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Foto di Nathaniel S. Butler/NBAE via Getty Images
NBA Lorenzo Bottini 25 maggio 2021 8'

Il cambio della guardia dei playoff NBA

Devin Booker, Trae Young e Ja Morant hanno debuttato alla grande nella post-season.

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Storicamente l’inizio dei playoff è lo spartiacque tra due sport diversi. Se prima si è riso e scherzato durante partite che contavano relativamente poco, sparse all’interno di una regular season in cui si gioca un giorno sì e l’altro no, coi playoff si fa sul serio e sono i campioni veri a prendere la parola nelle partite in cui ogni possesso vale. Quando il tempo del divertimento finisce e arriva l’ora di mettersi a lavoro, secondo il sentire comune, sono gli adulti a presentarsi a timbrare il tesserino, mentre i giovani devono sedersi per seguire meglio la lezione.

 

Ma questa prima infornata di partite del weekend ci ha invece mostrato quanto la curva di apprendimento nella NBA contemporanea si sia accorciata, e in una serie di upset sono stati proprio i ragazzi terribili alla prima apparizione nella post-season a prendersi la scena. Devin Booker ha guidato i suoi Phoenix Suns alla vittoria contro i campioni in carica dei Los Angeles Lakers nonostante Chris Paul non riuscisse ad alzare un braccio; Ja Morant dopo aver mandato a casa Steph Curry e Golden State ha sorpreso anche i primi della classe, gli Utah Jazz a Salt Lake City; e Trae Young ha zittito tutto il Madison Square Garden con il canestro decisivo a meno di un secondo dal termine.

 

Nella prima partita di playoff della loro carriera non solo hanno segnato tutti più di 25 punti, ma hanno guidato le rispettive squadre alla vittoria, dimostrando di non essere solamente dei prolifici realizzatori ma dei leader capaci di motivare e migliorare i loro compagni. Quello che si chiede alle proprie superstars quando arrivano i playoff.

 

Devin Booker

Per tutta la stagione si è discusso dell’impatto balsamico di Chris Paul su Devin Booker e i Phoenix Suns, che con il suo arrivo sono finalmente tornati ai playoff dopo un decennio, ma nella prima partita di post-season è stato il giovane padawan a trascinare il venerabile maestro. Uno scontro di gioco nel secondo quarto infatti ha costretto CP3 a uscire per un problema al braccio destro che, nonostante sia cocciutamente rientrato in campo, non ha potuto garantire la solita dose di leadership e jumper dalla media distanza.

 

È stato così Booker a caricarsi sulle spalle l’intero attacco dei Suns nonostante i Lakers cercassero di fermare solo lui, mandandogli continuamente due o tre uomini ogni volta che toccava palla. Tutto inutile perché il prodotto di Kentucky ha chiuso con 34 punti, 8 assist e 7 rimbalzi mostrando grande maturità nell’affrontare i raddoppi losangelini uscendone con brillanti soluzioni individuali o premiando i compagni con precisi passaggi per creare la superiorità numerica.

 

Ha trovato in DeAndre Ayton un perfetto compagno con il quale danzare nei pick and roll, sia liberando un quarto di campo che usando la variante definita “Spain” o “Stack”, con un blocco cieco verticale per liberare il primo bloccante, grazie ai piedi leggeri e alle mani soffici del centro bahamense anche lui al debutto nei playoff. La prima scelta assoluta del Draft 2018 ha dominato il confronto diretto con Anthony Davis, punendo la pigrizia del monociglio e garantendo costantemente una soluzione comoda per Booker, oltre a dominare a rimbalzo d’attacco (8 dei suoi 16 finali, insieme a 21 punti).

Here's a look at Devin Booker's excellent passing in Game 1. Carved up the Lakers. pic.twitter.com/WilrCC4zvB

— Anthony Slater (@anthonyVslater) May 24, 2021

Negli anni Booker ha lucidato il proprio talento realizzativo fino a costruire un gioco che rispondesse a ciò che viene chiesto ai playoff, quando anche la minima inefficienza viene punita. E quando è finalmente arrivato su un palcoscenico degno del suo valore ha vivisezionato la miglior difesa della NBA con freddezza chirurgica. Le sue scelte sono state precise, il suo jumper letale, e ogni volta che entrava nel pitturato la completa estensione delle braccia dei lunghi dei Lakers risultava sempre troppo corta per arrivare a sfiorare le sue conclusioni.

 

 

 

«Ci sono un sacco di situazioni in cui ho il pallone in mano o voglio il pallone, ma vedendolo gestire il gioco non ho potuto che essere arrabbiato con me stesso perché avrei voluto aiutarlo di più» ha detto Chris Paul a fine partita, aggiungendo che «tutti quelli che aspettavano di vederlo in una partita di playoff sono stati accontentati».

 

Forse tra chi voleva vederlo non c’erano i Lakers, che a cavallo di terzo e quarto periodo hanno visto ricacciate indietro le loro velleità di rimonta da 14 punti su 16 di squadra firmati da Booker. Ora dovranno trovare un altro modo per difendere su di lui mettendoci più intensità e concentrazione, due qualità che è stato difficile trovare in Gara-1 sulla sponda gialloviola. Quello che è certo, indipendentemente da come finirà la serie, è che i giovani Suns sono affamati e per niente spaventati dal ritrovarsi faccia a faccia con i campioni in carica.



Trae Young

Non è facile rendere silenzioso il Madison Square Garden, specie se è la prima partita di playoff dei Knicks dopo più di un lustro e dopo una pandemia che ha tenuto chiusi gli stadi per oltre 15 mesi. Ma Trae Young non solo ci è riuscito dopo una partita in cui il pubblico del Garden lo ha apostrofato tuonando “FUCK TRAE YOUNG” a piena voce sin dalla palla a due, ma non ha mancato di sottolinearlo a tutta New York – diventando il nuovo nemico numero 1 della Grande Mela manco fosse un cattivo di Batman. Il suo floater con 0.9 secondi sul cronometro ha dato ai suoi Atlanta Hawks la prima vittoria in trasferta della serie nel modo più spettacolare e drammatico.

 

La stagione di Young è stata strana come tutta quella di Atlanta, prima affogata nel fallimento della gestione Lloyd Pierce (con cui si diceva non avesse un gran rapporto) e poi sottovalutata lungo la rimonta guidata da coach Nate McMillan, che ha garantito il quinto posto ad Est e la sfida al primo turno contro i Knicks. E Trae Young ha lasciato da parte le acrobazie dei suoi primi anni per diventare più consistente e quindi per certi versi più noioso, almeno fino a gara-1.


Nella sua prima apparizione in post-season della carriera si è ripreso tutti i riflettori che gli spettano, segnando 32 punti, distribuendo 10 assist e catturando persino 7 rimbalzi. Ma soprattutto ha tenuto sotto costante pressione la difesa di Thibodeau, che non ha ancora trovato un modo per rallentarlo. Young ha fatto a fette i Knicks con la sua abilità nel manipolare le difese avversarie usando i blocchi sulla palla, generando 40 punti quando ha portato il pallone in un pick and roll (dato Synergy).

 

In particolare nell’ultimo quarto di gioco Young ha abusato delle difficoltà di Taj Gibson nel difendere nello spazio usando lo “Spain” pick and roll per creare facili conclusioni per i suoi compagni: prima un assist al ferro per Clint Capela, poi uno skip pass no look in angolo per Bogdan Bogdanovic e infine un passaggio dietro la schiena per una tripla in punta di De’Andre Hunter.

 

 

 

E dopo essere riuscito ad allargare le maglie della difesa, ha finalmente cominciato a lucrare fischi arbitrali approfittando dell’inesperienza dei giovani Knicks, che si sono fatti attrarre nelle sue trappole con troppa ingenuità e scatenando l’ira del pubblico newyorkese – il quale però non era ancora pronto a quello che sarebbe successo da lì a poco.

 

Con il punteggio fissato sul 105 pari da un tiro in corsa di Derrick Rose, Young ha ricevuto il pallone nella sua metà campo, si è trovato davanti Frank Ntilikina – inserito a freddo solo per marcarlo – e Taj Gibson che aveva appena sfilato la scarpa a John Collins, se li è bevuti con due rapidissimi palleggi incrociati e si è involato verso l’area sguarnita di New York. Con il solo Julius Randle nel pitturato Young ha alzato una parabola perfettamente disegnata, accolta dalla retina dopo una breve discussione con il ferro. Un tiro che Trae ha dovuto imparare subito per sopravvivere visto che è sempre stato, fin dalla giovane età, il più piccolo e il più leggero in campo. E anche i fischi e i cori che sono piovuti dalle gradinate roventi del Madison Square Garden sono un rumore di fondo al quale è abituato, e che anzi ha imparato a usare come motivazione per essere ancora più spietato, anzi ancora più glaciale – come il suo soprannome “Ice Trae”.

 

Ja Morant

Che settimana da ricordare per Ja Morant: prima la vittoria in casa di Golden State per strappare il biglietto valido per l’ultimo posto nella griglia dei playoff vendicando la delusione del play-in dello scorso anno, poi l’affermazione in Gara-1 contro la migliore squadra in stagione regolare.

 

Dopo un primo quarto contratto nel quale ha fatto grossa fatica a trovare la via del canestro, Memphis si è distesa nei periodi centrali accumulando un vantaggio in doppia cifra sfruttando le orrende percentuali da oltre l’arco dei Jazz e un rovente Dillon Brooks (anche lui, manco a dirlo, all’esordio ai playoff) autore di 31 punti.

 

Ma nell’ultimo quarto di gioco, quando le triple di Utah stavano cominciando ad entrare e il margine a ridursi, è stato Morant a prendere in mano la partita. Sapeva che i suoi non avrebbero avuto un’altra occasione così ghiotta a Salt Lake City, con Donovan Mitchell in borghese (non senza nervosismo in casa Jazz) e Rudy Gobert fuori per falli, e ha cominciato ad attaccare frontalmente la difesa di Utah – esponendo i problemi nel contenere le penetrazioni dritto per dritto.

 

Approfittando della strategia usata dai Jazz nel difendere il pick and roll, ovvero tenendo il lungo a protezione del pitturato in quella che viene normalmente chiamata “drop coverage”, Morant ha banchettato nello spazio tra il primo e il secondo difensore mettendo in mostra una serie di conclusioni più vicine alla ginnastica artistica che al basket, le stesse con cui aveva già punito gli Warriors nel supplementare del play-in.

 

Come avesse infatti delle articolazioni in più rispetto a quelle che ci insegna l’anatomia umana, Morant si piega e si allunga in un modo talmente imprevedibile da rendere ogni azione unica e disorientante. L’esplosività, la rapidità e la coordinazione di Morant lo rendono un incubo per i lunghi avversari che se lo vedono arrivare addosso a tutta velocità e che possono solo provare ad indovinare da che parte passerà.

 

 

 

Morant ha segnato 10 dei suoi 26 punti nel quarto finale, tutti nel pitturato sfruttando la sensibilità di entrambe le mani per finire in traffico con i suoi ormai automatici floater o stirandosi al ferro come un fumetto di Hanna-Barbera. E Memphis ha avuto bisogno di ogni singolo canestro per tener testa alla rimonta di Utah, infiammata da un Bojan Bogdanovic da 20 punti nel solo quarto periodo.

 

Ma è stato – come si dice in questi casi – troppo poco e troppo tardi. Già domani sera Utah dovrà rimettere in parità questa serie, approfittando del ritorno in campo di Donovan Mitchell, perché sottovalutare Ja e questi Grizzlies è un peccato mortale che già in molti hanno commesso.

 

I debuttanti si sono affacciati per la prima volta ai playoff ed hanno già rubato la scena, ma attenzione a pensare che sia stata solo la fortuna del principiante: Devin Booker, Trae Young e Ja Morant sono qui per restare e le prestazioni dell’ultimo weekend sono solo l’inizio di tre carriere che si preannunciano lunghe e piene di soddisfazioni nella post-season.

 

 

 

 

Tags : devin bookerja moranttrae young

Lorenzo Bottini nasce nel 1989 a Roma. Si laurea in Storia del cinema interessandosi soprattutto dei rapporti con i nuovi media. Folgorato sulla via di Detroit dai due Wallace, ritiene lo sport uno dei pochi modi rimasti per creare modelli comunitari.

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