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Il post-mecenatismo, a Milano
14 giu 2024
14 giu 2024
Lo strano mondo in cui si sono trovati i tifosi di Inter e Milan dopo la fine dell'era Moratti-Berlusconi.
(articolo)
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«Siamo passati da un calcio fatto di mecenatismo, in cui l’imprenditore locale sentiva forte anche la rivalità cittadina, e penso al derby Moratti-Berlusconi, a un sistema con proprietà straniere». Le parole sono di Beppe Marotta, fresco di nomina a presidente dell’Inter e figura che in questo momento storico del calcio, milanese e non solo, si è ritagliato un ruolo tutto suo da ponte tra passato e presente. Marotta può infatti essere considerato un ibrido di più culture calcistiche, un faccendiere vecchio stile ma al tempo stesso il manager che ha incamerato - meglio di (quasi) tutti gli altri, risultati alla mano - le nuove regole del gioco; introdotte, in parte almeno, dal fair play finanziario UEFA e dagli strascichi della pandemia, ma anche dalle logiche di proprietà straniere, fondi di investimento internazionali e multiproprietà.

Marotta è una figura emblematica del processo di transizione che hanno vissuto - e in parte stanno ancora vivendo - Inter e Milan, ovvero il post-morattismo e post-berlusconismo, l’addio cioè alla gestione familiare. Il dirigente nerazzurro è senza dubbio un prodotto del gallianismo - concedetemi questi termini - per il percorso e per la rete di relazioni che ha costruito negli anni - fino a trasformare gli iconici "giorni del condor" nelle battute di caccia, altrettanto rapaci, sulle orme dei parametri zero. Non ha mai nascosto, del resto, di ispirarsi ad Adriano Galliani, «esempio, punto di riferimento e icona del nostro calcio». L’arrivo del marottismo in Viale della Liberazione (2018), però, ha anche introdotto nell’ambiente nerazzurro un’aria nuova, che ha aperto la strada allo sbarco, un anno più tardi, di Antonio Conte. Difficile immaginare uno scenario del genere nell’era-Moratti, e non per caso lo storico presidente, poco dopo la rottura tra il tecnico e il club, ha denunciato lo “scarso attaccamento” di Conte (non proprio una sorpresa), oltre a serie preoccupazioni per le politiche monetarie di Pechino.

Allo stesso modo sull’altra sponda del Naviglio sarebbero stati improbabili in precedenza, ai tempi di Via Turati per intenderci, certi discorsi di Gerry Cardinale sull’algoritmo, sui tifosi (definiti partner), sul Milan (brand), sui calciatori in rosa (asset), e via dicendo. Sono un lontano ricordo i giorni in cui Berlusconi invitava la squadra ad attaccare (momento diversamente indimenticabile per Filippo Inzaghi), o quelli in cui Galliani lucidava la patch di “club più titolato al mondo” (sempre e comunque). Sembrano ere geologiche fa, ed è una percezione destinata ad amplificarsi con l’abbandono sempre più vicino, stando ai ben informati, dello stadio di San Siro - direzione San Donato, e Rozzano per l’Inter - salvo clamorosi dietrofront (che d'altra parte sono sempre clamorosi).

Qualsiasi preferenza abbiate, non perdete la fede: prima o dopo succederà qualcosa.

Tutto ciò si riflette, inevitabilmente, nello sguardo del pubblico. Un tempo al bar si discuteva del “cocco strapagato di Moratti” e della “figurina per la campagna elettorale di Berlusconi”, due epiteti che hanno accompagnato omericamente, ad esempio, Recoba e Ronaldinho, oppure Dalmat e Rivaldo, Quaresma (il cocco dei cocchi) e Rui Costa. Oggi invece sui social, in tempi di calciomercato e nelle dispute sulle dirigenze (d’altronde gli argomenti di campo finiscono a un certo punto), è più facile leggere calcoli su plusvalenze e ammortamenti, teorie d’ogni genere sul prestito di Oaktree, sui problemi di Zhang in Cina, sugli investimenti di RedBird. È il post-mecenatismo del calcio anche a Milano insomma, e non stupisce che il trapasso sia (stato) traumatico per una piazza tradizionalmente molto vicina alle proprie squadre, e che al di là del cliché divisivo è compattamente “bauscia” e di vecchioniana nostalgia.

Tempi che cambiano

Lo smantellamento delle due storiche egide è coinciso più o meno con l’inizio di un periodo deprimente a livello di calcio giocato, tra carenza di risultati e ridimensionamento drastico di status, appeal e ambizioni. Il resto l’hanno fatto le turbolenze societarie, poco familiari per i tifosi e perennemente sovraesposte dai media, che hanno trasformato il momento di transizione in una crisi di identità collettiva, inaugurando le rispettive Banter Era. Così dopo decenni all’insegna della continuità e della passione made in Italy di Moratti e Berlusconi, si sono susseguite nelle due proprietà una sequenza di nomi giunti da lontano, il più delle volte dal continente asiatico: Erick Thohir (Indonesia), Steven Zhang e Yonghong Li (Cina), cui si aggiunge la trattativa naufragata con Bee Taechaubol (Thailandia). L’accoglienza: fredda e scettica, a prescindere, e non solo per quel senso di smarrimento tipico dei passi nel vuoto. La torbidità di alcuni personaggi coinvolti nel processo non sono state d’aiuto, soffiando sulla diffidenza e sui preconcetti dovuti all’origine - dalla perplessità e tristezza di Salvini, ampiamente condivise, a «quel filippino di Thohir» con cui Ferrero ha imbarazzato un po' tutti.

Ai due club sono stati accostati negli anni fiumi di imprenditori e holding americane, asiatiche, del Golfo Persico. E perché no, anche Gheddafi (certo, quel Mu'ammar Muhammad Abu Minyar 'Abd al-Salam al-Qadhdhafi), o le immancabili cordate di tifosi. Alla fine il testimone è passato a Thohir e poi Suning da una parte, Elliot e poi RedBird dall’altra; avventure che sono iniziate e finora si sono sviluppate, per ragioni diverse, in modi poco convenzionali soprattutto rispetto alle abitudini. Prendete tutto il romanticismo di quell’intervista nel ‘95 in cui Moratti non sapeva come confessare - non all’Italia, ma alla moglie - di non aver resistito alla tentazione, di aver comprato l’Inter; e prendete tutta la teatralità dell’elicottero atterrato all’Arena nove anni prima, con Berlusconi a bordo e la Cavalcata delle Valchirie in sottofondo; prendete tutto questo e mettetelo da parte, in nome di acquisizioni passate da vincoli, prestiti, finanziamenti, ricapitalizzazioni e altre robe da bocconiani, si direbbe a Milano. E nel caso dell’Inter, dalla parentesi del “governo-Draghi”, come qualcuno ha definito l’era Thohir e la sua sanificazione dei conti societari (più o meno).

D’accordo, i trattati di finanza appassionano fino a un certo punto il pubblico calcistico, ma anche in quest’ambito la (mal)sana nostalgia per le chiacchiere da bar ha trovato più di qualche appiglio. Dalle famiglie Moratti e Berlusconi e dai rispettivi pettegolezzi di corte (Barbara-Pato plot twist d’autore), si è passati alle acrobazie imprenditoriali di personaggi più o meno improbabili, in una spirale di vicende che ad oggi ci sono chiare solo in parte. Sulla scena non sono mancate infatti, come anticipato, le comparse stravaganti: non capita spesso che un investimento mastodontico si dissolva nel nulla insieme a una proprietà-fantasma, come accaduto con il passaggio del Milan da Yonghong Li al Fondo Elliot; oppure che a reclamare spazio, con goffa insistenza, siano volti nuovi nell’ambiente come Zilliacus e “Mister Bee”, con i rispettivi modus operandi, bizzarri, e soprattutto con garanzie finanziarie non esattamente limpide.

Non è oro tutto quel che luccica

Yonghong Li è l’unico di questi tre nomi destinato a rimanere negli archivi ufficiali, essendo il solo ad aver concluso positivamente (più o meno) la trattativa. Paradossalmente però è quello di cui sappiamo meno. I misteri sul suo conto aleggiavano già nel 2016, tanto da forzare la dirigenza rossonera a pubblicare un comunicato subito dopo il closing, per fare luce sull’identità e soprattutto sul patrimonio di Li. Le garanzie presentate al momento della firma però, a partire dalle miniere di fosforo in Cina, si sarebbero sgretolate un po’ alla volta nei mesi successivi, come ben documentato da New York Times, Report e L’Espresso.

Da tali inchieste è emersa un’immagine opaca dell’imprenditore cinese e di “tutti quei soldi, la cui effettiva provenienza resta un mistero perfino per Pechino”: un nome “poco conosciuto in tutto il Paese”, a cui non sono riconducibili attività particolarmente redditizie, che si è segnalato, tra le poche notizie reperibili, per il coinvolgimento in una truffa da 68 milioni di dollari, nel 2004, che portava alla chiusura dell’azienda di famiglia e all’arresto del padre e del fratello. Non serve una fervida immaginazione, se non siete troppo giovani almeno, per intuire l’atmosfera di quei mesi e le voci che correvano, considerando anche il coinvolgimento nell’affare di Silvio Berlusconi, non certo un neofita della cronaca giudiziaria (nello specifico sono i mesi della chiusura del processo “compravendita di senatori” / Lavitola, De Gregorio).

L'operazione condotta da Li è stata concepita e si è svolta “totalmente a debito” (L’Espresso) e si è conclusa con la sua fuoriuscita dopo soli dodici mesi, nel 2017; o meglio con la sua estromissione, per insolvenza, da parte del Fondo Elliot, che aveva orchestrato l’affare e finanziato l’imponente campagna acquisti dell’estate precedente, all'insegna delle “cose formali”. L’indagine della Procura di Milano per chiarire i contorni della vicenda non porterà a nulla di certo e definitivo, arenandosi su quello che è stato definito “un reticolo di bonifici, società offshore e paradisi fiscali, da Hong Kong alle isole Cayman”, e facendo calare il sipario su una torbida parentesi della storia rossonera.

Andando a ritroso di un altro anno, nelle trattative per la cessione del Milan si trova un’altra istantanea, datata agosto 2015 e impressa indelebilmente nella memoria collettiva. In foto, anzi in un selfie che sui social ha fatto più di qualche giro, c’è Bee Taechaubol, passato alla storia come “Mister Bee”. Dopo mesi di trattative e proclami, il thailandese aveva vinto le resistenze di Berlusconi e sembrava a un passo dal diventare titolare del 48% del Milan. “Tornerò spesso a San Siro, sono qui per vincere”, diceva, dopo aver sottoscritto con Fininvest un accordo preparatorio per il suo ingresso in società, per quasi mezzo miliardo di euro.

Alla fine, però, non accadrà nulla di tutto ciò: l’advisor dell’operazione finirà al centro di un’indagine per frode fiscale, e nei mesi successivi Taechaubol si defilerà dalla scena, fino al definitivo congedo - tanto credibile quanto di buon gusto - “per le cattive condizioni di salute di Berlusconi”. Un report di Forbes parlerà di lui in questi termini: “un broker senza reale disponibilità economica, che ha cercato di attirare l’attenzione della stampa per farsi pubblicità e trovare altri investitori interessati ad acquistare quote della società insieme a lui”. Altra strana parentesi e altro sipario calato tra gli interrogativi dei tifosi, che dopo quei mesi non sentiranno mai più parlare di “Mister Bee”.

“The nobody”, Thomas Zilliacus

La sola espressione “farsi pubblicità” chiama inevitabilmente in causa il terzo soggetto, quello più d'attualità: Thomas Henrik Zilliacus, aspirante successore di Steven Zhang. L’imprenditore finlandese, che vive e dirige le sue attività da Singapore, negli ultimi anni si è fatto un nome nel mondo del calcio per le corse, più o meno plausibili, alle proprietà di Manchester United e Inter. In entrambi i frangenti ha messo in mostra il suo marchio di fabbrica: la spettacolarizzazione mediatica della trattativa, in un mondo in cui discrezione e non-disclosure agreements sono la prassi; ma anche il tentativo di guadagnarsi il gradimento del pubblico non tanto come businessman, piuttosto come uomo del popolo e tifoso sfegatato.

La prima trattativa, naufragata nel giro di poche settimane, risale a marzo 2023, contestualmente all’apertura da parte della famiglia Glazer per la possibile cessione del club inglese; la seconda invece è tuttora in corso, seppur in standby - almeno stando alle parole del diretto interessato. Un report di Adam Crafton, pubblicato su The Athletic, ha svelato alcuni retroscena non particolarmente incoraggianti sulla storia di questo “signor nessuno che ha tentato di comprare il Manchester United e l’Inter” (“The nobody who tried to buy Manchester United and Inter Milan”), passato alla cronaca anche per spinose questioni giudiziarie.

“Mobile phone guru”, così è stato presentato dal tabloid britannico The Daily Star al momento della sua comparsa “out of nowhere”; il riferimento è al settore in cui Zilliacus si è affermato a partire dagli anni ‘80, che lo ha portato da Helsinki a Singapore, in qualità di CEO of Nokia SouthEast Asia. Chiusa la parentesi con la società finlandese di telecomunicazioni, ne ha fondata una nell’ambito della finanza, la Mobile FutureWorks, sotto il cui controllo ci sarebbero, a sua detta, “più di 150 aziende, per un valore complessivo di oltre 3 miliardi di dollari”. Eppure, stando ai registri ufficiali dell’ACRA (Accounting and Corporate Regulatory Authority), è indicata come “inattiva” - ma questa è solo la prima di una serie di incongruenze in merito al suo curriculum finanziario.

Il capitolo più inquietante riguarda YuuZoo, realtà co-fondata da Zilliacus nel 2008 che si occupa di social-network e sistemi di pagamento online, e che dieci anni più tardi lo ha fatto finire al centro di un’indagine per falso in bilancio e turbativa di borsa, essendo responsabile della produzione di “documenti ingannevoli che hanno sovrastimato il fatturato di YuuZoo da 4.6 a 18.8 milioni di dollari”. Nei suoi confronti pende un mandato di arresto della polizia di Singapore e una red notice dell’Interpol, ciò nonostante l’imprenditore racconta di star collaborando con la giustizia e di non aver fatto ritorno nel Paese asiatico, dove è residente, per «complicazioni dovute alla pandemia». A completare il curriculum, infine, c’è anche una causa civile del 2015, negli Stati Uniti, con svariate accuse di frode; caso che si è chiuso con un accordo extragiudiziale tra le parti e “il pagamento di una cifra a sei zeri”, confermano a The Athletic i diretti interessati.

Il legame di Zilliacus con il calcio ha radici di lunga data, ma non particolarmente profonde a dire il vero. Né, soprattutto, in contesti paragonabili a Serie A e Premier League. Da giovane ha interrotto gli studi per qualche mese ed è volato in Brasile, dove ha giocato nelle giovanili della Fluminense; prima del trasferimento in Asia è stato parte, poi, della dirigenza dell’HJK Helsinki, squadra più titolata del campionato finlandese - a detta sua come presidente, dal 1982 al 1986, una versione in contrasto con quella fornita a The Athletic dal club, che ha descritto una posizione dirigenziale più defilata; dal ‘89 al ‘94, infine, è stato team manager del Geylang International, squadra che milita nell’odierna Singapore Premier League. Ed è tutto, fino al marzo 2023 e all’offerta da oltre 4 miliardi di dollari per il Manchester United.

«Lo faccio per amore del calcio e del Manchester United», ha detto, provando a spiegare la sua mossa 1non c’è nessun ego qui. (...) Tutti i club sportivi dovrebbero appartenere ai tifosi, e la mia proposta si basa proprio sull’uguaglianza con i tifosi. Lo sviluppo attuale, in cui sceicchi miliardari e oligarchi prendono il controllo dei club e li gestiscono come giocattoli personali, non è un trend salutare». Ed ecco quindi il piano: «Al momento il valore di mercato del club ammonta a poco meno di 3.9 miliardi di dollari - ciò significa che se tutti i tifosi si unissero all’acquisto, la somma totale per tifoso ammonterebbe a meno di 6 dollari». I conti sono presto fatti: metà a Zilliacus e metà ai tifosi, dunque 3 dollari a testa; oltre alle quote, alla fanbase sarebbe stato quindi riconosciuto diritto di veto su ogni decisione dell’area sportiva («non verrà presa nessuna decisione se non supportata dalla maggioranza dei tifosi»), attraverso votazioni eseguite su un’app dedicata.

La parte più singolare di tutto ciò risiede però, come anticipato, nel marketing e nella captatio benevolentiae del finlandese. Per presentarsi al pubblico - o per convincerlo, o forse per farsi pubblicità - Zilliacus partecipa a Twitter Spaces, dirette su Instagram e Youtube, dibattiti di ogni genere e in ogni sede con i tifosi. Inglesi prima e italiani poi, professandosi un Red Devil di vecchia data, quindi raccontando l’amore per i nerazzurri sbocciato in occasione dell’euroderby. Il suo sogno: «Trasformare l’Inter in un club ancora più grande e acquistare top player come Mbappé. (...) Competere ogni anno per Scudetto e Champions League, riunire i tifosi da tutto il mondo e farli partecipare alla vita del club». E, ciliegina sulla torta: «Permettere ai tifosi della Curva Nord di guadagnare soldi».

In questa specie di reality show, raccontato per filo e per segno sui social, Zilliacus sostiene di aver presentato due offerte al club milanese, a luglio e novembre dell’anno scorso. Pur non essendo noti i dettagli di tali proposte e la composizione della sua cordata, il finlandese ha messo in chiaro di «aver nominato come consulente una delle più grandi banche di investimento del mondo e di aver presentato un’offerta seria e non priva di sostanza. (...) L'intenzione era che la mia società mettesse 100 milioni di euro e il resto arrivasse da altri investitori. Nel caso dell'Inter, infatti, c'è un bond di 415 milioni di euro e poi c’è un prestito di Oaktree da 275 milioni di euro. Non dico che quella fosse la nostra offerta, ma se prendi una cifra indicativa di un miliardo, che è vicina a quello che io penso sia il valore dell'Inter, e togli quei 415 più 275, allora siamo già a quasi 700 milioni di euro. Ciò significa che se prendi in carico quei prestiti, il denaro effettivo che pagherai sarà poco più di 300 milioni di euro».

Anche qui: conti (spicci) presto fatti, esito negativo della trattativa. E se lo scorso anno Zilliacus se l’era presa con la famiglia Glazer e Raine Group, cui non le aveva mandate a dire, stavolta la diffidenza nei suoi confronti è scaturita da «un’accusa basata su fatti non veritieri». «No, non sono fuori dalla corsa per acquistare l'Inter, lo sono solo momentaneamente. Una delle conseguenze di tutta questa pubblicità negativa di queste ridicole storie sull’inchiesta dell'Interpol e sul mio arresto è che ovviamente influisce sulle persone che le leggono. Quindi, alcuni investitori nel consorzio che avevo messo insieme si sono ritirati e mi hanno detto che fino a quando questa cosa non sarà risolta, loro non sono intenzionati ad investire. Le trattative per l'Inter erano in stato avanzato: quando è scoppiata questa notizia alla fine di febbraio, eravamo molto, molto vicini a chiudere», ha dichiarato alla fine d'aprile, poco dopo aver detto di aver ritirato la propria offerta per l'acquisto dell'Inter.

Quello è stato - per ora - l'ultimo capitolo della storia che legato momentaneamente Zilliacus all'Inter. Quello che a Milano non sembra essersi ancora chiusa, invece, è l'apparizione di vicende e personaggi controversi che orbitano attorno alle proprietà dei due club.

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