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Diego Guido
Cesare Prandelli, un uomo senza contraddizioni
07 dic 2018
07 dic 2018
Una lunga intervista a Cesare Prandelli, tra passato, futuro e il mestiere di allenatore.
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Diego Guido
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Google dice che la Prandelli Srl commercia bevande e per qualche mese questo mi era bastato. Mi ero arreso al fatto che la mia unica speranza di ottenere un contatto con Cesare Prandelli fosse parlare con qualcuno di quella società. Avevano lo stesso cognome e la stessa residenza ad Orzinuovi, bassa provincia bresciana, così avevo telefonato anche lì. «Il titolare è un parente, ma ora non c'è». «Domani potrei trovarlo?». «Se non è impegnato con clienti». «Va bene, riprovo domani». «Come vuole». Ho fatto un'altra decina di tentativi con loro. Tutti andati a vuoto. Ci ho ripensato con una sollevata soddisfazione nel momento esatto in cui Prandelli mi ha fatto accomodare nel suo salotto di casa.

 

Cinque minuti prima avevo parcheggiato nella via che avevo annotato dalla nostra ultima telefonata. Il lato destro della strada era delimitato da un muro dietro cui salivano quattro grossi riflettori e un vociare di bambini. Poi Prandelli mi aveva aperto la porta di casa - «Ciao Diego, piacere» - e accolto in un atrio affacciato su un giardino interno - «Hai trovato traffico?». Mentre mi faceva strada su di una rampa di scale, gli avevo chiesto se ci fosse un campetto al di là di quel muro in strada. Mi aveva risposto aprendo le imposte di una finestra del primo piano. «È il campo dell'oratorio». Di fronte a noi, un gruppo di bambini stava correndo su un campo da 7 in sintetico. Avranno avuto cinque o sei anni, con casacche gialle e casacche blu.

 

«Li allenano dei miei amici, sono bravi» e un attimo dopo aveva alzato il braccio per salutare l'allenatore dei piccoli che, senza togliere il fischietto dalla bocca, gli aveva ricambiato il saluto a distanza. «L'hanno inaugurato da poco. Prima c'erano gli alberi tutt'attorno al campo e la vecchia struttura dell'oratorio. Ma hanno deciso di buttare giù tutto. Si è persa un po' di poesia». Avevo sentito entrare un refolo d'aria fresca, un attimo prima che richiudesse le imposte. «Un peccato, ma è andata così. Vieni, andiamo in sala».

 

Accendo il registratore. Di fronte a me, un grande camino a terra chiuso da un pannello in legno bianco. «Questa è la casa in cui sono nato e cresciuto. L'aveva acquistata mio padre, era un commerciante di acqua frizzante». «Quindi la Prandelli Srl c'entra davvero qualcosa. Non sa quanta fatica per arrivare a lei. Ci ho provato anche con loro». «Sul serio? Quella è l'azienda di Flavio, un mio cugino. Ci siamo sempre frequentati molto poco, in realtà. Quando ero ancora qui lui era piccolo; quando poi lui è cresciuto io mi ero già trasferito per giocare via da casa».

 



Via da casa sono state Cremona, Bergamo, Torino, di nuovo Bergamo. Nei suoi sei anni alla Juventus - con un ruolo per lo più di alternativa ai centrocampisti titolari - ha vinto tre scudetti e vissuto la tremenda vittoria della Coppa dei Campioni, la notte dell'Heysel. Giocando pure gli ultimi sei minuti.

 

Poco prima di compiere 33 anni, la stessa estate di Italia '90, Claudio Prandelli diventò Cesare. L'equivoco nacque all'ufficio anagrafe, un giorno di metà agosto del 1957. Erano tutti d'accordo su Cesare, il nome del nonno paterno, tutti tranne il padre. Lui desiderava chiamarlo Claudio. Fu così che sul registro venne scritto scritto Claudio Cesare Prandelli, senza che questo, tuttavia, riesca a spiegare come mai da giocatore sia stato conosciuto solo come Claudio e da allenatore, invece, solo come Cesare. La sua nuova identità cominciò a delinearsi nella stagione 90-91. Tolta la maglia dell'Atalanta aveva scelto di indossarne la tuta e iniziare a lavorare nella miniera di talenti che già allora era il settore giovanile bergamasco.

 

«Fosse stato per me non me ne sarei mai andato. Poi però in molti avevano spinto perché intraprendessi la strada dell'allenatore di alto livello». L'insistenza degli incoraggiamenti era suffragata dai risultati. Al secondo anno di Allievi - il 91/92 - aveva già vinto lo Scudetto. L'hanno successivo, passato alla Primavera, aveva vinto Scudetto e Viareggio, perdendo solo di misura la finale di Coppa Italia.

 



La fine della storia tra un allenatore e la sua squadra può essere scritta in due modi. Può essere la società ad esonerarlo dall'incarico, oppure può essere lui a scegliere di andarsene. La seconda strada è la più rara, ma non per Prandelli. La scelta delle dimissioni è stata una costante di tutto il suo percorso da allenatore. «Di questa cosa ricordo di averne discusso molte volte con Franco Ferrari, a Coverciano. Io frequentavo il corso da allenatori e lui era un docente. Un mio grande maestro. Ci fermavamo spesso a parlare la sera.

 

Io gli dicevo che se avessi capito che il mio lavoro non bastava, allora mi sarei dovuto mettere in discussione. Ed eventualmente fare da parte. Lui controbatteva difendendo il punto di vista della categoria e mi diceva Cesare, il contratto è una cosa importante, sacra. In un certo senso aveva ragione, ma io la vedevo così. Se mi fossi sentito impotente non sarei rimasto. Per cosa? Per lo stipendio? Bah. Non è mai stata quella la priorità».

 

Prima delle roboanti dimissioni al termine di Italia-Uruguay nel Mondiale 2014, e prima della ultime dimissioni dalla guida del Valencia, Prandelli si era già dimesso almeno altre due volte in carriera. Alla sua prima vera esperienza da allenatore, così come alla seconda. Al Lecce e al Verona. «Lecce in particolare fu un caso unico. La squadra giocava veramente bene, riceveva complimenti ovunque. Ma purtroppo non raccoglievamo punti. Alla fine del girone d'andata pensai potesse essere colpa mia. Di non essere in grado di fare di più, e diedi le dimissioni».

 

Prandelli mi racconta che il presidente Semeraro accettò di malavoglia. «Mi disse che per lui restavo il suo allenatore e che mi avrebbe telefonato ogni settimana. Fu di parola». Al telefono gli chiedeva se si fosse riposato, se si sentisse pronto a tornare. Aveva pronto un nuovo lungo contratto al doppio dello stipendio. «Lo ringraziavo ogni volta ma ormai la decisione era presa».

 



«Ho sempre associato il mio senso della responsabilità all'evento della morte di mio padre. Avevo 15 anni, ed eravamo rimasti io e mia madre con due bambine molto piccole, le mie sorelle. Di colpo ho dovuto crescere e ho dovuto iniziare a pensare anche per altri». Un uomo poco patinato, al limite della goffaggine se buttato nella mischia di ambienti molto mediatici. La parlata grossa, le esse spesse, la cadenza bresciana. Le interviste condotte con la lucidità di un sincero buon senso. «L'allenatore l'ho sempre fatto a modo mio. Non ho mai seguito dei cliché. Dopo una partita giocata male ho sempre detto abbiamo giocato male, senza cercare alibi nell'arbitro, nel vento, nell'acqua o in chissà cos'altro». Per il senso delle proprie responsabilità e della coerenza.

 

L'allegoria che già altre volte Prandelli ha usato per spiegare il suo concetto di coerenza valoriale è quella di un abito di sartoria. «Per essere credibile devi indossare il tuo e non quello di altri. Un abito cucito sulle tue convinzioni e sulle tue debolezze. Se ti sforzi di cambiarlo, ti condanni ad una continua recita. Diventa uno sforzo disumano». Una coerenza di pensiero talmente assidua che talvolta può anche averlo portato a lasciare, magari in alcuni casi forzando la scelta? «Sì, probabilmente sì». Ma qui, sorprendentemente, c'è forse spazio per un leggero cambio d'abito. «Effettivamente una dimissione ti lascia un senso di incompiuto. Qualcosa dentro ti rimane. Per questo ora ho promesso e ripromesso ai miei figli che non mi dimetterò più».

 



Gli suona il telefono, guarda il numero, rifiuta la chiamata. «Se deve rispondere ci fermiamo». «No, no. Prima finiamo noi, richiamerò dopo». Mi spiega che la sua vita è divisa tra Orzinuovi e Firenze. «I pochi giorni in cui sono qui devo concentrare tutto quello che a Firenze non riesco a fare. È sempre un gioco ad incastro. Nessun problema, andiamo pure avanti».

 

Gli chiedo della conferenza stampa di Natal, nel Rio Grande do Norte. La sua Nazionale era appena stata sconfitta 1-0 dall'Uruguay, nella partita del morso di Suarez a Chiellini e dell'eliminazione degli azzurri. Gli dico che trovai assurda la brutalità degli attacchi considerato che solo pochi giorni prima, dopo il 2-1 sull'Inghilterra, la sua squadra era stata osannata. «Ricordo di averla difesa nei dibattiti con qualche amico post eliminazione. Dopo 4 anni in cui, sostanzialmente, la sola sconfitta era stata a Kiev nel 2012, alla finale degli Europei, contro una Spagna stellare, era assurdo buttare tutto il lavoro fatto e stracciare il rinnovo appena firmato solo per due sconfitte». Aggiungo che da lui mi sarei aspettato una scelta controcorrente. Mi sarei aspettato sarebbe rimasto nonostante le polemiche, guardando a quanto di buono fatto e a quanto di buono ancora da fare. «Perché invece rassegnò le dimissioni?».

 


«Ho sempre pagato le tasse. Vado a testa alta. Non mi volevo sentir dire di rubare i soldi ai contribuenti».


 

La sua risposta si distende abbracciando più concetti e più ricordi. «Poco prima della conferenza ci fu un abbraccio commosso con Abete». Giancarlo Abete era il Presidente Federale, anche lui dimissionario quel giorno. «Eravamo soli, gli occhi lucidi. Lui viveva un momento delicato anche in ambito extra lavorativo. È una persona di grande spessore umano. Mi disse che intendeva dimettersi immediatamente e gli risposi "Se si dimette lei, mi dimetto anch'io". Volevo dirottare gli attacchi su di me. Che lasciassero stare giocatori e staff». Insisto.

 

Non è assurdo che dopo 4 anni di grande costanza, con un secondo posto ad Euro 2012 e un terzo piazzamento alla Confederations Cup, si dovesse lasciare per forza? «La storia della Nazionale dice questo, c'è poco da fare. Sai cosa diceva Trapattoni? Il ct è un condannato che ancora non conosce l'ora della sua esecuzione».

 

Trapattoni al contrario rimase. L'esempio perfetto che anche dopo una brutta eliminazione si possa proseguire al timone degli azzurri. «In quel caso l'opinione pubblica aveva trovato nell'arbitro Moreno il bersaglio ideale. Sono convinto sia stato quello a salvarlo dopo la sconfitta in Corea del Sud. La gente e la stampa potevano sfogare la delusione su un altro capro espiatorio. Qualcuno di esterno alla squadra e alla guida tecnica».

 

Qui il discorso diventa culturale. Le ragioni dell'addio in Brasile le spiega anche in rapporto alla precisa cultura italiana. Non funziona così ovunque dato che, dopo l'ultimo disastroso mondiale in Russia, Löw è stato confermato ct della

nonostante l'eliminazione dalla fase a gironi. «Le dinamiche socio-culturali del paese influiscono molto. Ora dico una cosa che dà fastidio a molti, ma la penso e quindi la dico comunque: la Nazionale dona nuova verginità ai giornalisti. Tutti si sentono in diritto di dire ciò che vogliono. Tutti si sentono liberi di attaccarla. Difficile trovare gli stessi toni astiosi verso una squadra di club, perché il giornalista di turno riceverebbe inviti a mitigare le sue posizioni. La Nazionale invece non ha un vero padrone. Con lei possono sfogarsi liberamente, giornalisti sportivi e non solo sportivi. Tutto questo, per forza, incide sulla scarsa longevità di un ct».

 



All'opposto della tendenza a valutare ciecamente il risultato immediato, dentro orizzonti conclusi da qui al proprio ombelico, all'opposto c'è l'attitudine alla progettualità. Attitudine che Prandelli ha sempre voluto ricercare e introdurre in ogni sua esperienza professionale.

 

Quando all'inizio dell'incontro mi aveva parlato del suo profondo amore per la parentesi da allenatore di un settore giovanile, gli avevo chiesto se, oggi, un suo ritorno a lavorare con i giovani potesse essere una strada percorribile. Gli è uscita una risposta interrotta da qualche pausa di riflessione, «questo non lo so, non ho una risposta precisa».

 

Il pieno controllo della risposta lo riprende non appena si passa da una prospettiva ipotetica alla tangibilità delle sue esperienze passate. «L'attenzione ai giovani l'ho sempre portata con me. Anche da ct ho cercato di introdurre qualche spunto di riforma. Poi però le resistenze politiche le hanno frenate». Mi parla della sua idea di rendere obbligatorio per ogni neo-allenatore professionista un biennio di panchina in un settore giovanile. «Penso ad un ex calciatore. Lui farebbe esperienza avendo il tempo per sperimentare. I ragazzi godrebbero del suo esempio. Il mondo del calcio giovanile guadagnerebbe visibilità».

 

Gli chiedo quale fosse la resistenza politica a contrasto di una proposta simile; mi risponde che un presidente che voglia affidare la squadra ad un ex giocatore fresco di ritiro - che voglia il Nome - sarebbe infastidito da quel vincolo. «Vedrai, è un'idea che prima o poi tornerà attuale».

 

La sfera progettuale lo ha sempre affascinato. Tanto che talvolta si è lasciato sedurre da prospettive che poi la realtà dei fatti ha rivelato essere castelli in aria. Come al Galatasaray, o a Dubai.

 

«Me lo ricordo perfettamente, ero qui fuori in giardino, il quarto giorno dopo il rientro dal Brasile. Mi chiama un direttore sportivo e mi parla di questo Unai Aysal. Un magnate turco dell'energia, proprietario del Galatasaray. Io volevo prendermi un periodo di riposo dopo il brutto Mondiale, senza valutare proposte né incontrare nessuno. Rifiutai». L'insistenza nei giorni a seguire fu tale che Prandelli decise, per lo meno per cortesia, di ascoltare la proposta.

 

«Mi aveva messo a disposizione un aereo privato e mi aveva accolto sul suo yacht. Tutto molto pomposo. Gli dissi che ero lì solo per rispetto del ds che aveva fatto da intermediario. Aggiunsi: So che lei punterà a convincermi con un'importante offerta economica ma non è quella la mia priorità». Invece Aysal lo stupì. Il tesoro che gli offriva non era in euro, bensì in progettualità. La miglior arma per convincerlo. «Diceva di voler costruire una rete di club acquisendone uno in Italia, uno in Inghilterra, uno in Germania. Dopo un anno alla guida del Galatasaray, sarei stato a capo di un sistema di vivai di oltre 1300 persone tra ragazzi e staff. La prospettiva era molto molto stimolante, frutto della mente di un visionario».

 

Tutto finì in fumo un paio di mesi dopo. Il magnate chiese a Prandelli di raggiungerlo con la squadra per una scenografica cena al Les Ottomans, l'hotel di sua proprietà affacciato sul Bosforo. Voleva festeggiare perché l'indomani avrebbe dato le dimissioni, il cda della società - già d'accordo con lui - le avrebbe rifiutate e lui avrebbe definitivamente ottenuto tutto il potere necessario per dare il là definitivo al suo ambizioso piano. Purtroppo il consiglio le sue dimissioni le accettò. Prandelli si ritrovò così solo e con una squadra non rinforzata. «Da quella sera non l'ho mai più visto né sentito. Svanito nel nulla».

 


Senza seguire alcun cliché, appunto. Difficile trovare un allenatore protagonista di un video così poco studiato, spontaneo, in cui lo si intuisce leggere una nota preparata per essere certo di non dimenticare alcun passaggio. La necessità di spiegare, di usare trasparenza. Per rispetto del proprio lavoro e per rispetto dei tifosi.


 

L'ultima squadra di Prandelli, fino al gennaio 2018, è stato l'Al Nasr, a Dubai. Perché a Dubai? Non c'è il rischio di incrinare la propria immagine di professionista accettando campionati come quello? «Ti dirò, non volevo accettare e ci ho pensato molto molto a lungo prima di firmare». Mi racconta che le analogie con il caso Galatasaray sono molte. Un proprietario insistente, un progetto ambizioso e legato soprattutto ad un settore giovanile transnazionale.

 

«Lo sceicco voleva che l'Al Nasr diventasse un punto di riferimento per il calcio asiatico. Voleva aprire diversi centri d'allenamento dislocati nel continente, con metodi di lavoro e competenze europee. Nel corso del tempo, il mio ruolo sarebbe stato di supervisore tecnico e organizzativo di tutte le strutture. Il progetto era molto interessante e a dire il vero qui in Italia a maggio non avevo ancora ricevuto altre offerte. Allora ho accettato». L'esonero lo scorso gennaio, è arrivato mentre era quarto nella Arabian Gulf League. «Stavamo facendo un ottimo lavoro, soprattutto nell'ottica del progetto del settore giovanile. Ora sono in fondo alla classifica e lo sceicco ha cacciato tutto il board societario».

 

Considerati gli innamoramenti per queste ultime proposte, verrebbe da dire che Prandelli ormai si veda più come manager che come allenatore di campo. Mi smentisce categoricamente. «Dopo Turchia e Dubai, a sentire la parola progetto ora mi viene l'orticaria. Progetto cosa significa? Al momento cerco una panchina, punto. Altri sogni troppo ambiziosi vorrei evitarli, già due mi sono bastati».

 

Mentre lo intervistavo non poteva sapere che sarebbe stato scelto come sostituto di Ivan Juric sulla panchina del Genoa. È la ragione per cui la sua avventura rossoblù non viene minimamente menzionata.

 



La panchina mancava. Nel senso dell'assenza di un contratto e nel senso della nostalgia per il suo lavoro. Lavoro che, in ogni caso, continuava a portare avanti con il suo staff. «Organizziamo riunioni periodiche in cui condividiamo le cose più interessanti che vediamo in giro. Poco prima che arrivassi tu, ad esempio, ero con il mio match analyst. Guardavamo alcuni numeri. Aggiornarsi è sempre molto interessante».

 

Mi racconta di una delle statistiche che ultimamente lo hanno colpito di più, legata ai dribbling completati in Serie A. «Negli ultimi dieci anni, i primi dieci della classifica sono tutti stranieri. Solo Chiesa, negli ultimi tempi, si sta affacciando al gruppo dei migliori». Per lui è una delle tante spie accese sulla riserva di competitività mostrata dai calciatori italiani a livello internazionale. «La personalità può essere allenata. Negli ultimi decenni siamo diventati bravissimi a fare il minimo ma non siamo più capaci di produrre giocatori in grado di fare il massimo. Quelli da giocate decisive».

 

Come al solito, il suo punto d'osservazione è periferico. «Nelle scuole calcio iniziamo da subito ad incasellare i bambini in schemi rigidi, appiattendone il talento. Se un ragazzino ha potenzialità ma al secondo dribbling sbagliato gli si inizia a dire di non rischiare, gli si inculca la cultura del compitino. Sei forte? E allora prova, vai! Sbagli? Pazienza, riprovaci ancora!».

 

Nel rilancio della Nazionale francese vede la massima espressione di una qualità nata in contesti meno scolastici e più istintivi, come il calcio di strada nelle banlieu da cui escono i Mbappé, i Dembélé, i Pogba. «Una volta era così anche da noi. All'oratorio qui di fronte, quando eravamo bambini, passavamo giorni interi a giocare 1 contro 1, 2 contro 2, 3 contro 3. Valeva tutto, anche fare gli uno-due con gli alberi. Sono quelle le palestre in cui nasce la consapevolezza e la gioia di giocare». La tattica come il software da far girare sull'hardware del talento praticato. Detto da lui, con le sue molte esperienze, mi è sembrato un concetto potente per l'ode all'essenza del gioco e allo stesso tempo un allarme preoccupante.

 

Ama aggiornarsi e dice che vedere le partite dal vivo permette di studiare molte più cose che non alla tv. Nonostante questo, allo stadio va pochissimo. «Poco tempo fa sono stato a Genova a vedere il Bologna. Ero lì per mio figlio (Nicolò, preparatore atletico dei rossoblù,

) era da un po' che non lo vedevo. Purtroppo però vedendomi in tribuna subito sono partite le voci su un mio possibile arrivo in panchina al posto di Inzaghi. Funziona così. Quindi preferisco non andare per non mettere mai in difficoltà nessuno. Ho l'abbonamento a Firenze e cerco di vedere tutte le squadre quando passano di lì».

 



L'aneddoto sulla partita di Genova gliene fa venire alla mente un altro. «Le voci e i falsi scoop ci sono sempre stati e spesso fanno sorridere. Il problema oggi sono i social. I social mi fanno paura. Ti faccio vedere una cosa accaduta giusto oggi». Tira fuori il telefono dalla tasca e cerca qualcosa su WhatsApp. Non appena lo trova, mi racconta la premessa per farmi capire meglio.

 

«Oggi ero a pranzo a Bologna da mio figlio. Ci siamo dati appuntamento in un posto vicino al centro d'allenamento, per essere comodi a lui. Sono arrivato con qualche minuto d'anticipo e sono rimasto fuori ad aspettarlo. Tutto chiaro? Ora guarda questo». Mi mostra il telefono. C'è il messaggio di una sua amica con uno screenshot in allegato. Si vede lui fuori dal ristorante. Qualcuno lo aveva già immortalato e messo online dando la notizia di un suo imminente arrivo al Bologna. Dando per certo che fosse lì a due passi da Casteldebole per pranzare con qualcuno della dirigenza. «Capisci? Con i social siamo arrivati a questo».

 

Nel corso del racconto Prandelli sembrava sinceramente preoccupato. Si è alzato un paio di volte, parlava gesticolando. Non mi ha stupito il suo accorato sbigottimento vista l'aura del personaggio. Gli ho accennato ai

che ha sofferto Montolivo, che lui conosce bene, e mi ha risposto con uno sguardo di dispiacere. L’impressione è che Prandelli abbia sempre interpretato il suo ruolo ragionando molto al di là dei confini professionali del suo singolo incarico. Spesso incarnando una funzione anche sociale, di costruzione di un’ideale a cui tendere. Che abbia sostenuto posizioni che avevano l’obiettivo di aprire le menti, ma che avrebbero anche potuto indispettire parte dell’opinione pubblica.

 

Ha chiamato

i giocatori coinvolti in presunte trame di calcioscommesse. Ha scritto la prefazione di un libro di Cecchi Paone in cui ammetteva la paura nel calcio a parlare liberamente di omosessualità. Ha soffocato sul nascere ogni polemico timore di biscotto ad Euro 2012 tra Spagna e Croazia, guadagnandosi apprezzamenti autorevoli. Ha portato la Nazionale ad allenarsi a Rizziconi, su un campo confiscato alla 'ndrangheta. Ha applaudito l'inno di una Nazionale avversaria per difenderlo dai fischi dei tifosi italiani. Non tutto è stato capito e non tutto è stato apprezzato. Tuttavia il consenso per lui era decisamente ampio.

 

Ad un certo punto della sua storia in azzurro, emanava una tale positività che anche il marketing ne ha voluto sfruttare il potere comunicativo. La campagna per Illumia oggi sembra fatta 20 anni fa. Si può passare in poco tempo dall'essere un volto con quei significati di futuro, di visione illuminata, ad essere invece un volto dimenticato, messo da parte.

 


Il futuro dell'Itala si gioca oggi.


 



Prandelli non è un personaggio interessante per le sue contraddizioni, perché quelle non ci sono. È interessante lui di fronte alla sua carriera. Seduto sul suo divano di casa ad osservare i conflitti tra le celebrazioni e gli attacchi che buona parte di stampa e pubblico gli ha riservato.

 

Avevo molte domande per Cesare Prandelli. Alcune non ho potuto farle perché non ce n'era il tempo, altre per pudore. Non gli ho chiesto di spiegarmi che giocatore fosse azzardando un paragone con un giocatore allenato da lui. Non gli ho chiesto della sua rinuncia alla panchina della Roma nel momento della malattia della moglie, perché di quello, e di ciò che accadde poi, si sa già molto, forse troppo. Non gli ho chiesto della causa che il Valencia gli avrebbe fatto, né del patteggiamento che lui avrebbe accettato, perché non mi interessavano i dettagli delle sue piaghe professionali. Mi interessava solo capire chi fosse oggi e come avesse vissuto le fasi tanto alte e tanto basse del suo percorso.

 


«Non volevo accettare nemmeno il Valencia», mi ha detto. «Mi sembrava evidente fosse una squadra costruita male. Davanti molti esterni ma nessuna punta vera; in mezzo tutti tecnici ma troppo poco dinamici. Perché alla fine ho accettato? Perché per fare questo lavoro devi essere un filo presuntuoso e un filo incosciente. Ero convinto di poter fare comunque meglio di chi c'era stato prima».


 

Il presente permanente di Hobsbawm mi sembra applicabile anche al racconto dell'attualità - e così dello sport - di questo inizio secolo. Come se il flusso ininterrotto di aggiornamenti 24 ore al giorno offerto da canali d'informazione tv e web avesse appiattito la realtà togliendole la profondità del tempo. Sull'ultimo numero di

, Lewis Hamilton dice «Non so nemmeno quante volte ho vinto. Ma il problema è che la gente vede solo quello che fai ora. La gente si scorda in fretta». Ieri non esiste, esiste solo l'istante che si sta vivendo. Non importa cosa hai fatto o detto una settimana o un mese prima, la memoria comune non ha il tempo né lo spazio per ricordarlo. Vale solo ciò che dici e ciò che fai ora.

 

Così Prandelli dopo quattro anni a livelli straordinari sulla panchina dell'Italia, viene ancora giudicato solo per le sue ultime due partite. Così Prandelli dopo le brevissime e sfortunate esperienze con Galatasaray e Valencia, viene completamente sottratto delle lunghe e felici esperienze al Parma e alla Fiorentina. Dieci stagioni di ottimi risultati possono essere cancellate da quattro mesi di cattivi risultati? Sì, se queste sono l'ultima cosa che il pubblico ha potuto vedere, almeno fino ad oggi.

 

 

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