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Giuseppe Pastore
Il pomeriggio troppo azzurro di Italia-Brasile 1982
05 lug 2022
05 lug 2022
Sono passati quarant'anni dalla leggendaria partita dei Mondiali spagnoli.
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Giuseppe Pastore
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Cercavamo l'estate tutto l'anno e all'improvviso eccola qua. Di lunedì pomeriggio, tra l'oleandro e il baobab, non annunciata, come un telefono che squilla nel silenzio della casa addormentata dopo pranzo. Cosa c'era di più estivo del Brasile 1982 con il suo calcio da spiaggia in cui nessuno si preoccupava di difendere? Cosa c'era di più estivo di una domenica sera a divorare anguria guardando Italia-Germania in televisione sul Secondo Canale? Cosa c'era di più estivo di una squadra il cui attaccante si chiamava letteralmente Estate, ovvero in polacco Lato, il vecchio Grzegorz incontrato due volte tra girone e semifinale?

 

Dentro e attorno all'Italia 82, apripista sportiva e sociale di un decennio spensierato fino all'incoscienza, c'è tanta musica leggera, da “Generale” di De Gregori suonata alla chitarra da Giampiero Marini nelle lunghe notti senza Playstation a “Cuccurucucù” di Franco Battiato, la canzone più ascoltata nei viaggi in pullman, passando per “Sotto la pioggia” di Antonello Venditti che cita espressamente Pertini con una sineddoche che starebbe benissimo anche su Enzo Bearzot (“Il presidente dietro i vetri un po' appannati/fuma la pipa”).

 

Però, per costituzione e approccio alla vita, il paragone più consono sarebbe con Paolo Conte, autore nel 1968 – Zoff c'era già, e vinceva gli Europei – del nostro secondo inno ufficiale, intitolato come il colore della maglietta della Nazionale. Una squadra sopraggiunta di soppiatto, suadente, a suo modo romantica, sorniona ma aliena a ogni ruffianeria, destinata a valicare sorprendentemente le Alpi per diventare ispirazione, incubo, ideale giovanile di tutto il mondo, fino a finire sulle spalle di Mick Jagger.

 


All'improvviso, eccola qua. Senza uno straccio di pre o post-partita, studio interviste o moviola, con la smisurata tensione dell'intervallo allentata da un episodio della Pantera Rosa. Alla fine della telecronaca, quando l'euforia era ancora in circolo e non era passato nemmeno un minuto dal fischio finale, Nando Martellini non mancò di ringraziare le autorità: «Questa trasmissione è andata in onda per decisione della Federazione Nazionale Stampa che, pur in presenza degli scioperi dei giornalisti a sostegno della vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro, ha fatto una scelta politica per non privare il grande pubblico di uno spettacolo sportivo di eccezionale importanza internazionale».

 

Cinque o sei generazioni diverse hanno rischiato di non guardare in tv Italia-Brasile 3-2. Una partita-shock, un corto circuito logico e morale che, al di là dell'altissimo valore patriottico che ne fa una pietra miliare dell'Italianità e una specie di secondo 25 aprile, pose subito questioni fondamentali sul senso del calcio e di conseguenza della vita. Subito il Brasile 1982 fu inserito nella Triade delle Grandi Nazionali che non vinsero mai un Mondiale, insieme all'Ungheria 1954 e all'Olanda 1974: quarant'anni dopo, non abbiamo notizie di squadre in grado di insidiarle. Di più: il pomeriggio del Sarrià, replicato quattro anni dopo da una Seleçao meno brillante e più crepuscolare eliminata dalla Francia in circostanze ancora più sfortunate, aprì una dolorosa discussione sulla necessaria evoluzione darwiniana del calcio brasiliano. Così come il trauma del Maracanaço aveva generato l'epoca d'oro dei Garrincha-Didì-Vavà-Pelé, l'utopia in frantumi di Telê Santana costrinse il Brasile a guardarsi alle spalle: nel 1990 si presentò in Italia con il libero e fu punita oltre ogni demerito da una zingarata di Maradona e Caniggia, ma nel 1994 a Pasadena divenne tetra-campeão con uno stile muscolare e quadrato, esaltato dal doppio mediano Mauro Silva-Dunga in ossequio all'imperante 4-4-2. Ma per esempio se Zoff non avesse parato quel colpo di testa di Oscar, che discorsi staremmo facendo? Dove sarebbe andato il calcio? Dove saremmo andati noi?

 



 

Efficace e micidiale come certe Pro Loco che ti suggestionano a tal punto da prenotare un bed&breakfast in anonimi borghi di collina che non hanno nulla di straordinario, la retorica sull'Ottantadue ha reso mitici diversi aspetti del Mundial di cui la storia avrebbe fatto volentieri a meno. A cominciare dalla formula sconclusionata e mai più replicata nei successivi tre Mondiali a 24 squadre, con la doppia fase a gironi che portò a gruppi sbilanciatissimi (da una parte Italia-Brasile-Argentina, dall'altra Francia-Austria-Irlanda del Nord...) e negò al pubblico il brivido degli scontri diretti fino alle semifinali. Lo stesso allargamento a 24 era il frutto della furba logica terzomondista del presidente Havelange, avallata in pieno dal suo delfino Blatter: comprarsi la gratitudine delle federazioni minori allargando le dimensioni della torta e lasciando qualche briciola in più all'Asia, all'Africa, all'America del Nord, a patto che non avanzassero troppe pretese sul campo. Da qui la vergognosa sceneggiata di Austria-Germania, due grandi potenze dell'Europa illuminata che si tennero a braccetto in mondovisione per far fuori l'Algeria, uno scempio tale da costringere la FIFA a programmare in contemporanea le ultime partite di girone da Messico 1986 in poi.

 

L'arbitro israeliano Klein, col cuore straziato dalle sorti di suo figlio sul fronte in Libano, è diventato un piccolo eroe civile: ma in che modo sarebbe stato giudicato dalla Storia se Oscar avesse segnato il 3-3 un minuto dopo il regolarissimo gol del 4-2 annullato ad Antognoni? Punta dell'iceberg di un Mondiale appesantito da arbitraggi mediocri, marcature brutali (non solo Gentile su Maradona), con la Spagna trascinata a spintoni alla seconda fase o singoli episodi allucinanti come l'uscita-killer di Schumacher che in semifinale mandò all'ospedale il francese Battiston e non fu sanzionata nemmeno con il fallo dall'arbitro olandese Corver. In Francia-Kuwait la sceneggiata dello sceicco, cui la Guardia Civil tributò una specie di pavido 

 al momento dell'irruzione in campo, aumentò la sensazione di un Mondiale organizzato come una fiera di paese. Così, viste le premesse, fu paradossalmente giusto che la partita della nostra vita si disputasse ai 40 gradi delle cinque del pomeriggio nell'angusto Sarrià, mentre le enormi tribune del Camp Nou restavano mezze vuote durante le partite del girone Polonia-Belgio-URSS.

 



 

Il budello del Sarrià, demolito nel 1997 e oggi quartiere residenziale con un giardino pubblico i cui sentieri convergono nel vecchio dischetto di centrocampo, già Plaza de Toros nell'infuocata Italia-Argentina della settimana precedente, è diventato un campo di battaglia culturale. Oggi che siamo tutti più furbi e ci compiaciamo del nostro cinismo, rideremmo con settimane d'anticipo sul Joga Bonito del Brasile e Youtube non nasconderebbe il minimo difetto di giocatori come Cerezo, Junior, Eder e Socrates che allora sembravano a tutti degli alieni. In realtà, bè, era così: una squadra visionaria, con un prototipo di 4-2-3-1 ancora più radicale se pensiamo che i due mediani davanti alla difesa erano Falcao e Cerezo, con il centroboa Serginho finto vaso di coccio funzionale alle scorribande di Eder, Zico e Socrates.

 

Rob Smyth e Scott Murray, due giornalisti inglesi che si sono divertiti a raccontare le grandi partite della storia dei Mondiali alla maniera delle cronache minuto per minuto del Guardian, hanno azzardato una metafora un po' forte ma che rende l'idea: «Se è vero, come sostengono in molti, che un gol è paragonabile al sesso, allora il Brasile 1982 era un intero film porno». Solo nelle prime quattro partite: un gol in rovesciata (Zico vs Nuova Zelanda), un pallonetto di velluto (Eder alla Scozia), una sassata all'incrocio (Socrates vs URSS), un palleggio e tiro al volo alla Maicon trent'anni prima di Maicon (Eder vs URSS), un colpo da biliardo da fuori area (Falcao vs Scozia), una punizione a foglia morta (Zico vs Scozia), una punizione a 150 all'ora (Eder vs Argentina).

 

È anche per questo, per l'onnipotenza e il vitalismo che trasmetteva fino a trascendere nella lussuria, che il Brasile 82 è rimasto nella memoria dei molti adolescenti come “Paradise” cantata da Phoebe Cates, la quale era pettinata più o meno come Eder. Gli stessi che oggi, a cinquant'anni suonati, giurano che non ci sarà più un Mondiale come quello – che poi sono le stesse cose che diremo noi nel 2046, sospirando al ricordo del gol di Grosso, della testata di Zidane, di Inzaghi che fa finta di passarla a Barone. Di Italia-Brasile del 5 luglio 1982 tutto è stato già detto, scritto, sminuzzato, microscopizzato, e a proposito cogliamo l'occasione per consigliarvi lo straordinario “La partita” di Piero Trellini, libro-monumento al calcio e al filo invisibile che lega tutte le cose, da Amerigo Vespucci a Mario Sconcerti. Resistono ancora due misteri. Ne riusciamo appena a scalfire la superficie.

 

Il primo è ovviamente legato a Paolo Rossi e chiama in causa tutto il popolo italiano, rappresentato più o meno degnamente dalla categoria dei giornalisti sportivi che in quelle settimane diede il peggio di sé, dimostrandosi non molto migliore della vituperata generazione attuale. Non vogliamo annoiarvi con il solito fiume di citazioni che lambirono la diffamazione; ne riportiamo solo una di Giorgio Tosatti allora direttore del Corriere dello Sport. “In queste condizioni un giocatore va spedito in montagna. C’è da chiedersi quali conoscenze di sport abbia gente convinta di poter cavare qualcosa da un atleta ridotto nelle condizioni di Rossi”. La riportiamo perché, vista la penna illustre che l'aveva firmata, Bearzot se la legò particolarmente al dito tanto da scagliarsi contro l'autore, anche a distanza di settimane (citiamo dal biografo Gigi Garanzini: “Erano in tre a tenermi mentre urlavo che gli volevo telefonare, che ero sempre in attesa dei suoi dépliant di montagna"). Di tanti dietro-front calcistici di tanto tempo fa, oggi si ironizza: pensa se ci fossero stati i social. Nossignori, il clima era incandescente lo stesso anche senza Twitter. È risaputo che Pablito non si reggeva in piedi ed era stato addirittura sostituito all'intervallo della seconda partita contro il Perù, dopo un primo tempo mortificante che sapeva di bocciatura (ma già negli spogliatoi era stato rassicurato da Causio: le prossime le giocherai ancora tu). I più volenterosi avevano intravisto segnali di crescita nel secondo tempo contro l'Argentina, nonostante un altro gol divorato a tu per tu con Fillol pochi istanti prima del raddoppio di Cabrini. Sembrava più che altro una pia illusione, un estremo palliativo per continuare a credere nell'impossibile: eliminare il Brasile.

 

Ha detto Darwin Pastorin che sulla carta d'identità di Paolo Rossi c'erano due date di nascita: Prato 23 settembre 1956 e Barcellona 5 luglio 1982. Le cose che accaddero nei primi cinque minuti di Italia-Brasile sembrano dar ragione a questa tesi. Sempre ostinatamente schierato titolare anche per mancanza di quelle alternative che Bearzot stesso ha voluto negarsi (vedi la mancata convocazione di Pruzzo, fonte di ulteriori tensioni con la stampa romana), Rossi inizia la partita nel peggiore dei modi. Mentre tutti i suoi compagni si dimostrano fisicamente e mentalmente molto più pronti dei dirimpettai verdeoro, lui annaspa, incespica, si fa soffiare tre volte palla da Falcao nei primi tre minuti (la terza volta almeno guadagna la punizione). Al quarto minuto Tardelli guadagna il fondo e il suo passaggio rasoterra lo trova in perfetta posizione di sparo, centrale fronte alla porta, senza avversari nel raggio di cinque metri: ma Rossi cicca penosamente la palla, e sembra spazientirsi persino Martellini. Ragionandoci a freddo, poteva essere un segnale di estremo ottimismo il fatto che Rossi “fosse lì”, là dove le cose accadono, e che la sciatteria della fase difensiva brasiliana presto o tardi gli avrebbe concesso nuove occasioni: ma quante occasioni vuoi che ti lasci questo Brasile, mentre intanto devi pure pensare a non andare in svantaggio?

 


Ma mentre tutta l'Italia è intenta a sgranare il rosario delle proprie opinioni calcistiche, Conti ha già sventagliato di esterno a sinistra per Cabrini, Cabrini ha già guardato in mezzo e crossato una palla poetica e Pablito ha appena compiuto la sua metamorfosi e si è trasformato “nell'uomo di domani” (Lucio Dalla, “L'ultima luna”, 1979). Di testa, senza neanche saltare. Non tocca palla per altri venti minuti, poi riemerge dal sottosuolo degli incubi brasiliani come il pagliaccio di It per avventarsi sul passaggio pigro e orizzontale di Cerezo, bucare le mani a Valdir Peres e segnare uno dei rarissimi gol da fuori area in carriera. Torna ad annaspare per tutto il secondo tempo, pretende un rigore per una spallata di Luizinho veniale anche per i canoni di oggi, si divora il 3-1 solo davanti a Valdir Peres prima che il pareggio di Falcao faccia calare la claire sul nostro Mundial. Quasi affoga nel suo sudario azzurro, ci fa sacramentare al pensiero di chi potrebbe entrare a sostituirlo (nessuno).

 

L'ennesima illusione a danno dei brasiliani che a un certo punto, ebbri della loro stessa leggerezza, ci regalano un calcio d'angolo, il primo della nostra partita. Proprio Trellini fa notare nel suo libro l'istante mirabile, purtroppo non valorizzato dalla regia spagnola, in cui Valdir Peres non si mette a fare giochetti con il pallone per perdere tempo né lo scaglia lontano, ma lo consegna al suo futuro boia come se fosse il teschio di Yorick in mano ad Amleto. In quel momento, appena prima delle 7 di sera, Rossi è tornato inoffensivo, etereo, immateriale, galleggia nell'inconscio dei brasiliani come una fatamorgana nel deserto; e un secondo dopo è di nuovo lì a punire i peccati di superbia, a castigare un fuorigioco mai applicato, ad anticipare persino Graziani con una zampata talmente fulminante che annebbia la vista persino a Martellini (che difatti urla “pareggio!”). Per mezz'ora Rossi non c'è stato, ma un secondo dopo è ricomparso e ha lampeggiato come una scritta in sovrimpressione, per un altro secondo appena. Quanto basta.

 

È la più grande applicazione del gioco delle tre carte mai vista su un campo di calcio. Spiace che ne siano vittima i brasiliani, ma il copione esigeva uno sviluppo così crudele: l'uomo qualunque, ordinario fin nel nome e cognome, che fa piangere la creatura calcistica più sorridente che sia mai stata inventata, il Brasile, e di riflesso il mondo intero. Dal 6 luglio 1982 un solo calciatore è stato in grado di segnare una tripletta alla Seleçao: si chiama Leo Messi, ma era solamente un'amichevole.

 



 

Ma Paolo Rossi è solo la propaggine più superficiale del secondo grande mistero di Italia-Brasile, una partita in cui l'Italia si limita a tre soli tiri nello specchio della porta (non considerando il gol annullato ad Antognoni) e di conseguenza Valdir Peres subisce tre gol senza effettuare una sola parata. Una delle rare volte che tocca il pallone con le mani, lo fa per raccogliere una punizione di Antognoni deviata dalla barriera e avviare inconsapevolmente l'harakiri del 2-1. Una seconda volta arriva sul pallone in ritardo di un decimo di secondo e non riesce a evitare il calcio d'angolo del 3-2. In cerca di risposte sovrannaturali, come costernata da ciò che sta succedendo, pochi minuti dopo il terzo gol di Rossi la regia si concede una parentesi poetica indugiando sul volo di un aquilone impazzito: è stata la mano di Dio?

 

Da almeno mezzo secolo – diciamo, da Italia-Germania 4-3 in poi – l'Italia ha fama di squadra cinica, magistrale nella recita a soggetto, sguazzante nelle improvvisazioni. La sceneggiatura che si dipana all'interno di Italia-Brasile 3-2 possiede però qualcosa di eccezionalmente mostruoso. La combattiamo immersi in una totale e continua consapevolezza di essere inferiori, coscienza da cui estraiamo la nostra forza. La giochiamo con “l'intelligenza degli elettricisti” (sempre Paolo Conte, Gelato al Limòn, 1979), perdendo liquidi, boccheggiando, correndo il triplo, rattoppando, raddoppiando. Invece il Brasile non ha versato nemmeno una goccia di sudore quando in cinque minuti ha cancellato il nostro primo vantaggio: l'enorme classe dei singoli ha reso elementare la combinazione tra Socrates e Zico, classe e velocità in tre tocchi. Due monumenti come Scirea e Zoff sono usciti umiliati dalla giocata del "

".

 

Lo stesso è successo in occasione del 2-2, quando il Brasile si era già reso conto che per portare a casa la pelle occorreva uno sforzo superiore al previsto: ma Cerezo ha eseguito con naturalezza da sambeiro il movimento che ha disorientato l'intera nostra difesa e ha aperto la porta a Falcao. Bergomi ha provato a opporsi con un goffo spasmo che ha finito per complicare il lavoro a Zoff, ingannato dall'impercettibile deviazione. L'inganno è così ben congegnato che ne ha fatto parte persino il portiere, autore di un Mondiale fin lì bruttino, con responsabilità sul pareggio del camerunese M'Bida e sulla punizione a sorpresa di Passarella sei giorni prima. Ha colpe anche sul gol di Socrates, non ha fatto miracoli sul gol di Falcao e fin lì si è opposto soprattutto d'istinto, con il corpo, alle sortite di Cerezo e Serginho. A vederla oggi con il distacco dell'archeologo, la logica ha sempre soffiato alle spalle dei brasiliani; ma nel pomeriggio troppo azzurro del Sarrià la logica è sospesa, sostituita da un'estemporanea commissione giudicante che ha inteso punire con severità da legge marziale qualsiasi loro mollezza e concessione al ricamo.

 


Noi abbiamo festeggiato, è quarant'anni che festeggiamo, e riteniamo giusto e inevitabile l'andamento di Italia-Brasile del 5 luglio 1982. Ma è giusto ricordare che oltre Ventimiglia, Como e Tarvisio c'è tutto un mondo che ha ancora non ha capito: da quale tombino dell'anima è sbucato fuori tre volte Paolo Rossi, da dov'è saltata fuori l'idea di lanciare addosso ai brasiliani un diciottenne come Bergomi (presenze in Nazionale, una), come ha fatto Zoff a bloccare sulla linea una palla che era già miracoloso respingere? In cerca di qualcosa che li rassicurasse, tutti gli altri (a cominciare da Pelé) hanno eletto a miglior giocatore del Mondiale il più internazionale degli italiani, il più comprensibile al resto del mondo, quello di noi che trasmetteva più di tutti gioia di vivere e di giocare a calcio: Bruno Conti. Ma come glieli spieghi Claudio Gentile, Ciccio Graziani, Lele Oriali?

 

Italia-Brasile è il manifesto della nostra diversità esistenziale. Quest'estate infinita dura da quarant'anni, continua a durare: e chi in queste partite senza ritorno sottovaluta il ruolo dell'irrazionale, impalpabile come Paolo Rossi in un'area di rigore, o canta vittoria in anticipo – per esempio gli inglesi, giusto l'anno scorso – finisce bruciato e dannato. Per tanta gente sparsa per il mondo, il banalissimo nome e cognome di Paolo Rossi fa l'effetto della musica di Profondo Rosso (Profondo Azzurro). Quello stato d'animo che fa sì che ancora oggi nelle notti d'estate senza luna i padri dicano ai figli e i commissari tecnici ai calciatori: fate attenzione agli italiani. Non fa niente che ora siamo fuori dal secondo Mondiale consecutivo dopo esser finiti dietro non all'Argentina di Maradona né al Brasile di Zico bensì alla Svizzera di Sommer che in tedesco – pensate un po' – vuol dire “estate”.

 

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