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Pogacar ha dominato senza accorgersene
19 lug 2021
19 lug 2021
Il ciclista sloveno ha vinto il Tour de France senza alcuno sforzo apparente.
(articolo)
14 min
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Dopo aver spezzato il dominio britannico ed essersi preso la maglia gialla del Tour de France 2020, Tadej Pogacar è riuscito nell’impresa di fare un bis che sulle strade di Francia mancava dal 2017, quando Chris Froome vinse il suo quarto e ultimo Tour de France, il terzo consecutivo. Se la vittoria dell’anno scorso era però arrivata all’ultimo respiro, in quell’ultima rocambolesca cronometro in cui uno spento Primoz Roglic aveva ceduto bruscamente sotto i colpi a distanza del suo connazionale e rivale, la vittoria di quest’anno è invece il coronamento di un percorso, l’esaltazione massima del suo dominio.

Dopo la prima settimana di dominio assoluto - con la vittoria nella cronometro di Laval e il grande numero nella tappa alpina con arrivo a Le Grand Bornand, in cui ha rifilato 3’20” a tutti i suoi avversari - nelle due settimane successive ci si aspettava un dominio ancor più netto, complice il ritiro forzato di Primoz Roglic, l’unico che avrebbe probabilmente potuto tener testa al campione in carica. Si parlava addirittura di quando e come Pogacar avrebbe potuto rifilare quei 5 minuti che gli mancavano per vincere il Tour de France con oltre 10 minuti di vantaggio, come non si vedeva da tempo immemore.

Con un Tour de France già chiuso dopo una settimana, l’attenzione si era quindi spostata non tanto sul “chi” avrebbe vinto - che era cosa già scontata - quanto più sul “come” Pogacar avrebbe deciso di vincere la sua seconda maglia gialla. Quali altre imprese avrebbe regalato agli appassionati di ciclismo. Ma con il passare dei giorni e delle tappe, delle montagne domate da Pogacar senza che gli avversari potessero in alcun modo impensierirlo, si è insinuato anche il più subdolo e viscido dei dubbi che nel mondo del ciclismo spesso si abbatte su chi non si limita semplicemente a vincere ma dimostra di essere nettamente superiore ai suoi avversari.

C'è da dire che chi segue il ciclismo da un po' di tempo è traumatizzato da vent’anni di scandali e positività improvvise, di operazioni antidoping e caccia alle streghe. Una stagione, questa, che ci ha portato a eliminare dai nostri ricordi, in una strana forma di damnatio memoriae, chiunque venga colto in flagrante. Tutti? Quasi: perché questa operazione mentale da un lato tendiamo più spesso a farla con chi per un motivo o per l’altro ci risulta antipatico; dall’altro lato ci inerpichiamo in complesse piroette e arrampicate sugli specchi per negare l’evidenza nei confronti di chi, invece, per noi è intoccabile. Forse non riusciamo ad accettare che le persone che ammiriamo possano essere “colpevoli”.

E così, nel giro di neanche 12 mesi, Tadej Pogacar è passato dall’essere il ragazzo che combatte contro il dominio del robot Roglic all'essere il cannibale venuto dall’Est Europa, con un sottotesto vagamente razzista sulla possibilità che le sue vittorie alla fine non siano così pulite. Vittima della stessa forma di subdolo razzismo che aveva colpito Primoz Roglic, oggi Pogacar si ritrova a doversi difendere da accuse infamanti e senza alcuna prova a sostenerle. In questo pezzo di due giornalisti francesi molto rilevanti nel racconto del Tour, Antoine Vayer e David Guénel, per esempio si cercano collegamenti fra Pogacar e Armstrong, persino nel fatto che la loro storia sia in qualche modo legata al cancro (Armstrong l'ha vissuto in prima persona, Pogacar ha dedicato la vittoria al suo DS Allan Peiper malato di cancro). Ma soprattutto si fa riferimento al fatto che, come dicevamo, in alcuni paesi "notoriamente" i ciclisti sono meno sorvegliati da un punto di vista dei controlli antidoping, per poi chiudere con un turbinio di paragoni fra Pogacar e Gaudu, il giovane pupillo del ciclismo francese che ha chiuso solo 11esimo, nonostante da U23 abbia vinto come Pogacar il Tour de l'Avenir. Il pezzo ovviamente omette di menzionare la sua caduta, che ha compromesso buona parte del suo Tour de France, e sembra invece stimolare il retropensiero del lettore, come a dire: se da giovani sembravano alla pari, perché adesso invece uno sembra così più forte dell'altro?

Ovviamente tutto è possibile, ma per muovere accuse così gravi - anche solo velatamente - ci vorrebbero diverse prove molto solide. Certo, sarebbe naïf pensare che questo tipo di cose non possano succedere, ma fino a prova contraria Pogacar si è semplicemente dimostrato troppo più forte degli altri in questo Tour de France. Sarebbe scorretto e pericoloso sminuire il suo talento, quell'anormalità che da sempre distingue i fenomeni da tutti gli altri ciclisti.

Differenze

Per adesso, insomma, ci dobbiamo attenere alla massima valida per il ciclismo, come per ogni sport: chi vince, spesso, è più forte degli altri. E Pogacar, in questo senso, non è diventato più forte degli altri dall'oggi al domani. I numeri raramente mentono. E a guardare i numeri degli ultimi due Tour de France vinti da Tadej Pogacar si noterà che non sono poi così differenti. Basta guardare i distacchi nella classifica generale del 2020 dove - tolto Roglic a 56” - il quarto classificato (Mikel Landa) è a quasi 6 minuti, Enric Mas a 6’07”, Rigoberto Uran a 8’02”. Distacchi impressionanti ma non così dissimili rispetto a quelli di quest’anno soprattutto se consideriamo che Pogacar ha avuto ben due tappe a cronometro dove incrementare il suo vantaggio sugli avversari.

Considerando poi anche il fatto che il Tour de France 2020 fu più caratterizzato da un dominio della Jumbo-Visma, rincorsa da tutti gli altri, diventa più spiegabile la vittoria incontrastata del ciclista sloveno quest'anno. Non è tanto Pogacar che sta andando più forte del solito, o almeno non solo, quanto l’assenza di avversari credibili che lo fa sembrare un alieno. Anche secondo Matxin, il direttore sportivo della UAE Emirates, i numeri di Pogacar non sono così diversi rispetto a quelli del 2020. «Tadej è a un livello molto simile rispetto allo scorso anno», ha detto Matxin in un’intervista a AS «Tuttavia non ha sofferto per le cadute e il nervosismo nella prima parte al contrario di Roglic e Thomas». E questo ha fatto sì che - senza soprattutto Roglic - il distacco con gli altri avversari sembrasse davvero impressionante.

In particolare fa impressione il ritardo in classifica di Richard Carapaz, unico leader rimasto in casa Ineos in questo Tour de France. Il vincitore del Giro d’Italia 2019 era considerato il terzo incomodo nel duello fra i due sloveni, ma saltato Roglic non ha saputo in alcun modo resistere allo strapotere di Pogacar dimostrando di non essere all’altezza del fuoriclasse sloveno, almeno in questa occasione. La Ineos, nonostante i grandi proclami della vigilia sulla volontà di correre un Tour de France all’attacco, si è dimostrata incapace di adattare le proprie strategie al dominio del ciclista sloveno provando a correre come fa di solito, ovvero trenino in salita e tutti dietro. Contro uno che sul passo in salita è forse il migliore al mondo, però, non si è rivelata una grande idea, soprattutto quando il tuo capitano è uno scalatore agile e imprevedibile. Avrebbero forse potuto inventarsi qualcosa di diverso, magari provare delle azioni dalla distanza o degli attacchi meno telefonati. Invece hanno scelto di correre come sempre, portando ogni volta Carapaz al faccia a faccia contro Pogacar. Non hanno cercato di isolare lo sloveno per attaccarlo da lontano ma hanno preferito portarlo in carrozza fino all’ultima salita e poi provare a giocarsela nello scontro diretto con Carapaz. Una tattica che non ha funzionato per portare in maglia gialla il ciclista ecuadoriano, ma che forse era la più sicura per conservare il piazzamento in classifica generale.

La differenza fra la solita Ineos e quella offensiva e garibaldina che tutti ci aspettavamo alla vigilia, quindi, alla fine non c’è stata. E questo ha fatto sì che Pogacar potesse permettersi di vincere il Tour de France senza neanche doversi prendere il rischio di forzare, di osare quel poco di più del necessario. Fondamentalmente, gli avversari hanno gettato la spugna dopo la prima settimana, più attenti a conservare il piazzamento che ad attaccare la maglia gialla. Una scelta che ha anche un suo senso, vista la superiorità schiacciante mostrata da Pogacar sulle Alpi.

Gli altri avversari, la Jumbo-Visma, privati del capitano Roglic hanno dovuto improvvisare un piano B affidandosi totalmente al danese Jonas Vingegaard. Una scommessa più che vinta, alla luce del secondo posto in classifica generale ottenuto dal 25enne atleta delle vespe, che ha accusato un distacco forse anche più pesante di quanto non meritasse. Probabilmente bloccato all’inizio dall’idea di dover fare da gregario a Roglic, poi sulle Alpi si è ritrovato nella scomoda situazione di non conoscere fino in fondo i suoi limiti. Si è quindi accontentato di andar su nel gruppetto dei vari Uran, Mas e compagnia, tutti uomini di classifica con molta più esperienza di lui nelle grandi corse a tappe.

Si è fidato, in un certo senso, più dei suoi esperti avversari che delle sue sensazioni. Cosa che invece non ha fatto nella seconda settimana e poi sui Pirenei, dove ha messo in luce tutta la sua forza riuscendo anche a mettere in difficoltà la maglia gialla nella seconda scalata al Mont Ventoux. Vingegaard è stato l’unico, insomma, che è riuscito ad aprire una piccola crepa nel muro delle certezze di Tadej Pogacar. Forse un segnale per il futuro.

Tamau

Tadej Pogacar però ha controllato, come abbiamo detto. Ha gestito tutto il vantaggio accumulato nella prima settimana per poi limitarsi a vincere le ultime due tappe pirenaiche, più per onorare la maglia gialla che per fare ulteriori distacchi. Forse la cosa più impressionante, in questo senso, è che il ciclista sloveno non sembra nemmeno al massimo delle sue potenzialità. Il fisico di Pogacar, infatti, non è tirato all’estremo nella disperata ricerca dei marginal gains, e non ha dovuto fare quei sacrifici estremi che altri prima di lui hanno dovuto fare per arrivare a competere nelle grandi corse a tappe. Il fisico di Tadej Pogacar è già di per sé adatto a questo tipo di sforzi, naturalmente. La sua crescita, infatti, è sempre stata costante e graduale fin da ragazzino, quando correva di straforo con i ragazzi più grandi (spesso battendoli) o quando dominava prima il Giro della Lunigiana fra gli Juniores e poi il Tour de l’Avenir fra gli U23.

La straordinarietà di Pogacar allora forse risiede proprio nell’ordinarietà della sua crescita e del suo sviluppo, nel fatto cioè di non aver dovuto subire una qualche trasformazione per diventare quel che è adesso. In un ciclismo che ci aveva abituato a improvvise ascese e repentine modifiche, che ci aveva abituato cioè a vedere ciclisti che dovevano snaturare completamente il proprio fisico per poter essere competitivi, forse l’arrivo di un giovane talento purissimo che vince apparentemente senza doversi sottoporre a quel tipo di trattamenti ci porta paradossalmente allo stupore e al sospetto. Tanto più che Pogacar di fronte a questi sospetti ha risposto "alla Armstrong", e cioè che i ciclisti come lui sono sempre super controllati e che è sempre risultato negativo a tutti i test antidoping. D'altra parte, cosa dovrebbe rispondere? Pogacar, forse, paga proprio la sua ingenuità, che lo porta a volte ad elogiarsi come il più esplicito dei trapper nostrani.

Inizio stentato ma si riprende un po’ nel finale. Dovrebbe lavorare un po’ sul flow.

«Ho iniziato a correre nel 2008. Nel 2007 il coach è venuto a cercare ciclisti per la squadra e voleva mio fratello perché era di un paio d’anni più grande di me», ha raccontato Pogacar in una lunga intervista di pochi mesi fa, «Io però volevo fare tutto quello che faceva mio fratello, come sempre, e sei mesi dopo ho iniziato a correre anch’io perché nel frattempo ero cresciuto abbastanza per salire su una bici da corsa». Una scelta non dettata dalla passione, se vogliamo, ma più dallo spirito di emulazione. Tanto che quando l’intervistatore gli chiede di descrivere la sensazione di libertà che prova andando in bicicletta, Pogacar non sa neanche cosa rispondere. E sugli idoli da seguire dice: «Penso che fossi ispirato dal fatto di poter correre e migliorarmi, per andare sempre più forte ogni volta. Non avevo nessun eroe o idolo quando ero giovane. Non sono mai stato quel tipo di persona. Avevo delle persone intorno a me a cui guardavo, per diventare come loro: nice people».

Quello che colpisce in tutta l’intervista è la totale assenza da parte di Pogacar, nonostante i tentativi dell’intervistatore, di qualsivoglia senso di essere arrivato al vertice di una qualche piramide, di sentirsi speciale in qualche modo. Le sue risposte sono sempre pacate, a volte imbarazzate come capita a tanti ragazzi timidi della sua età quando si prova ad esaltarne i risultati. Anche le sue vittorie ormai epiche sono descritte con semplicità: «Quando vinci battendo qualcuno allo sprint hai molte più emozioni di quando vai via da solo e semplicemente arrivi al traguardo e hai vinto. Voglio dire: è un’emozione grande, ma non ti dà la stessa eccitazione di quando batti qualcuno allo sprint e puoi alzare le braccia e urlare di gioia». Pogacar sembra ancora avere l'ingenuità di non avvertire il ciclismo solo come professione, ma di usarlo come mezzo per arrivare alla gioia e all’eccitazione della vittoria, come in un gioco qualunque.

Pogacar, in definitiva, non sembra essere cosciente della sua straordinarietà. Forse perché viene da un paese, la Slovenia, che non ha una grande tradizione ciclistica, o forse perché anche lui nel ciclismo c’è finito quasi per caso. Quando gli chiedono dei momenti peggiori nel Tour 2020, le sue risposte vanno sempre a pescare dei brutti momenti capitati a suoi compagni di squadra: la caduta di De La Cruz, la frattura della clavicola di Davide Formolo, il ritiro di Fabio Aru. Nei suoi stessi ricordi, la sua personalità scompare per fare spazio alle difficoltà dei suoi compagni, come se il suo ruolo fosse un po’ come quello dell’ape regina all’interno del grande organismo dell’alveare, in cui ogni ape ha il suo ruolo ma ognuna di esse esiste solo in funzione delle altre e solo grazie alle altre.

Non è un caso infatti che i suoi stessi compagni non perdano occasione di esaltarne lo spirito umile e pacato. «Non rompe mai», ha detto di lui Rafal Majka al termine del Tour 2021 in cui il polacco ha svolto con grande dedizione il suo ruolo di gregario soprattutto nelle due tappe pirenaiche. Uno spirito che viene fuori anche oltre il discorso della squadra, anche a livello personale con i suoi connazionali ciclisti e in particolare con l’amico-rivale Primoz Roglic. «Quando ho vinto il Tour de France non penso che fossi così felice come avrei dovuto essere», racconta ancora. «Ho sempre fatto il tifo per lui in questi anni, lo guardavo correre e vincere in TV. Ha portato in alto il ciclismo sloveno».

E forse è anche per questo che Tadej Pogacar sembra non accusare la pressione come altri suoi colleghi. Nonostante venga da un paese che si poggia praticamente solo su di lui (e su Roglic), Pogacar non fa mai menzione di questo fatto in nessuna intervista. Al contrario di Egan Bernal, che ha più volte dichiarato di sentire fortemente il peso della pressione di tutta la Colombia sulle spalle, o ancora di Tom Dumoulin che pochi mesi fa si è ritirato (per poi tornare a correre con più calma e senza troppe pretese) per gli stessi motivi.

«Nessuno mi ha mai messo pressione e io non metto mai pressione a me stesso. Anche se qualcuno ti mette pressione devi riuscire a dire “ok, pazienza” e fare il meglio che sai fare. Perché se fai il tuo meglio non hai nulla da rimproverarti, ma se metti pressione a te stesso non è detto che tu riesca a dare il 100%». È una visione anche un po’ naif, in un certo senso. Ingenua nel suo essere così semplicistica. Eppure il modo che ha Pogacar di divertirsi in quello che fa, di prepararsi con calma e consapevolezza per gli appuntamenti importanti, sembra dare ragione al giovane sloveno. Non so fino a che punto l’assenza di pressione lo porti a pensare al ciclismo come a un gioco o quanto sia invece vero il contrario, ma fatto sta che Pogacar sembra per il momento dimostrare una solidità anche mentale che gli deriva dalla sua grande confidenza nei propri mezzi che altri non hanno. È anche vero però che Pogacar dice di non sentire la pressione perché «fin da quando sono un ragazzino, ogni anno sono sempre migliorato». E resta da capire come reagirà quando invece qualcosa comincerà ad andare in maniera diversa - o quando anche solo il suo fisico, per mere questioni anagrafiche - smetterà di supportarlo in questo costante miglioramento.

Per il momento, però, quel che emerge da Tadej Pogacar è la sensazione di essere di fronte a un ciclista giovanissimo che è del tutto inconsapevole della sua grandezza e della possibilità che ha di sfondare a calci la storia del ciclismo. Ha già vinto due volte il Tour de France (in due sole partecipazioni), ha vinto la Liegi-Bastogne-Liegi, ha un podio alla Vuelta nel 2019 (al primo anno fra i professionisti) e in futuro ha già messo nel mirino di voler provare a correre (e vincere) due grandi corse a tappe nello stesso anno. Ma quando lo dice, non lo fa con il peso di chi sente di aver appena detto di voler provare a entrare nella storia, anzi. Il suo modo di dire di voler provare a fare anche le cose più incredibili è sempre tranquillo, come se non fosse pienamente consapevole di ciò che dice.

Lo si può guardare quindi senza retorica per quel che appare: un ragazzo che corre con il sorriso stampato sulla faccia e una ciocca di capelli che spunta selvaggia dalle fessure sul caschetto. Un’immagine che - volente o nolente - è già un’icona del ciclismo contemporaneo.

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