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Problema stadio
31 ago 2015
31 ago 2015
Numeri, spettatori, crisi, load factor, i veri driver, l'economia, i costi, la politica: tutto sul problema degli stadi di proprietà in Italia, e alcune possibili soluzioni.
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Negli ultimi anni, complice anche la perdita di competitività delle nostre squadre a livello europeo, il dibattito sulla crisi del nostro sistema calcio si è esteso alle possibili soluzioni per incrementare e diversificare i ricavi delle squadre. La nostra Serie A dimostra di essersi troppo concentrata sui proventi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi, che—per quanto in crescita costante—non consentono di poter fare un salto di qualità, proponendosi cioè sul mercato internazionale con una reale capacità di attrazione dei migliori talenti e, di conseguenza, con concrete possibilità di ottenere risultati sportivi significativi. La scorsa stagione europea ha lanciato alcuni segnali interessanti: i nostri club hanno raggiunto traguardi importanti sia in Champions League (dove la Juventus, contro tutti i pronostici, ha addirittura raggiunto la finale), sia in Europa League. È presto però per capire se si tratti di una rottura rispetto al più recente passato o e, invece, di una concomitanza di eventi favorevoli. Certamente la prematura eliminazione della Sampdoria, comporterà un danno al sistema Italia, nonostante l’Inghilterra (nostro diretto concorrente per recuperare posizioni nel ranking UEFA) abbia fatto registrare il passo falso del West Ham, anch’esso uscito dalla competizione. I freddi numeri Uno degli elementi che più di frequente emerge nella discussione è rappresentato dall’importanza di effettuare investimenti infrastrutturali sugli impianti di gioco. Gli stadi, che per alcuni campionati (Premier e Bundesliga su tutti) rappresentano un’importante fonte di reddito per i club, sono invece troppo spesso relegati a un ruolo residuale: osservando il dettaglio della voce “Ricavi da stadio” delle squadre che l’anno scorso erano in Serie A, lo scarso valore assoluto della voce “Stadio” emerge in tutta la sua evidenza, così come la variazione rispetto all’anno precedente.

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Numeri ancora più impietosi se si considera che la Juventus—il club che ottiene i maggiori ricavi da stadio in Italia—nel 2013/14 si è posizionata ben al di sotto della media della Premier League, che era di circa 55 mln di euro. Senza scomodare i mostri sacri inglesi, ovvero Manchester United (133 mln) e Arsenal (123 mln), parecchie altre squadre erano a distanza: Chelsea (87 mln), Liverpool (63 mln), City (59 mln) e persino il Tottenham (43 mln). La più “povera”, lo Stoke City, con i suoi 9,5 mln di euro sarebbe stata la settima in classifica in Serie A. Fra le 42 squadre che militano attualmente in Serie A e B, solo tre (Juventus, Sassuolo e Udinese) giocano nel loro stadio. La Roma ha appena iniziato l’iter per la costruzione del suo nuovo impianto. Tutti gli altri impianti sono di proprietà comunale e affittati alle squadre: età media elevata (63 anni per la Serie A, 54 per la Serie B), scarso utilizzo al di fuori delle domeniche dedicate al calcio, limitate strutture di servizio per il giorno di gara (solo dieci presentano aree commerciali, gli altri sono dotati solo di aree ristoro). FIGC e Lega di Serie A sono intervenute a più riprese nel dibattito, cercando di favorire e sponsorizzare un intervento legislativo che predisponesse le condizioni per l’avvio di un piano di investimenti sugli stadi. Le Lega di Serie B, invece, si è mossa in maniera più concreta, attivando il progetto “B Futura”. Spettatori italiani in calo Spesso si leggono analisi che tendono a mettere in relazione la vetustà dei nostri impianti con il calo costante degli spettatori e le scarse percentuali di riempimento degli impianti (in gergo chiamate “load factor”). In effetti la tendenza della Serie A non è incoraggiante: negli ultimi cinque anni si è passati da una media spettatori di 24.901 (stagione 2010/11) alla più recente media di 22.057 (stagione 2014/15): una diminuzione costante e inesorabile, che ci ha portato all’ultimo posto fra i Big-5.

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Va appena meglio in Serie B, dove il trend è in leggera crescita (complice anche la retrocessione di squadre “importanti” avvenuta negli ultimi anni), ma anche lì siamo al penultimo posto e, piuttosto, c’è da rimarcare la relativa poca distanza esistente fra i campionati cadetti inglese e tedesco e la nostra Serie A. “Load factor”, questo sconosciuto Al di là del numero assoluto di spettatori, nell’analisi degli stadi uno degli elementi più importanti è il load factor, ovverosia la percentuale di riempimento dell’impianto rispetto alla sua capienza effettiva. Come è facile immaginare l’obiettivo dei club è di avvicinarsi il più possibile alla saturazione dello stadio, per massimizzare i ricavi ottenibili durante la partita. Ma qual è la situazione in Serie A?

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Con la sola eccezione della Juventus, le altre squadre hanno percentuali di riempimento degli impianti contenute, con sette club che non arrivano al 50% degli spazi disponibili. Certamente va tenuto conto delle dimensioni di alcuni di questi stadi, ad esempio l’Olimpico di Roma o il Mezza a Milano, tuttavia il dato fa riflettere e forse spiega, in parte, la scelta della Juventus di orientarsi su una struttura di “soli” 41.000 posti a sedere. Nuovi impianti, si sostiene, consentirebbero di recuperare abbonati e tifosi occasionali. Per sostenere questa tesi si portano ad esempio gli spettatori medi e le percentuali di riempimento (chiamate anche “load factor”) della Premier League e della Bundesliga. La Premier ha una media di 31.115 spettatori a partita. Vince su tutti il Manchester United (75.335, load factor del 99,1%), l’Arsenal 59.992 (99,4%), il Newcastle 50.359. Le tre squadre in fondo alla classifica delle presenze medie si sono comunque avvicinate o hanno toccato le 20mila presenze medie, ma con un load factor elevato (Swansea al 99,1%, Burnley al 84,3%, QPR al 96,6%). La Bundesliga, come visto, detiene il record assoluto a livello europeo, dall’alto dei suoi 41.362 spettatori. Ma non basta: il Borussia Dortmund, con i suoi oltre 80mila tifosi a partita, è il club con la media di presente più alta a livello UEFA, lasciandosi alle spalle club ben più grandi come il Real Madrid, il Barça, il Manchester United e lo stesso Bayern Monaco. Quest’ultimo, tuttavia, da tre anni a questa parte fa registrare il tutto esaurito già verso la fine dell’estate: senza abbonamento, l’unico modo di poter assistere a una partita è quello di recuperare un biglietto da qualche sponsor del club, o farsi invitare negli sky box. I veri driver? La gente ha voglia di comodità e sicurezza, che i nostri stadi spesso non riescono a offrire, ed è—si dice—per questo che la partecipazione diretta all’evento sportivo è in calo. Non ho elementi diretti per confutare questa equazione, che certamente è una delle spiegazioni alla riduzione di presenze della nostra Serie A. Ritengo tuttavia che non sia la principale o che, comunque, sia quanto meno al livello di un’altra—spesso ignorata—che discende nuovamente dalla gestione dei diritti televisivi introdotta nella nostra Serie A: l’offerta televisiva italiana comprende la totalità delle partite del nostro campionato e il tifoso, che nel tempo è stato oggetto di una progressiva “militarizzazione” della domenica calcistica (solo 10 anni fa era possibile comprare il biglietto direttamente allo stadio, ai botteghini, anche 5 minuti prima della partita; oggi fra tessera del tifoso, biglietti nominativi, prefiltraggi, perquisizioni e tornelli andare allo stadio la domenica presuppone una scelta spesso programmata qualche giorno prima) può vedere l’evento comodamente a casa, per una cifra decisamente più contenuta, senza doversi preoccupare del contorno burocratico. Assistere dal vivo alla partita è molto diverso dal vederla in televisione, dove, pur fra le comodità di riprese e replay, non si vive lo stesso pathos. Però la comodità è un brutto “vizio” e alla lunga incide. Non è un caso, in questo senso, che il campionato che ottiene contemporaneamente il valore più alto dei diritti televisivi e le percentuali di riempimento maggiori degli impianti sia la Premier League che, da sempre, ha deciso di rendere visibili solo una quota contenuta delle partite in televisione. In altre parole, anche se io sono tifoso di una “grande”, se voglio essere certo di vedere tutte le partite in casa devo dotarmi di abbonamento annuale o comunque essere pronto ad acquistare i biglietti per circa il 50% dei match. Forse conta più questo effetto della comodità del posto in cui vado a sedermi?

Vi è poi l’approccio culturale alla gestione dello stadio. Il tifoso che assiste a un match all’estero è considerato un cliente e come tale viene trattato. Le regole ci sono e vengono applicate in maniera forse più draconiana, ma chi ha pagato il biglietto non è trattato come un “potenziale rischio da tenere sotto controllo”, quanto come un cliente da coccolare (e, ovviamente, spennare). La dimostrazione forse più lampante di questo atteggiamento si riscontra nella gestione dell’ordine pubblico: in Inghilterra esiste uno Stadium Manager che ha il compito di garantire la sicurezza e il rispetto delle regole all’interno dell’impianto. Le forze di polizia sono messe a disposizione (a pagamento) dallo Stato, ma la strategia complessiva di gestione dell’evento è lasciata al soggetto privato e non alla forza di pubblica sicurezza. Una prospettiva completamente diversa rispetto alla nostra. Fatte queste doverose riflessioni, nessuno contesta che un impianto più moderno e accogliente sia gradito anche al tifoso italiano. Spesso si cita il caso dello Juventus Stadium—per ora unico in Italia—per confermare questa tesi ma, anche qui, la visuale è più complessa, perché non è detto che lo stadio nuovo comporti automaticamente un aumento del load factor. Il caso della Juventus è molto particolare e, nonostante porti esattamente a questo risultato, non può essere portato a modello per la Serie A. Questo perché la società ha innanzitutto scelto un dimensionamento tutto sommato contenuto dell’impianto (41mila posti) ma, soprattutto, per la natura della tifoseria bianconera: gestendo in maniera opportuna la quota riservata agli abbonati (cresciuta fra il 2011 e il 2015 dagli iniziali 24.531 agli attuali 26.964) la Juventus ha applicato una precisa strategia di marketing, contando anche sulla diffusione geografica dei propri tifosi. È sufficiente che ciascuno degli Juventus Club italiani (e stranieri) organizzi anche solo una partecipazione annuale a una partita per garantire un sostanziale sold out dello stadio, al di là della quota di partecipazione del bacino di utenza regionale. Va da sé che questa particolare capacità di attrazione non è facilmente replicabile: forse in Italia solo Inter, Milan e Napoli potrebbero pensare di adottare una strategia simile, proprio perché hanno una tifoseria diffusa ben al di là dei confini geografici della propria regione. Purtroppo a oggi non abbiamo altri riscontri oggettivi dal mercato italiano. Il caso del Sassuolo, che dal 2013 gioca nel Mapei Stadium, è poco significativo, stante la dimensione per il momento contenuta del seguito della squadra emiliana (una media di 12.831 spettatori, a fronte di una capienza di 23.717, con un load factor del 54,15%). Nel corso di questa stagione, ma più facilmente della prossima, avremo invece la possibilità di toccare con mano la validità dell’equazione “stadio nuovo = incremento tifosi”, perché entrerà in funzione il nuovo impianto dell’Udinese (completamente ristrutturato rispetto al precedente Stadio Friuli) ed emergerà in maniera chiara l’impatto positivo che può avere un nuovo impianto su una squadra “media” della Serie A. Un secondo aspetto da non sottovalutare nel dibattito è la ricaduta economica della costruzione di un nuovo impianto sui tifosi.

Uno stadio ha un costo di realizzazione che oscilla intorno ai 3/4mila euro a seduta (la ristrutturazione di solito costa la metà): sono soldi che devono essere recuperati, perché vanno a incidere sul conto economico del club. Le fonti di copertura sono sostanzialmente tre: l’autofinanziamento (tramite l’utilizzo di surplus economici e finanziari prodotti dalla società, ovvero attraverso le famose operazioni immobiliari “accessorie”); l’incremento dei ricavi di natura commerciale (dalla vendita dei naming rights dell’impianto, all’aumento della capacità di generare ricavi attraverso un valore del “brand” rafforzato dalla presenza dello stadio); la politica dei prezzi per abbonamenti e biglietteria, oltre all’offerta di servizi interni alla gara. Il prezzo per i tifosi Se la letteratura sui primi due casi è abbastanza dettagliata, il terzo aspetto—ovverosia l’incremento di costo diretto del nuovo stadio sul tifoso—viene spesso sottaciuto. Eppure non è di poco conto: secondo ricerche internazionali basate su mercati diversi (sia geograficamente, sia per tipo di sport) la crescita media del costo del biglietto o dell’abbonamento susseguente all’apertura di un nuovo impianto è del 40%. In Italia abbiamo solo un caso sul quale possiamo effettuare la verifica, lo Juventus Stadium, e il dato è confermato alla virgola: ci sono voluti due anni, ma il costo medio degli abbonamenti per la stagione dei bianconeri è cresciuto in media da 387 a 659 euro (+70,2%) grazie anche all’introduzione di una quota importante di aree “premium”. Depurando l’analisi da queste e concentrandoci sugli abbonamenti cosiddetti “popolari”, notiamo però che le curve sono passate dai 265 euro della stagione 2010/11 ai 390 euro della stagione 2012/13 (+41,8%), mentre l’offerta “Family” dai 390 euro del 2010/11 ai 575 euro del 2012/13 (+43,8%). L’analisi sul solo Juventus Stadium, per quanto perfettamente in linea con gli altri esempi internazionali, non è sufficiente a certificare che anche il mercato italiano si muoverà in tal senso. Gli altri due esempi disponibili (Sassuolo e Udinese) non sono allo stato attuale ancora utilizzabili per questo tipo di verifiche. Tuttavia il dato è interessante e deve far riflettere perché, nuovamente, comporta una variazione anche culturale della presenza del tifoso allo stadio, che vede progressivamente venire meno la componente “popolare” in favore di una tipologia di spettatori con capacità di spesa maggiore. D’altra parte non è un caso che in Inghilterra questa selezione a monte sia stata una scelta strategica precisa, presa nell’ambito delle iniziative per ridurre il fenomeno della violenza negli stadi. Lo stadio moderno nel dibattito politico Lo stadio cosiddetto moderno, che secondo lo slogan ormai abusato “vive 7 giorni su 7”, è stato identificato come elemento fondamentale (per taluni imprescindibile) per la crescita dei nostri club. Osservazione corretta, che va però inquadrata nel contesto della nostra realtà nazionale. La prima volta che il dibattito ha preso seriamente forma è stato nell’ormai lontano novembre 2008, quando l’Italia stava predisponendo la propria candidatura per Euro 2016: in quel periodo, stante la necessità di predisporre un dossier e considerando lo status degli impianti allora disponibili (ricordiamoci che lo Juventus Stadium apre nel settembre 2011) quasi tutti gli stakeholder del calcio premevano per un intervento del governo che consentisse di “stimolare” un completo rinnovamento degli impianti esistenti. Uno dei punti deboli che hanno ritardato alcune delle iniziative sta proprio nella difforme definizione del concetto di “stimolare”: se in altri Paesi questo si traduce essenzialmente in interventi legislativi volti a semplificare l’iter burocratico che devono essere rispettati per giungere dal progetto alla realizzazione dell’impianto, in Italia le cose erano leggermente diverse.

Quello che interessava ai promotori dei progetti non era solo la semplificazione burocratica, problema vero se si guarda alla realtà italiana. In realtà la battaglia (iniziata nel 2009 e terminata nel dicembre 2013) era tutta spostata sulla volontà di ottenere dei benefici particolari per chi si fosse lanciato in tali iniziative. Alzi la mano chi, in quel periodo, ha visto circolare dei progetti di nuovi impianti dove la componente accessoria (centri commerciali, residenziale, ecc.) fosse realmente accessoria e non, invece, il vero business centrale: lo stadio diventava quindi il “cavallo di Troia” per poter estendere i benefici burocratici e normativi a iniziative immobiliari che nulla avevano a che vedere con il progetto sportivo. Chiariamo subito: costruire o ristrutturare uno stadio ha un costo, talvolta anche rilevante. È quindi del tutto legittimo che i presidenti cerchino delle forme di finanziamento indiretto (le operazioni immobiliari “accessorie”) per poter realizzare l’investimento senza dissanguare le casse sociali o dover intervenire con iniezioni di capitale. Il problema sorge quando questo approccio non è chiaramente esposto e la quantità (e qualità) delle deroghe richieste è tale da rappresentare un rischio di vere e proprie speculazioni, come stava per accadere il 23 febbraio 2011: in quello che, ex post, può essere considerato un vero e proprio tentativo di blitz, il Comitato Ristretto presentò alla Commissione della Camera dei Deputati un nuovo testo della “Legge sugli Stadi”, che conteneva significative modifiche rispetto a quello sul quale si era precedentemente raggiunto un consenso fra le forze politiche. Nella definizione dell’impianto sportivo, era stata eliminata l’ultima frase, che nell’estendere il concetto di “impianto” alla parte non sportiva («ed altri locali destinati ad attività di ristoro, di ricreazione e di commercio e relative pertinenze») aveva espunto la frase di chiusura: «nel rispetto della normativa urbanistica vigente». Non bastando questo, il comma c), che definisce i “complessi multifunzionali”, oltre a non contenere più il riferimento esplicito al rispetto della normativa urbanistica vigente, prevedeva una piccola ma determinante aggiunta, nella parte in cui specificava che «ogni altro insediamento edilizio ritenuto necessario ed inscindibile dal Comune ai fini del complessivo equilibrio economico e finanziario della costruzione e gestione del complesso multifunzionale medesimo» avrebbe potuto essere anche non contiguo. Ma la modifica che aveva scatenato le maggiori reazioni, era quella riferita alle aree oggetto dei nuovi insediamenti: nel definire la procedura incredibilmente si era voluto cancellare ogni riferimento alla salvaguardia della «normativa vigente in materia di vincoli storico-artistico-architettonici, archeologici e idrogeologici». Alla fine i testi furono rigettati, la Legislatura terminò senza alcuna approvazione. Quella che attualmente viene chiamata “Legge sugli Stadi” è in realtà un emendamento contenuto nella Legge di Stabilità del 2013. Nonostante sia una modalità quanto meno poco usuale, la normativa è interessante: introduce una serie di alleggerimenti dei vincoli burocratici e definisce tempi e modi del percorso di approvazione. Quello che veniva identificato—correttamente—come uno dei maggiori ostacoli alla possibilità che un privato iniziasse un percorso di investimento, è stato quindi rimosso. Non a caso da allora ci sono due progetti che si stanno ufficialmente muovendo nell’alveo di questa nuova situazione: la proposta della Roma (già a uno stadio avanzato) e quella della Fiorentina.

Il nuovo stadio della Roma.

Eppur si muove Nonostante queste premesse apparentemente poco edificanti, parrebbe che qualcosa si stia muovendo. Negli ultimi mesi abbiamo ad esempio assistito a dichiarazioni di interesse da parte di Inter e Milan, con la prima che potrebbe rimanere al Meazza e la seconda che sta ancora negoziando un possibile insediamento nell’area del Portello: si tratterebbe di due importanti investimenti, che potrebbero riqualificare in maniera interessante l’offerta, rendendo più remunerative le cosiddette matchday revenue. Anche la Fiorentina, come abbiamo già accennato, è in movimento: dopo anni di discussioni (iniziate quando l’attuale Presidente del Consiglio era ancora Sindaco) e interventi sull’attuale stadio, i Della Valle sembrerebbero aver imboccato la strada che porterà alla presentazione di un progetto di investimento da sottoporre alle Autorità entro la fine del 2015. Sono stati fatti parecchi passi formali e un primo studio di fattibilità ha già superato il vaglio del Comune, che però ha richiesto di apportare una serie di varianti. Il Napoli, dal canto suo, prosegue la sua battaglia con il Comune. Dopo un periodo di apparenti tensioni, in cui addirittura si era giunti alla minaccia da parte del club di “emigrare” al di fuori del territorio comunale, negli ultimi due mesi De Laurentis e de Magistris sembrerebbero aver trovato una sorta di accordo per consentire al Napoli di effettuare degli investimenti sul San Paolo in modo da riqualificarlo e migliorarne la reddittività: il prossimo passo dovrebbe essere la presentazione di uno studio di fattibilità da parte del club partenopeo, allo scopo di attivare le procedure agevolative previste dalla normativa vigente. Non ci sono solo le grandi. Anche le altre società di Serie A (e, grazie anche al supporto del progetto “B Futura”, alcune squadre di Serie B) si stanno muovendo. Atalanta, Bologna ed Empoli hanno già varato e in parte realizzato delle opere di miglioramento degli stadi, primo passo per procedere a una progressiva riqualificazione degli impianti. Genoa e Sampdoria sembrano finalmente orientate a seguire l’esempio milanese e subentrare direttamente nella gestione del “Luigi Ferraris”: se il manto erboso non dovrebbe più essere un problema dopo l’intervento strutturale di quest’estate, lo stadio è stato lasciato troppo tempo senza interventi di manutenzione ed è venuto il momento di intervenire, ragionevolmente con la politica dei piccoli passi. Il tema vero è che lo stadio può diventare una fonte di ricavo importante, ma il modello di intervento non può essere lo stesso per tutte le squadre né è possibile importare bellamente gli esempi esteri senza tenere conto delle specificità del nostro sistema calcio e della nostra cultura sportiva.

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