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Innamorati di Jonathan Calleri
19 gen 2016
19 gen 2016
Abbiamo aggiunto ai nostri giocatori Preferiti il giovane attaccante argentino.
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12 min
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La nostra rubrica Preferiti è realizzata grazie alla collaborazione con Wyscout, il database calcistico che ci permette di visionare giocatori di tutti i livelli, di tutte le età e di tutto il mondo.

Ammesso e non concesso che esista una maniera migliore di un'altra di porsi di fronte a un anatema, il modo in cui Jonathan Calleri si è raffrontato alla riquelmísima promulgazione emanata da Román al momento del suo addio al Boca è probabilmente il comportamento che - nonostante questo ragazzo nato nel quartiere di Floresta, a Buenos Aires, abbia poco più di vent’anni - più d’ogni altro si situa all’esatto crocevia tra buon senso, umiltà, aderenza alla realtà. E non è facile tenere i piedi per terra quando hai vent’anni e giochi per una delle squadre più famose e affascinanti del mondo, più titolate del Sudamerica, più importanti d’Argentina. Non è facile, soprattutto, farlo immerso in quel tipo di contesto, destabilizzante per forza (auto)celebrativa e totalizzante in termini esperienziali.

Subito dopo aver firmato per l’Argentinos Juniors, recidendo incontrovertibilmente il cordone ombelicale con gli xéneizes, Riquelme ha detto: «La dieci del Boca è mia. Poi il giorno in cui qualcuno vincerà tre Libertadores, allora sarà la sua».

La prima delle maglie a due cifre degli auriazul sembra fatta di un tessuto diverso rispetto alle altre: più pesante, soffocante. L’hanno indossata Maradona e Riquelme, le due facce della fantasia (e della scostanza) dell’ultimo trentennio di fútbol argentino, e per caricarsene sulle spalle il giogo bisogna essere molto sicuri di sé, come Lodeiro; molto incoscienti, come Luciano Acosta; oppure molto umili, come Calleri.

Oggi Jonathan tiene appesa in casa, come un cimelio, la maglia che indossava il giorno in cui a Montevideo segnò la sua prima rete importante del periodo boquense. Quella che ha convinto Carlos Bianchi a puntare su di lui già poche settimane dopo il suo arrivo, un po’ in sordina, dagli All Boys.

Una maglia che nessuno aveva ancora avuto il coraggio - o semplicemente l’opportunità - di indossare dall’addio alla Bombonera di Riquelme.

Gago finta il centro, ma allarga per Federico Carrizo, che crossa per la conclusione al volo, da nove ma con la dieci, di Jonathan.

Come sarebbe, di preciso, il nove del Boca?

Jony, come lo chiamano i suoi genitori, non somiglia per niente allo stereotipo del Centravanti-del-Boca-Juniors, forse un po’ troppo plasmato, nell’immaginario collettivo, sui tratti spigolosi di Martín Palermo.

A volerci spingere oltre, Calleri non solo non ricorda per niente El optimista del gol, ma neppure Osvaldo, Santiago Silva, Darío Cvitanich, Antonio Barijho o Lucas Viatri, vale a dire nessuno dei nueve che, con diverse fortune, meriti e demeriti, si sono alternati negli ultimi due lustri di storia gialloblu: rappresenta una variante del ruolo, per rubare un termine alla gastronomia più en vogue, destrutturata. Un po’ come le due cifre che ha scelto di indossare, il 2 e il 7; la cui somma, però, alla fine della fiera, ci restituisce sempre un nove.

Osservandolo giocare, la caratteristica che più colpisce è la forte associatività dei suoi movimenti: perfettamente a suo agio nell’evoluzione del ruolo di centravanti richiesta dal calcio moderno, preferisce partire dalla trequarti di campo, quasi come fosse un enganche (sebbene in questa intervista sembra quasi provare un sentimento di sincero imbarazzo, quasi soggezione, nel definirsi enganche), dialogando stretto con i compagni, senza mai abbandonarsi al solipsismo.

Nelle sue giocate cerca più l’eleganza che l’efficacia. Il che non significa che non partecipi alla fase di recupero palla, che non faccia a sportellate con i difensori, che non si sacrifichi per la squadra, nient’affatto: soltanto, il suo stile di gioco sembra trarre linfa vitale, in buona sostanza, dalla clorofilla della tecnica. Del centrattacco non ha il fiuto: rispetto a un giocatore come Gigliotti - più rapace, più bomber -, il suo partner offensivo nella prima stagione al Boca, non è alternativo, ma complementare.

Il risultato è che nessuna delle sue reti, all’occhio dell’osservatore, finisce per risultare facile. Le reti facili le fanno i centravanti facili da interpretare.

Di cosa parliamo quando parliamo di reti "complesse"? Di questa summa di genio e concretezza: caparbia fuga sulla fascia, la palla strappata coi denti all’oblio del fallo laterale, come un ottimo laterale d’attacco; ma anche conclusione stilosa, da "dieci", con un pallonetto accarezzato che solo le strane correnti d’aria che spirano dal porto sul barrio de la Boca potevano far salire e scendere con quella rapidità.¡Viva el fútbol!

Rubare la scena

Se fosse davvero possibile individuare, con precisione, la data di esplosione di un calciatore, quella di Calleri con buona probabilità andrebbe ricercata nella settimana tra il 13 e il 20 luglio 2015.

Dopo aver resistito, per un semestre, alla concorrenza di Pablo Osvaldo fino a rubargli il posto nell’undici di partenza, la sua squadra riporta a casa Carlitos Tévez: Jonathan non ha paura di perdere il posto, né è intimorito dal dover coabitare con l’ "Apache".

«Io i migliori preferisco sempre averceli davanti, al massimo di lato. Non dietro. Per poter apprendere, da loro».

L’esordio di Tévez è fissato per la gara alla Bombonera contro il Quilmes. Cioè la partita in cui Calleri decide di inventarsi qualcosa di così delizioso, assurdo e vintage al contempo che avrebbe rubato la scena a chiunque, anche a Maradona, se quel giorno fosse stato Diego a tornare a vestire i colori azul y oro.

Non che Diego sia uno con l’asticella del sensazionalismo piazzata troppo in alto, intendiamoci. Ma che soddisfazione può essere, per un calciatore, vedere in tribuna, in lontananza, quel puntino così piccolo e così luminescente che scuote la mano in un gesto d’incredulità, e realizzare che si tratta del più forte calciatore della storia del tuo Paese, e che sta parlando di te?

Gesti d’approvazione, ovviamente, tutti meritati:

«Il fatto è che mi manca il sinistro», ha detto subito dopo, per sminuirsi un po’, o forse per un moto di vera umiltà, Calleri: «E siccome mi manca il sinistro mi sono dovuto inventare qualcosa per calciare sempre di destro dopo il primo tiro, brutto e del tutto sbagliato». Tévez, intanto, era tutto libero al centro dell’area: Calleri vuole dimostrare, però, chi è il 9 del Boca.

Lo rivediamo ancora una volta? Vi va? Come se fossimo in curva, ora.

No, perché vederlo ripreso dalle gradinate de La Doce, più che nella canonica visuale televisiva, questo gol ti restituisce la misura di quanto possa essere sba-lor-di-ti-vo trovarsi a vivere la storicità di un gol pazzesco come questo dal vivo, e non seduto sul divano di casa. Essere là ti priva delle gioie spicciole del momento, certo: non ci sono replay, in curva. Ma la sensazione di elitarietà di esserci stato ti rimarrà per sempre appiccicata addosso: avrai, come si dice, qualcosa di meraviglioso da raccontare ai tuoi bambini.

Col senno di poi si può tranquillamente riconoscere che dell’arrivo di Tévez, capace di conferire al Boca quell’aria di pericolosità latente che aveva perso negli ultimi anni, il primo beneficiario sia stato proprio Calleri.

«Forse nello schema precedente ero io a dover lottare di più, perché dovevo pivotear (un bel verbo che affonda le mani nel lessico del calcio a cinque, dove il pivot deve difendere palla e smistarla per i laterali accorrenti, NdA) per gli estremi. C’erano partite in cui non riuscivo a tirare in porta neppure una volta in novanta minuti, volevo morire. Oggi è Carlitos che deve lottare coi difensori, spostarli, disturbarli».

Una libertà relativa che gli ha permesso di segnare 13 gol in 30 partite; ma anche un affiatamento che l’ha messo nelle condizioni di servire 8 assist all’ "Apache".

Un esempio della caparbietà ai limiti della testardaggine di Calleri, ma anche del fatto che non ponga limiti alla sua fantasia, né alla sua determinazione: chi altri avrebbe puntato in maniera così seria il portiere avversario, il fuoco negli occhi, per indurlo in errore?

La differenza la fa la testa

Calleri è arrivato al Boca dall’All Boys (squadra peraltro nella quale si è formato Carlos Martínez, prima che diventasse Carlos Tévez), uno dei club minori di Baires, dove ha trascorso 14 anni di vita calcistica. Negli anni ’80 e ’90 ci hanno giocato anche il padre Guillermo e lo zio materno, Néstor Fabbri, roccioso difensore che fu parte della Selección ai Mondiali di Italia ’90.

L’All Boys era la sua famiglia e la sua famiglia era una buona fetta dell’All Boys: Néstor Fabbri, i Calleri e un amico di Jonathan con un’improbabile maglia glam del Boca in modalità calcetto.

Il padre, per anni responsabile tecnico delle giovanili dell’All Boys, è stato il suo primo allenatore, anche se lo faceva giocare poco. «Come fai a non metterlo in campo? È tuo figlio», lo spronava la moglie. Per buona parte della carriera giovanile, Jonathan è stato una riserva. E non sempre, quando scendeva in campo, riusciva a mantenersi lucido: a quindici anni con una pallonata ha colpito volontariamente l’arbitro, si è beccato sei mesi di squalifica. In quel periodo di lontananza forzata dal campo era come se Jonathan fosse il pantalone in jeans nel centro, e i suoi da un lato, lo zio Néstor dall’altro, i cavalli che tirano in direzione opposta nel logo della Levi’s. Un semestre sabbatico in cui avrebbe dovuto scegliere se continuare a insistere. O mollare.

«C’erano giovani molto più forti di me», ricorda Calleri. Ma la differenza, per lui, l’ha sempre fatta la testa. O se preferite, la professionalità: mentre i suoi compagni uscivano, bevevano, si divertivano come ci si aspetta faccia un quindicenne, lui si allenava e dormiva, principalmente, come dovrebbe essere per un quindicenne che vuole fare il calciatore. E poi studiava, preparandosi un piano B nel caso in cui il calcio non gli avesse concesso le opportunità che sognava. Proprio come un quindicenne assennato che vuole fare il calciatore. La sua aspirazione non era diventare il nuovo Batistuta, si sarebbe accontentato di una carriera sulle orme di quella di Pablo Solchaga, idolo del barrio Floresta. Una mentalità fly-down che continua ad avere, anche se non sono ancora riuscito a capire quanto il calcio italiano debba sentirsi lusingato o offeso: «Un giorno mi piacerebbe giocare per l’Inter: è il club di una bella città, e poi tanto non è che posso ambire al Real o al Barcellona».

Quando sulla panchina dell’All Boys si siede Julio Falcioni, per Jonathan arriva il momento della svolta: viene incorporato alla prima squadra e comincia a scalare le gerarchie dell’attacco, fino alla titolarità. Diventa uno dei prospetti più interessanti della squadra; per questo, quando Boca e All Boys si trovano a dover dirimere una questione di debiti sostituendo al cash contropartite tecniche, Falcioni si sente di consigliare lo staff tecnico di Bianchi suggerendogli il nome di Jonathan.

Il controllo è da centravanti vero. La conclusione tonitruante: molti dei suoi tiri esplodono nel vero senso della parola, si fatica a identificare il momento in cui lasciano il piede, vedi solo la rete gonfiarsi.

Se da un lato Jonathan mantiene un profilo basso, tutto accettazione supina del destino, del suo ruolo nel mondo, vivendo con serenità anche la gabbia-dopotutto dorata-che sembra trattenerlo al Boca ostacolandone il suo trasferimento in Europa, dall’altra sarebbe veramente troppo naÏf se non si fosse abbandonato neppure un momento al pensiero di una convocazione con la Albiceleste. Nel 2016 Martino dovrà preparare due squadre, in vista di due importanti competizioni: se per la Copa América Centenario il roster degli attaccanti sembra proibitivo da insediare, Calleri può sempre puntare alla selezione olimpica che a Rio cercherà di mettere in bacheca la terza medaglia d’oro della sua storia.

Il Brasile, poi, per Jonathan, ha il sapore di ricordi di melassa: nel 2014, pochi giorni dopo aver firmato per il Boca, con il padre viaggiò fino a Belo Horizonte per vedere l’Argentina battere l’Iran negli ultimi minuti con una prodezza di Messi.

https://twitter.com/Jocalleri/status/480470187268120576

«Ho osservato la partita da una doppia angolatura: come calciatore, sentivo che la gente insultava i nostri perché non stavamo vincendo contro l’Iran. Però poi mi sono dimenticato che ero un calciatore, che avrei giocato per il Boca. Dopo il gol di Messi ho zittito alcuni tifosi che mi erano seduti vicini, non si può fischiare Messi».

Nelle ultime settimane, in Argentina, si è molto parlato di un suo trasferimento in Italia: all’Inter, anzi al Bologna, anzi al Palermo. Angelici, presidente del Boca, gli ha chiesto di restare almeno fino alla fine del Clausura; ma Calleri probabilmente già considerava la sua esperienza con gli xéneizes, dopo la vittoria dell’ultimo titolo, conclusa, e a metà di gennaio si è svincolato (non senza qualche ultimo colpo di coda velenoso nei confronti di chi gli rimproverava lo scarso impegno negli allenamenti della pretemporada).

La proprietà del suo cartellino è, paradossalmente, il più ingombrante ostacolo al suo arrivo in Europa: come molti sudamericani è, in parte, di un TPO (Third-party ownership, terzi che in questo caso sono un fondo privato d’investimento), che dopo la rescissione con gli xéneizes lo ha fatto tesserare - in attesa di girarlo in prestito, a quanto pare in Brasile - dal Deportivo Maldonado, squadra di seconda serie uruguayana non nuova a questo tipo di dinamiche compra-e-rivendi, non del tutto cristalline e forse neppure granché in linea coi parametri fissati dalla FIFA in merito al divieto dei passaggi ponte (per il Deportivo Maldonado sono passati, senza averne mai vestito veramente i colori, giocatori poi giunti in Italia come Piris, Estigarribia, Alex Sandro).

Per compiere il salto professionale Calleri avrà bisogno - prima ancora che delle sue capacità tecniche - della sua tenuta mentale. Non si vergogna ad ammettere che si fa seguire da uno psicologo (consigliatogli peraltro da Pablo Dolce, preparatore fisico di Marcelo Gallardo, l’allenatore del River): «Grazie a lui ho imparato ad attendere, e a non innervosirmi. A gestire le pressioni, l’ansia. Invece di pensare non posso farcela, o arrendermi, mi fa pensare ai lati positivi, mi chiede di visualizzare le mie giocate. Con la testa piena di pensieri positivi si può arrivare lontani. Solo così».

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