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Plusvalenze FC
30 apr 2015
30 apr 2015
Piccola indagine sul complicato sistema delle plusvalenze nel calcio.
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Tecnicamente con il termine “plusvalenza” si intendono i ricavi derivati dalla differenza fra il valore di vendita di un calciatore e quello a cui lo stesso è registrato in quel momento nel bilancio, dopo aver scontato gli ammortamenti del periodo in cui è stato di proprietà di una squadra. Ma dietro questa parola magica si nascondono altri significati. L'esempio del Porto Il club spesso citato come prototipo di plusvalenzificio è il Porto FC, che è riuscito a conciliare ottimi risultati sportivi con benefici netti dalla vendita dei calciatori che, negli ultimi 10 anni, hanno superato i 300 milioni di euro. I guadagni più importanti sono stati quelli di Falcao (+42 mln), James Rodriguez (+38), Hulk (+36) e Mangala (+33,5). Certo, non è tutto oro ciò che luccica: l’ultimo bilancio si è chiuso con una pesante perdita di 40 mln di euro, proprio per effetto del crollo del valore delle plusvalenze, diminuite dai 76,4 mln della stagione precedente a 23,9 mln. Valori importanti, che molte squadre di sognano, ma che certificano come ormai la squadra portoghese sia in un certo senso prigioniera del suo stesso modello di business: per competere a livello internazionale, specialmente in un mercato povero di altre entrate (i ricavi da diritti televisivi sono in media fra i 25 e i 30 mln di euro, praticamente quanto una media squadra di Serie A), il Porto deve dotarsi di calciatori di livello che costano e hanno stipendi elevati. Da qui la necessità di alimentare costantemente il mercato della compravendita, possibilmente ragionata, per trarre le risorse necessarie a pagare i propri costi di gestione: nel triennio 2011/2014 il risultato operativo della squadra precedente al calciomercato è sempre stato negativo, per circa 20 mln all’anno: quando la società è riuscita a fare importanti plusvalenze ha portato a casa un risultato positivo (è successo nella stagione 2012/13, con 20 mln di utile), diversamente la cifra finale è in profondo rosso. D’altra parte sarebbe difficile il contrario: nel 2010 il Porto aveva un fatturato netto di 57 mln e costi del personale di 40, con un risultato operativo pre-calciomercato in perdita di 5,3 mln. Negli ultimi tre anni il fatturato è cresciuto fino a poco più di 72 mln, ma sono lievitati anche i costi del personale (46 mln, ma erano 54 l’anno prima) e le spese generali, arrivate a 45 mln anche per effetto di consulenze che da sole superano i 10 mln di euro. I finanziatori: le TPO Il Porto ci aiuta anche a introdurre un elemento che sta pesantemente condizionando il calciomercato mondiale: la presenza dei fondi di investimento. Probabilmente li avete sentiti nominare con la loro definizione inglese, TPO (Third-Party Ownership). Un fenomeno nato, almeno nella sua forma strutturata, una decina di anni fa, che si è sviluppato soprattutto in Sudamerica, fonte primaria di “esportazione” verso i ricchi mercati europei. Si tratta di investitori che acquisiscono una quota dei diritti economici di giovani calciatori considerati ad alto potenziale e li parcheggiano in squadre di prima divisione in attesa che si mettano in luce e vengano visti da osservatori stranieri, spesso contribuendo anche al pagamento dello stipendio. Al momento della vendita, la squadra che li ha messi “in vetrina” incassa la sua quota della vendita, mentre il fondo di TPO può decidere se liquidare tutto oppure se proporre all’acquirente di proseguire il rapporto direttamente. Secondo uno studio della KPMG, questo mercato interessa circa 1.100 giocatori per oltre un miliardo di euro investiti. Apparentemente una soluzione win-win per tutti. Il calciatore approda rapidamente in una squadra in grado di dargli la necessaria visibilità utile per la sua carriera; la squadra-vetrina si può permettere di avere in rosa elementi che non avrebbe potuto neanche avvicinare, il fondo guadagna su ciascuno di questi passaggi. Tornando al Porto, e solo per fare un esempio, la cessione del difensore Mangala al Manchester City è avvenuta per una cifra intorno ai 40 mln di euro, ma di questi quasi la metà sono entrati direttamente nelle casse di Doyen Group. Neymar Non sempre è tutto trasparente: il caso più eclatante è certamente quello di Neymar, il cui arrivo al Barcellona via Santos ha generato un vero e proprio terremoto: le dimissioni del Presidente, un processo per evasione fiscale a carico dei blaugrana e un contenzioso tuttora aperto in Brasile per capire quanto sia stato effettivamente pagato e a chi. Addirittura, pare esistere un documento siglato al momento del trasferimento in cui si dice esplicitamente che nel caso in cui le due squadre venissero condannate al pagamento di una cifra addizionale al fondo DIS (che possedeva una quota dei diritti economici sul calciatore e ha aperto un procedimento sostenendo di essere stato ingannato dalle due squadre), la stessa dovrà essere divisa in parti uguali fra Santos e Barcellona.

La presentazione di Neymar al Barcellona: alla sua destra l'attuale presidente, Ferran Bartomeu, alla sua sinistra l'ex direttore sportivo, Andoni Zubizarreta.

I critici delle TPO mettono in evidenza come le situazioni siano spesso poco chiare, anche perché alcuni di questi fondi hanno sede in paradisi fiscali e non fanno della trasparenza la propria dote migliore. La scorsa estate è uscito un libro in Italia, di Pippo Russo, dal titolo emblematico, Gol di rapina: tutto ciò che il tifoso che va allo stadio tutte le domeniche non vorrebbe sapere (se volete qui ci sono 40 minuti di pugni allo stomaco nel video di un suo intervento). A livello internazionale la UEFA ha da tempo preso una posizione dura confronti delle TPO, sostenendone anche la contrarietà ai principi etici e sportivi, arrivando addirittura allo scontro con la FIFA, che inizialmente nicchiava perché conscia che questo sistema tiene in piedi buona parte delle squadre di calcio sudamericane. Poi, quasi a sorpresa, lo scorso dicembre la FIFA ha messo al bando le operazioni TPO a partire dal prossimo 1° maggio 2015: quelle esistenti potranno essere portate a termine, ma nessuna nuova transazione di questo tipo potrà essere realizzata. Ma la battaglia è solo all’inizio, anche per via dell’immensa quantità di denaro in gioco: la Federazione spagnola e quella portoghese hanno presentato un reclamo formale ai Tribunali sportivi, mentre uno dei fondi, Doyen Group, ha addirittura chiamato in causa la FIFA, la UEFA e la Federazione francese in un tribunale di Parigi, dove l’udienza è prevista per il prossimo 28 maggio. I tre nuovi “alleati” (le Federazioni spagnola e portoghese e Doyen Group) hanno anche organizzato a metà aprile un convegno in Spagna per spiegare le proprie ragioni, mettendo in evidenza come il divieto imposto dalla FIFA non farà altro che creare un enorme disequilibrio a livello europeo: rendendo la Premier League (forte della recente firma del contratto monstre per la vendita di diritti televisivi a 2,3 miliardi di euro annui) irraggiungibile. La tesi sostenuta è che se oggi squadre come il Porto, il Benfica, l’Atlético Madrid e il Siviglia possono ancora provare a dire la loro a livello europeo, è solo perché hanno potuto costruire una rosa competitiva grazie al supporto finanziario di soggetti esterni. Il venir meno di questa alternativa le taglierà fuori da ogni possibile forma di competizione (se non come comprimari). E in Italia? Per il momento le TPO non sono ancora ufficialmente entrate in gioco, almeno nella forma tradizionale, anche se casi di calciatori che gravitano nell’orbita dei fondi ce ne sono: la Juventus, ad esempio, oltre ad avere in Tévez l’uomo che per il momento sta contribuendo in maniera decisiva ai risultati di questa stagione, annovera anche Morata. Tévez rappresenta uno dei primi casi “famosi” di TPO: giunto insieme a Mascherano nel 2006 dal Corinthians al West Ham, generò scalpore in Inghilterra al punto che la Federazione multò il club con 5,5 mln di sterline ed emise un divieto esplicito di ricorrere a questo genere di operazioni. La ragione è che all’epoca dell’operazione non era stato dichiarato che una parte dei diritti di sfruttamento economico dei due calciatori non era di proprietà del club che li aveva ceduti, ma di investitori finanziari (Media Sport Investment di Kia Joorabchian, che era anche socia del club e Jus Sport Inc.). Morata, invece, non è ufficialmente di proprietà di terzi, ma appare fra i calciatori “rappresentati” da Doyen Sport, che nella scheda sul suo sito internet precisa che «non detiene altri diritti a parte quelli di rappresentanza»: sarà, ma la coincidenza è strana.

Juan Manuel Iturbe ai tempi del Verona.

Ma non sono solo le grandi: l’anno scorso il Verona ha praticamente messo a posto il bilancio con l’operazione Iturbe, condotta insieme al Porto. Prima di vendere il calciatore alla Roma lo ha riscattato per una cifra di 15 mln dal Porto, che però ne deteneva solo il 45%. Il resto lo ha verosimilmente incassato la Penchill Limited, anche se il bilancio del Porto non è esplicito su questo punto. Quest’anno ci avevano provato il Genoa (con Lestienne) e la Sampdoria (con Correa), peraltro apparentemente senza riuscire a replicare il successo degli scaligeri. Ma si tratta di modalità operative differenti, perché i calciatori sono giunti in prestito con diritto di riscatto da squadre (che si dice, questo sì) riconducibili a fondi TPO. Nonostante Doyen Group abbia apertamente dichiarato, nel maggio del 2014, di essere pronta a investire 200 mln di euro sulla Serie A, a oggi non si hanno notizie di operazioni effettivamente finanziate nella forma classica, cioè acquisendo una quota dei diritti di economici legati alle prestazioni sportive del calciatore. Certo, anche i fondi stanno cambiando pelle, spostandosi progressivamente dalla compravendita del singolo calciatore verso operazioni di finanziamento a medio termine di un club. Non a caso sono girate voci di un supporto esterno della Doyen a favore dell’offerta del thailandese Bee Taechaubol per rilevare il controllo del Milan. L’Italia ha avuto un modo diverso, più casereccio, di gestire il fenomeno delle plusvalenze, spesso camminando sul filo del rasoio, allo scopo di generare ricavi a bilancio necessari per mitigare le perdite di esercizio. Quanto poi questi ricavi avessero realmente una base solida, non è dato saperlo. A giudicare dall’esperienza del Parma, che aveva costruito una catena di montaggio delle plusvalenze basata su una sorta di pesca allo strascico di calciatori a parametro zero da piazzare poi in giro per i campionati, non si direbbe. Ma esistono centinaia di operazioni che sono state fatte negli ultimi anni. Può essere utile tenere presente un dato in particolare: secondo l’edizione di Report Calcio che analizzava i dati del quinquennio 2008/2013, il calcio professionistico italiano (quindi l’aggregato di Serie A, Serie B e Lega Pro) ha fatto registrare un valore della produzione totale di 12,7 miliardi di euro, con perdite totali per circa 4,1 miliardi di euro. Nello stesso periodo le squadre hanno realizzato plusvalenze nette per oltre 2,3 miliardi di euro: parliamo del 18,5% del totale dei ricavi. Vuol dire che un quinto dell’attività dipende dalle plusvalenze o, se vogliamo leggerla in maniera diversa, in assenza di questa voce, il nostro sistema calcio produrrebbe perdite pari al 50% del fatturato. Questa affermazione è ovviamente un’iperbole, perché il calciomercato non può e non deve essere solo demonizzato; tuttavia ci serve per inquadrarne l’importanza nel contesto dell’analisi. Le squadre professionistiche italiane sono obbligate dalle le Norme Federali (NOIF) a pubblicare all’interno dei propri bilanci il dettaglio di tutte le transazioni effettuate, indicando cifre di acquisto e rivendita dei calciatori e, di conseguenza, le plusvalenze effettuate. Basta un po’ di pazienza e si può trovare tutto, anche se talvolta si incontrano delle vere e proprie ragnatele di trasferimenti, dei puntini che devono essere uniti per capire il senso complessivo di quello che i club hanno messo in piedi. Investire sullo scouting rende Uno dei modelli in Serie A è quello dell’Udinese, che nel bilancio 2014 ha dichiarato una spesa netta di 22,6 mln di euro (cifra simile a quella dell’anno precedente) per sostenere la propria rete di osservatori e per l’acquisto di giovani calciatori in giro per il mondo, destinati poi a essere inseriti in una delle squadre della famiglia Pozzo. Oltre all’Udinese, i Pozzo gestiscono anche una squadra inglese (il Watford) e una spagnola (il Granada), che spesso usano per far giocare quei giocatori non ancora al top della loro crescita sportiva, per poi riportarli in Friuli quando sono pronti e, infine, vendendoli quando hanno raggiunto un valore di mercato elevato.

Alexis Sánchez, il più forte dei giocatori pescati in tempi recenti dall'Udinese in giro per il mondo e poi venduti a peso d'oro.

Anche grazie a questo approccio la società friulana ha potuto chiudere i propri bilanci con utili elevati negli ultimi anni: con l’eccezione della stagione scorsa, che ha fatto registrare una perdita di 12 mln (dovuta alla scelta di chiudere tutte le compartecipazioni esistenti senza rinnovarle) nei due anni precedenti l’Udinese si era portata a casa quasi 41 mln di utili e, elemento di non poca importanza, presentava al 30 giugno 2014 una differenza fra crediti e debiti da calciomercato positiva per 61 mln di euro. Parte della finanza necessaria alla costruzione del nuovo stadio viene anche da qui, segno che si vuole sfruttare questa linea di business per rafforzare le basi. Plusvalenze Football Club Ci sono altri modi di operare. La prassi più frequente è lo scambio di comproprietà sui giovani della Primavera o appena giunti in prima squadra. Cifre vertiginose, a volte anche vicine ai 10 mln di euro, per operazioni di scambio di ragazzi certamente validi, ma che altrettanto certamente non valevano quelle cifre. In questo caso si parla di massimizzazione della plusvalenza, perché il giovane della cantera è a bilancio ad un prezzo vicino allo zero, quindi la vendita porta un profitto pieno. Quelli più accorti cercano di spalmare l’operazione su due o tre ragazzi contemporaneamente, con valori unitari più bassi, ma cambia poco, perché alla fine spesso vengono addirittura lasciati in prestito al settore giovanile della squadra venditrice: è chiaro, quindi, che l’operazione nasceva dall'inizio con obiettivi diversi da quelli strettamente sportivi. Anche perché l’anno dopo si annulla tutto e ciascuno si riprende i suoi. L’effetto economico è stato raggiunto, si torna alla “normalità”. Il senso sportivo di queste operazioni? Nullo. Scavando fra i bilanci, però, possiamo delineare l'identikit della squadra “ideale” basata solo su operazioni di questo tipo. La squadra di cui stiamo parlando milita prevalentemente in Serie B ed è al centro di quello che sembra un vero e proprio sistema. Vende calciatori molto giovani a squadre che in quel momento, di solito, sono in Serie A, realizzando plusvalenze milionarie (anche se con poca fantasia: il prezzo di vendita è quasi sempre di 2,4 mln di euro!). Ottimo scouting? Insomma. Di solito questi ragazzi, appena arrivati in una squadra importante, curiosamente vengono dirottati in serie minori: quando va bene la Lega Pro 2, talvolta anche inferiori. Il business sta nel fatto che, magari solo qualche mese dopo, viene creata un’analoga operazione di senso opposto (dalla squadra di Serie A alla nostra squadra immaginaria in B), di solito in tempo utile per essere inclusa nello stesso bilancio e neutralizzare la prima. Il risultato è che ciascuna delle due squadre ha realizzato una plusvalenza di 2,4 mln e compensano i reciproci crediti senza dover tirar fuori un euro. La Plusvalenze Football Club, orgoglio tricolore, si rende protagonista anche di un episodio strano. In un anno in cui sembra avere tutte le carte in regola per la promozione in Serie A, nel mercato di gennaio vende tre calciatori alla sua principale concorrente per la promozione. In realtà, nessuno di questi era determinante per la Plusvalenze FC, né lo sarà per la sua concorrente/acquirente. Che però paga in totale 7 mln di euro, favorendo la generazione di plusvalenze per 6,7 mln. Curiosamente, le due squadre proseguono il testa a testa in campionato, con la Plusvalenze in vantaggio (come lo era prima della vendita) e stabilmente nella zona playoff fino a quando, proprio verso la fine, frena improvvisamente. E nonostante l’altra non brilli, frena così tanto e così all’improvviso da farsi superare. Per la cronaca, uno dei calciatori venduti a gennaio non ha giocato neanche un minuto ed è stato poi spedito in prestito in Lega Pro, gli altri due sono spariti dall’organico della società acquirente (che nel frattempo è arrivata in Serie A) l'anno dopo, ceduti in serie minori. I tifosi della Plusvalenze, che è rimasta in Serie B, forse faticherebbero a credere che si tratta solo di una coincidenza, ma probabilmente non hanno letto i bilanci e pensano che il tutto sia accaduto solo per demeriti sportivi. Realtà o fantasia? Questi non sono che alcuni degli esempi del modo distorto in cui in nostri club hanno costruito operazioni formalmente inattaccabili (chi può dare un vero valore a un giovane calciatore? Pogba è stato preso pochi anni fa per meno di mezzo milione di euro), ma che si legge lontano un miglio essere costruite ad arte per cercare di tappare le falle di una gestione anti-economica. Le plusvalenze possono essere uno strumento di gestione importante, specialmente per squadre che per bacino d’utenza sanno di non poter accedere a ricavi alternativi ai diritti televisivi, ma se vengono usate (come di solito è accaduto) per tappare falle di bilancio, è necessario che poi si intervenga rapidamente sul problema (ovvero il deficit fra costi e ricavi), altrimenti questo modo di gestire è destinato a travolgere inesorabilmente le finanze della squadra. Come ad esempio è successo, in questo caso la citazione ci sta tutta, al Parma.

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