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Daniele Manusia
Abbiamo superato tutti i limiti possibili e immaginabili
05 mar 2024
05 mar 2024
Le polemiche arbitrali in Serie A si fanno sempre più violente.
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Daniele Manusia
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IMAGO / Action Plus
(foto) IMAGO / Action Plus
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«C’è un famoso limite oltre il quale non bisogna mai andare», dice Claudio Lotito guardando dritto in camera, misurando le parole, sufficientemente vago, eppure consapevole di quanto grossa la stesse sparando, forse persino un po’ divertito nell’esercizio del proprio potere. «E mi pare che oggi abbiamo superato tutti i limiti possibili e immaginabili». E come dargli torto. Lazio-Milan è stata una partita delirante, al confine con il comico. Quando al 96esimo minuto di gioco l’arbitro Marco Di Bello arriva di corsa su Guendouzi e Pulisic e tira fuori da ciascuna tasca del suo pantaloncino un cartellino, giallo nella mano destra e rosso nella sinistra, brandendoli in alto come la Dea Kali - la dea dalle quattro braccia, la dea della morte, del tempo, “del potere supremo” dice Wikipedia - francamente a chi non è venuto da ridere? ___STEADY_PAYWALL___ Quella era la terza espulsione di una partita fatta quasi solo di episodi arbitrali, con un gol segnato un po’ a caso che tra una settimana faticheremo a ricordare. Al contrario dell’espulsione di Luca Pellegrini, ammonito la seconda volta per aver trattenuto Pulisic dopo aver provato a far uscire la palla in fallo laterale per permettere i soccorsi di Castellanos colpito al volto. Così come ricorderemo, più del gol di Okafor, la scivolata di Maignan che dentro la propria area colpisce prima la palla e, poi, sullo slancio, sempre Castellanos. E ricorderemo meglio persino l’espulsione di Marusic, per una mezza parola detta sottovoce, dopo un fallo di gioco banale fischiato a partita quasi finita. Ok, quindi diciamo che Di Bello ha passato il limite (il designatore Rocchi ha detto poi a DAZN che gli ha mandato un messaggio mortificato). Ma con chi ce l’aveva Lotito, chi è esattamente che ha passato il limite? Lui non lo ha detto. «Manca l’affidabilità del sistema», ha detto, sempre a DAZN, invocando l’intervento di «istituzioni terze che pongano fine a questa situazione che sicuramente è incresciosa». Neanche alla Rai, stimolato da un incredulo Marco Mazzocchi, Lotito ha voluto essere più preciso. «Si auspica l’intervento di chi, presidente?», ha chiesto il presentatore. «Io non auspico nessuno», ha risposto lui. Per poi aggiungere: «Scusi, se lei si sente, come dire, si sente violentato, lei a chi si rivolge? Me lo dica lei, a chi si rivolge? Si rivolgerà a chi è preposto a garantire il rispetto delle leggi, no?».

Secondo una ricostruzione del Messaggero, Lotito ce l’aveva con Gravina e aveva l’intenzione di sporgere denuncia contro ignoti. E magari, perché no, in quanto senatore avrebbe potuto richiedere un’interrogazione parlamentare. Il tutto nel contesto del caso politico di strettissima attualità che i giornali chiamano "Dossieraggio" (informazioni ottenute per aprire indagini fittizie da un pm antimafia e da un membro della Guardia di Finanza) in cui Gravina sarebbe finito per via di un ex collaboratore oggi finito nella sfera di influenza di Lotito. Insomma, guerre politiche personali che con il calcio hanno poco a che fare. Oppure, al contrario, secondo il Corriere dello Sport, Lotito avrebbe valutato la possibilità di far rigiocare Lazio-Milan usando come un grimaldello l’eventuale errore di valutazione di Di Bello sulla scivolata di Maignan. Ma non è anche questo oltre il limite? Un dirigente, un presidente, che parla in questo modo in TV, che minaccia non si capisce bene cosa, che dichiara l’inaffidabilità del sistema, non è troppo considerando che in fin dei conti si tratta di episodi un po’ al limite? Non ci dovrebbe essere un limite da non oltrepassare anche considerando che Di Bello ha esagerato, che poteva gestire in maniera diversa la partita e magari non espellere nessuno dei tre giocatori che ha espulso? Oppure quando si pensa di avere ragione tutto è permesso?Una settimana di ordinaria folliaSabato scorso, dopo la partita tra Udinese e Genoa, l’ex giocatore oggi dirigente Federico Balzaretti si è presentato al microfono al posto dell’allenatore per «difendere la mia squadra» (anche Lotito era venuto a parlare, stando alla sua introduzione, per evitare "strumentalizzazioni") ma facendo capire che si trattava di un problema che riguardava tutti. Soprattutto però voleva parlare di un episodio specifico, del gol annullato all’Udinese per fallo di Lucca su De Winter.«Qua il ragazzo va a contatto insieme e prende... chiaramente prenderà anche un po’ il piede di De Winter, ci mancherebbe ma la palla va in direzione della porta perché lui la prende». A questo punto dallo studio qualcuno usa la parola “contrasto” e Balzaretti si esalta. «È un contrasto, bravo! È esattamente un contrasto, vanno insieme sullo stesso pallone e la palla prende e va… vanno sullo stesso pallone e fatto sta che alla palla il giro glielo dà il piede di Lucca».Non è vero, il piede di Lucca spinge quello di De Winter che spinge la palla in porta - che dà il giro alla palla - ma nessuno dallo studio lo fa notare a Balzaretti. Che ne fa una questione più generale: «Basta. Facciamo giocare i giocatori. Stop. Non si può intervenire per ogni fallo, per ogni contatto. Facciamo arbitrare gli arbitri tranquillamente». Che è doppiamente strano, sia perché la richiesta di non intervenire per ogni fallo non è del tutto legittima, sia perché in questo caso l’arbitro aveva fischiato subito fallo, senza bisogno di rivedere l’azione: gli arbitri devono essere liberi o in questo caso il VAR deve correggere la valutazione di campo? Nessuno dallo studio ha cercato di capire meglio il pensiero di Balzaretti. Pochi giorni dopo, alla fine del recupero infrasettimanale tra Inter e Atalanta, c’è stata una scenetta diametralmente opposta tra il commentatore esperto di arbitri e regolamento Luca Marelli e l’amministratore delegato dell’Atalanta, figlio del proprietario dell’Atalanta, Gianluca Percassi. Parlando del gol annullato a De Ketelaere per un tocco di mano di Miranchuck in un contrasto con Bastoni. «Non c’è alcun tocco», ha esordito Percassi. «Poi le immagini… evidentemente la VAR ha creato quest’effetto di poter interpretare anche delle cose oggettive».Marelli però ha provato a convincerlo. «Il tocco di braccio c’è». Ma Percassi insisteva. «Non c’è tocco di braccio». «Eccolo qua», ha continuato Marelli, mentre dalla regia mostravano l’inquadratura migliore. «Non c’è il tocco di braccio, è Bastoni che tocca la palla. Se lei guarda bene le immagini…». Marelli a quel punto un po’ nervoso: «No Percassi, lo abbiamo guardato veramente tante volte». Ma Percassi era inflessibile: «Va bene, anche noi».È stato strano vedere due uomini adulti discutere animatamente per una cosa così piccola, una cosa che al tempo stesso c’era e non c’era, a seconda del punto di vista. Il fatto è che il tocco di mano c’era, ma così lieve e impercettibile che Percassi poteva negarlo senza sembrare pazzo. L’arbitro della partita, in quel caso, aveva lasciato correre l’azione, anzi aveva chiaramente fatto segno che non c’era niente, prima ancora che De Katelaere segnasse, eppure era abbastanza vicino da poter notare un tocco di braccio rilevante.

A che servono gli arbitri?Più che aver oltrepassato il limite, pare che qualcuno ci sia passato sopra confondendo, sfumando la linea stessa da non passare. Persino la linea tra “verità oggettiva” e soggettività non sembra più esistere - forse non è mai esistita - indipendentemente da quanto si ingrandisca e rallenti un’immagine. E se un dirigente può permettersi di andare in televisione a negare il giudizio di un arbitro, e insieme dei suoi collaboratori in campo, e insieme degli arbitri che sono stati messi in una stanza a guardare le immagini da ogni angolatura possibile proprio per evitare errori, e insieme quello di un analista seduto in uno studio televisivo, e insieme quello del designatore arbitrale che interviene pubblicamente per fare ammenda nel caso, allora perché i giocatori in campo dovrebbero accettare le loro decisioni? Perché un normale tifoso dovrebbe accettare decisioni contrarie alla propria squadra? Perché, anzi, dovrebbe guardare le sue partite, spendere dei soldi, dedicare tempo a un sistema “inaffidabile” che va commissariato? Periodicamente dirigenti e presidenti si preoccupano di come mantenere il calcio interessante, di cosa fare per non allontanare tifosi e spettatori, pensano riforme anche radicali e se la prendono con i videogiochi, con i social-network, in alcuni casi con i giocatori stessi che non hanno più morale. Senza mai farsi una domanda sul loro comportamento, su cosa di diverso potrebbero fare loro. Al Business of Football Summit, organizzato dal Financial Times la scorsa settimana (parliamo sempre di cose successe nel giro di pochi giorni), Aurelio De Laurentiis ha detto che gli arbitri sono una casta. «Io per esempio quando vedo il cartellino giallo a me mi fa ridere, mi fa tanta tenerezza. O il cartellino rosso, mi fa prima tenerezza e poi mi fa rabbia», ha detto. «Perché la classe arbitrale è una classe che dovrebbe dipendere dai club e con la quale i club dovrebbero dialogare affinché questi signori non siano una casta ma siano dei collaboratori».De Laurentiis ce l’aveva in particolare con le espulsioni degli allenatori, una cosa che prende sul personale. «Tu mi vai a espellere un allenatore? Ma io ti mando a quel paese centomila volte». Al massimo una multa, se l’allenatore offende, dice sempre De Laurentiis. E da qui arriva a dire che «sembriamo una barzelletta».Quindi, se Lotito chiede addirittura l’intervento di un’istituzione esterna al calcio, De Laurentiis invece vorrebbe portare la cosa ancora più all’interno, facendo dipendere in qualche modo (economicamente, suppongo) gli arbitri dai club, cioè dalla Lega. Anche qui: dov’è il limite? Se Lotito ha (in teoria) il potere di chiedere un’interrogazione parlamentare, De Laurentiis (che nel frattempo ha anche deciso di prendersela con DAZN) può davvero pretendere che si comportino come suoi dipendenti? Ci credono davvero alle cose che dicono o sono solo giochi di potere, il tentativo, nel caso di De Laurentiis, di rendere più forte la Lega rispetto alla Federazione? E questa confusione dei piani che effetto ha sulla nostra cultura?Ma la confusione sembra riguardare anche l’utilità di fondo degli arbitri. È come se con l’aumentare del loro potere, dei loro strumenti, sia progressivamente meno chiara la loro funzione primaria. Insomma a cosa servono? A fischiare eventuali falli o a fare in modo che in campo venga rispettata una presunta “verità” oggettiva? Oppure ancora a qualcosa di diverso? Gianluca Rocchi ha dato una risposta, anche se la domanda non era proprio questa. Si parlava in quel caso dell’arbitro Marchetti e della seconda ammonizione per Samuele Ricci che ha lasciato in dieci il Torino contro la Fiorentina. Arrivata pochi minuti dopo la prima, per le proteste successive a un fallo subito per cui poi, lo stesso Marchetti, ha ammonito un giocatore della Fiorentina, ma solo dopo aver ammonito Ricci - espulso, quindi, per aver chiesto un’ammonizione che poi in effetti l’arbitro ha dato. Rocchi ha detto che un bravo arbitro deve «schiacciare emotivamente» la partita quando sale di tono. «Tu devi essere bravo ad abbassare i toni e non a rincorrerli.Perché se li rincorri alla fine finisci nel vortice della partita e non sei più tu che guidi la partita. Loro hanno bisogno di una guida».Ah sì? I giocatori hanno bisogno di una guida? Gli arbitri guidano le partite? Forse Rocchi non si rende conto di quanto suoni male una frase del genere ma è proprio il pensiero di fondo che non va. È un’idea moralista e paternalista che fa somigliare l’arbitro a una specie di sacerdote che deve tenere sotto controllo i “bollenti spiriti” dei calciatori, sottintendendo che, senza arbitro, sarebbe l’anarchia e il caos (il che spiega anche questa nuova linea intollerante nei confronti delle proteste). D’altra parte è lo stesso paternalismo con cui si pensa che comunicando le proprie decisioni, le proprie interpretazioni delle regole, il pubblico non possa che essere d’accordo con loro. Come se gli arbitri fossero i rappresentanti in terra di una sorta di legge divina (forse è a questo che pensa De Laurentiis quando chiama gli arbitri «dei superbi personaggi»), un regolamento che è sopra di loro, piovuto dal cielo. E invece non solo le regole cambiano continuamente (e le cambiano delle persone in carne e ossa, e cioè i membri dell'IFAB) ma anche la loro applicazione non può essere mai automatica. Luca Pellegrini non andava espulso per forza di cose, Di Bello sarebbe potuto intervenire subito prima - si vede che si gira per guardare in direzione opposta al pallone, verso Castellanos - o anche semplicemente tenere conto del contesto (sì, anche dell'ingenuità palese di Pellegrini) e non applicare in modo rigido la regola. Invece ha scelto di far giocare come niente fosse, come se Pulisic fosse stato trattenuto in un'azione normale, e quindi punire Pellegrini. Ci sta, gli arbitri scelgono di continuo. E non vedono tutto. La partita è piena di falli non visti, falli a metà, sorvolati, ma per qualche ragione si pretende che in area di rigore - o all'interno di un'azione da gol - non debba sfuggire niente a nessuno. Si cercano i falli per un senso astratto di giustizia, di verità. Come risultato, però, è diventato non solo più difficile capire le diverse decisioni degli arbitri, proprio perché il confine tra oggettivo e soggettivo spesso è labile (e lo dimostrano le stesse contraddizioni arbitrali: ultima, quella di ieri sera sul rigore per l'Inter, prima fischiato da Airoldi, poi oggetto di "on field review", come se il VAR avesse chiamato l'arbitro per toglierlo, e poi invece confermato da Airoldi anche se molto dubbio). Il regolamento non riesce a includere ogni possibile caso e questa scientificità sembra portare a un minore rispetto per la soggettività delle decisioni dell’arbitro (forse, questa scientificità nasce anche da una scarsa fiducia nell'arbitro). E questo vale per tutti, anche per i calciatori, che con il VAR si sentono autorizzati a protestare a priori, perché chissà magari una ragione per annullare quel gol o fischiare un rigore qualsiasi la si trova. Tra il flusso del gioco e la scomposizione virtuale allo schermo c'è una conflittualità che è difficile negare e che infastidisce il pubblico, più che tranquillizzarlo. Lo dice Rocchi parlando del gol di Zapata annullato al VAR, per un fallo visibile anche a occhio nudo: «Tutte le decisioni che prendi in campo sono decisioni che vengono accettate in maniera migliore». Ma allora perché non si usa meno il VAR? Perché non ricorrono al VAR solo per casi eccezionali, per evitare, giustamente, errori, sviste fuori dal comune, ma rispettando il più possibile la gestione in campo dell'arbitro?Vedere l’arbitro come il pilota della partita, il capitano che deve portare in porto la nave, sottintende un’idea invadente di arbitro, come parte sempre più in gioco, mentre per la maggior parte delle persone l’arbitro dovrebbe essere una presenza il più possibile invisibile. Fondamentale, per carità, ma meno lo si nota e meglio è. Magari su questo non saremo tutti d’accordo, ma sicuramente l’arbitro non è - o non dovrebbe essere - una guida. I calciatori non hanno bisogno di una via di mezzo tra un angelo custode e un vigile (come Immobile ha chiamato Di Bello su Instagram) che gli ricordi di fare i bravi o che li mandi all’inferno. Così come i presidenti non sono i proprietari assoluti del calcio, divinità onnipotenti in virtù del loro capitale. Ha ragione Lotito. È stato superato «ogni limite immaginabile» quest’anno, non solo nell’ultima settimana. Ma lo hanno superato tutti gli attori coinvolti. E mentre loro discutono, spiegano e difendono il proprio onore in TV, forse hanno dimenticato di non essere soli.

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