostermann) mentre uno tra Paredes e Herrera si occupavano di togliere aria al vertice alto del rombo Kampl (a volte entrambi, quando anche Sabitzer scendeva in mediana a provare a facilitare la risalita del pallone).

 

Sull’applicazione spregiudicata di questo schema, il PSG ha costruito diverse occasioni già prima del secondo gol di Di Maria che ha di fatto chiuso la partita. Per esempio il palo esterno di Neymar al sesto minuto, nato da una pressione alta su un fallo laterale. Oppure l’occasione da gol al 17esimo per Mbappé, a tu per tu con Gulacsi, nata dopo un primo controllo sbagliato da Kampl, pressato da Paredes.

 

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La squadra di Nagelsmann non è quasi mai riuscita a giocare un pallone pulito dalla difesa, almeno nel primo tempo, se si escludono le complicatissime linee di passaggio giocate da Upamecano verso Dani Olmo, che provava a muoversi alle spalle del centrocampo di Tuchel, completamente proteso alla riconquista del pallone in avanti. A fine primo tempo, le riconquiste del pallone nell’ultimo terzo di campo da parte del PSG erano state ben sei, contro le appena due del Lipsia. Dopo la prima frazione, il nome della Red Bull sarebbe stato meglio sulla squadra parigina che su quella tedesca.

 

Due esempi della traccia Upamecano-Olmo: uno andato a buon fine, uno intercettato da Paredes. Per tutto il primo tempo è stato l’unica, esigua, risorsa contro il dominio della squadra di Tuchel.

 

 

Il 2-0 di Di Maria è frutto di questo stesso contesto tattico. L’azione comincia da un fallo a centrocampo battuto indietro dal Lipsia, fino a Gulacsi. Il PSG fa salire immediatamente il pressing, in maniera così aggressiva che l’ala argentina dopo aver preso a uomo Klostermann si lancia direttamente sul portiere avversario.

 

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Gulacsi ha poco tempo per pensarci e tutte le linee di passaggio sono complicate. Alla fine opta per Sabitzer che è sceso sulla mediana fino a prendere il posto di Kampl. Il suo passaggio però, forse proprio per la pressione forsennata di Di Maria, esce lungo e la palla è facile preda di Paredes. Il centrocampista argentino vede l’inserimento di Neymar in area, tra i due centrali avversari, e lo serve con un diagonale preciso ma molto potente.

 

Controllarlo significherebbe finire sulla linea di fondo e allora il numero 10 fa una cosa che probabilmente solo lui può fare. Lo tocca verso il centro dell’area con una parte del piede che ancora non so identificare precisamente – forse il tacco, forse l’interno, forse la suola – che lascia di stucco Upamecano, come un prestigiatore che ti tira fuori una moneta da dietro l’orecchio. A quel punto per Di Maria, solo sul dischetto del rigore, mettere il pallone in rete è un gioco da ragazzi, come si dice.

 

È il gol che di fatto ha messo fine alla partita. Nel secondo tempo Nagelsmann ha provato a passare a un 3-5-2 più ortodosso inserendo Schick e Forsberg per aggiungere creatività e peso all’attacco, ma il Lipsia non è mai sembrato davvero in grado di rendersi pericoloso. In termini di Expected Goals, l’occasione migliore la squadra di Nagelsmann l’ha prodotta all’82esimo, con un tiro in area di Schick ribattuto da Thiago Silva quando il risultato era già sullo 0-3.

 

In una partita in cui nulla è ciò che sembrava, anche il gol decisivo di Di Maria lo si può leggere nei modi più diversi. C’è chi darà la colpa a Gulacsi, puntando il dito sulla differenza tecnica tra le due squadre (magari lamentandosi di questa maledetta moda della costruzione dal basso). C’è chi invece dirà che senza il tocco geniale di Neymar questo gol non sarebbe stato possibile, che il talento alla fine trionfa sempre, e che nel calcio il talento solo i più ricchi possono permetterselo. Io, per il ruolo che ho, non posso che dare il giusto merito a Tuchel, che ha puntato quelle che dovevano essere le armi di Nagelsmann contro Nagelsmann stesso, con una squadra a cui fino a qualche mese fa sembrava impossibile dare una vera idea di gioco.

 

In un tempo in cui anche il calcio sembra essere ormai svuotato del significato che eravamo abituati a dargli, possono essere tutti veri allo stesso modo.

 

 

Tags : neymarpsgtuchel

Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.

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