
A fine partita Leonardo e Nasser Al Khelaifi erano entrati nello spogliatoio degli arbitri e gli avevano urlato contro. Un dirigente del Real Madrid si era avvicinato a loro riprendendoli col telefonino, Al Khelaifi gli era andato contro a muso duro e gli aveva detto: «Ti ammazzo!».
Il Paris Saint Germain aveva subito l’ennesima rimonta della propria disgraziata storia europea, e manco a dirlo, dalla parte buona della rimonta, c’era il Real Madrid, che era sceso in campo con lo striscione dei tifosi “Somos Reyes d’Europa”. Al Khelaifi e Leonardo protestavano per il presunto fallo di Benzema su Donnarumma, ma avevano bisogno di sfogare in qualche modo quella frustrazione. Continuare a perdere in Europa nonostante la montagna di investimenti, e perdere sempre nel modo più sadico e pirotecnico possibile.
Nel 2017 la squadra era stata eliminata da un impensabile 6-1 del Barcellona dopo aver vinto 4-0 all’andata. Protagonista di quella rimonta era stato Neymar. In estate allora il PSG acquista Neymar, ma viene eliminato dal Real Madrid.
L’anno dopo il PSG si fa eliminare in modo impensabile dal Manchester United. Dopo aver vinto 2-0 a Old Trafford perde 3-1 ed esce per la regola dei gol in trasferta. Il terzo gol il Manchester United lo segna al 94’ su rigore.
Nella Champions del Covid riesce ad arrivare in finale, mettendo in campo il miglior Neymar di sempre. Perde in finale contro il Bayern Monaco del subentrato Hansi Flick. L’anno dopo viene eliminato ai quarti dal Manchester City.
Quello sbrocco di Al Khelaifi arriva alla coda di queste sconfitte, mentre in campo c’è anche Lionel Messi. Il PSG aveva vinto l’andata 1-0 e al ritorno era passato in vantaggio con un gol di Mbappé dopo quaranta minuti. Poi il Real Madrid aveva fatto la sua magia. Aveva segnato tre gol in un quarto d’ora, e con un’onda breve ma intensa, aveva ribaltato l’eliminatoria.
Il senso di questo percorso sembrava uno: il blasone non si compra. La Champions League, la coppa più aristocratica di tutte, rimane territorio dei club storici europei, che in quegli anni hanno continuato a battere il PSG facendola sentire una squadra parvenu. Imbucata a un circolo esclusivo a cui non può appartenere, pur versando tutte le quote associative necessarie. Il Manchester United, il Real Madrid, il Bayern Monaco sono squadre dell’alta aristocrazia. Due di loro hanno vinto la Coppa dei Campioni prima ancora che il Paris Saint Germain nascesse. E allora, con una comicità un po’ stracca da fratelli Vanzina, Al Khelaifi pestava i piedi capriccioso negli spogliatoi. Non ce l’avrebbe potuto fare, indipendentemente da quanti investimenti il suo fondo sovrano, la sua monarchia del golfo, gli avesse messo a disposizione. Per molti era una rassicurazione: certe cose nel calcio sono sacre, e i fallimenti del PSG ne erano la conferma.
Sabato sera, intorno alle 21, mentre Inter e Paris Saint Germain scendevano in campo, c’era di nuovo una sensazione simile. L’Inter ha vinto la Coppa dei Campioni nel 1965 e il PSG non era ancora nato, e così alcuni di noi coltivavano questo pensiero - del tutto mistico e irrazionale - che la storia non si compra. Che il peso storico dell’Inter sarebbe sceso in campo a fianco ai nerazzurri - nonostante quella maglia gialla di cattivo gusto - e avrebbe pesato più di tutto il resto.
Solo che tutto il resto era davvero tanto. La differenza di monte ingaggi, di budget di mercato, prezzo dei cartellini, talento in ogni reparto, qualità e quantità della rosa, momento di forma. Una differenza, soprattutto, di energie. Una squadra di undici giocatori che giocano in monopattino elettrico contro una di gente che sembra correre coi vestiti bagnati. Una differenza sintetizzata brutalmente dai cinque anni di differenza che si passavano gli undici titolari.
E così oggi è facile cambiare di segno alle nostre aspettative, derubricare a un’illusione il fatto che l’Inter potesse giocare una partita equilibrata - mentre in campo è apparsa nuda e indecente. In tutte queste settimane aveva in soffitto un ritratto che invecchiava al posto suo, e il gol di Hakimi arrivato dopo dieci minuti ha rotto questo incantesimo e ci siamo trovati di fronte una squadra invecchiata d’improvviso, orrenda, difficile da guardare.
Ogni giocatore si è ribaltato nella versione incubo di se stesso. Dimarco bolso e appesantito; Acerbi tutto arrugginito, sembrava fare rumore quando si muoveva; Barella e Calhanoglu così confusi che sembravano drogati; Mkhitaryan ridotto a una mascotte aziendale; Lautaro Martinez che sembrava il sosia di Lautaro Martinez. L’Inter voleva una finale lenta e cerebrale, che potesse prendere la forma della sua idea di calcio melliflua, strategica; invece il contesto è stato quello iper-accelerato del PSG, in cui come a FIFA si corre dritti, la struttura posizionale si rompe e si ricompone di continuo, e i talenti si associano tra loro a velocità fotoniche.
La differenza calcistica è stato il risultato della differenza economica tra i due club. Non solo ma soprattutto, diciamo. Il Paris Saint Germain ha il doppio dei ricavi e la metà del debito dell’Inter. Ogni anno Qatar Airways versa all’Inter un quarto di quanto versi al Paris Saint Germain. Per arrivare ad alzare questa coppa Nasser Al Khelaifi ha bruciato due miliardi di dollari solo in cartellini dei giocatori.
Certo, non esiste una perfetta proporzionalità tra investimenti e performance. Nel suo storico Soccereconomics Simon Kuper dice che uno dei parametri più importanti per misurare la competitività di una squadra è il suo monte ingaggi. E allora con Mbappé, Neymar e Messi a libro paga il PSG avrebbe dovuto vincere prima questa Champions League. E invece, per fortuna, le cose non sono così semplici. Solo nel momento in cui il PSG si è liberato dei propri campioni, come San Francesco si è liberato delle proprie vesti, ha vinto la coppa.
Amputando i propri rami dorati, l’albero del PSG è fiorito. E questa è una bella storia. Il PSG ci ha quasi fatto credere di essere diventato povero, e di essere cambiato. E questo è forse il più grande successo che può vantare la proprietà qatariota: averci fatto affezionare a questa squadra.
Fino almeno a due anni fa nessuno sopportava il PSG. Un po’ perché non è semplice dimenticare il regime repressivo da cui arrivano i suoi soldi; ma soprattutto perché i tifosi di calcio non sopportano gli arricchiti, per invidia (perché a loro sì e a me no?) ma anche perché è un calcio desacralizzato, quello in cui gli assegni comprano le coppe. Il PSG conteneva alcuni degli ego più ipertrofici del calcio di oggi. Mbappé, Neymar. Gente che non si passa la palla, che litiga fra loro per tirare un calcio di rigore, che offre un’immagine contraria a quello che dovrebbe essere una squadra di calcio. Il PSG era la squadra canaglia del calcio Europeo: una squadra edonista, coi suoi talenti strapagati e capricciosi, che giocano un calcio tecnico ma perdente.
Non era il massimo, per un’operazione di sportwashing, sostenere una squadra antipatica. Il cambio di rotta tecnica ha modificato anche la percezione del Paris Saint Germain.
La versione attuale è una squadra irresistibile da guardare. Veloce, fluida, tecnica, ricca di giocatori con un gusto unico per il calcio. Una squadra che ha trovato un equilibrio miracoloso tra individuo e collettività. Ogni giocatore del PSG si sacrifica fisicamente per i propri compagni, ma ha la massima libertà creativa per esprimersi come sente. Un miracolo, in un calcio in cui non sembrano esserci compromessi virtuosi tra la burocrazia della tattica e l’espressione della tecnica.
I giocatori del PSG corrono dritti, si associano in spazi stretti, inventano dribbling sconosciuti, segnano gol pazzeschi; e però pressano come matti, contrastano, recuperano, corrono all’indietro. Sembrano ovunque. La struttura è liquida e sembra potersi stringere e allargare a piacimento, il PSG è velocità pura, dribbling. È una squadra che nasce dalla rinuncia a due dei migliori dribblatori della storia - Messi e Neymar - per diventare una squadra fondata sul dribbling ancora di più; con ali che sgommano, centrocampisti che attraggono e scaricano, terzini che surfano in tutte le direzioni. Dietro lo striscione della tifoseria: “Insieme si vince”. Tutti dribblano, tutti difendono. Quello che ci entusiasma delle squadre è come riescono trovare l’equilibrio tra libertà e disciplina, tra elementi rigidi e liquidi, una forma di libertà controllata che permette alle individualità di giocare insieme e di formare un corpo unico ma al contempo ricco di singolarità. Una contraddizione tenuta insieme attraverso l’eccellenza del talento e del suo allenamento.
La gioventù non porta solo energie fresche, ma anche una narrazione vergine. Ciascun giocatore del PSG è una pagina bianca, che sta scrivendo la propria storia con i parigini, e che ormai assoceremo per sempre al PSG. E ogni calciatore ha uno stile unico.
Vitinha con l’aria precocemente invecchiata e gioco di brevi conduzioni a centrocampo. Kvara che sterza coi calzettoni abbassati e il capello spettinato; Desire Doué che tira fuori il petto mentre pettina la palla con la suola; Hakimi che è vicino a Donnarumma e un attimo dopo in area avversaria. La storia di riscatto di Ousmane Dembélé, che pressa da destra a sinistra con la facilità di chi è in motorino, e poi è letale in tutto quello che fa. Un giovane sciroccato diventato improvvisamente adulto.
Il tutto manovrato da un uomo intenso e romantico come Luis Enrique, che attraverso il suo carisma e la sua storia personale riesce a fargli dimenticare che rappresenta tutto ciò che il pubblico calcistico italiano in genere disprezza. L’autoritarismo tattico, un senso quasi esagerato del collettivo, l’uso dei giovani oltre al gioco spregiudicatamente offensivo.
Con Mbappé Luis Enrique non poteva controllare tutte le situazioni di gioco. «Il prossimo anno le controllerò tutte», ha detto in un delirio autocratico.
È impossibile non innamorarsi di questa squadra. Non solo perché è difficile non amare la grandezza, ma anche per la forma appassionante che ha preso. E talvolta ci dimentichiamo dell’immenso potere economico su cui è costruita. Sembra quasi una favola.
Il PSG è riuscito finalmente a comprare non solo il successo, ma anche una bella storia, e il nostro divertimento. Tutto è bene quel che finisce bene.